Con la sentenza in commento la Suprema Corte stabilisce l’importante principio in tema di residenza fittizia delle persone fisiche di cui all’art. 2, co. 2-bis del TUIR secondo cui il trasferimento fittizio di residenza del contribuente in Stati o territori con regimi fiscali agevolati non può essere riscontrato direttamente dalla circostanza dell’adesione del contribuente medesimo all’istituto della regolarizzazione delle attività detenute all’estero, ai sensi dell’art. 15 del d.l. n. 350 del 2001, conv. dalla l. n. 409 del 2001 (c.d. scudo fiscale).
La pronuncia della Cassazione annulla la decisione della commissione tributaria regionale che aveva confermato la legittimità di un avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria e fondato sulla natura fittizia del trasferimento di residenza effettuato dal contribuente il quale aveva aderito, altresì, all’istituto del c.d. scudo fiscale, finalizzato al rimpatrio dei capitali e alla regolarizzazione delle attività finanziarie detenute all’estero. In particolare, il giudice di appello aveva ritenuto che l’adesione del contribuente allo scudo fiscale costituisse una formale autodichiarazione – per l’anno in accertamento – della residenza fiscale in Italia, senza alcuna possibilità per il medesimo di offrire la prova contraria alla presunzione legale di cui all’art. 2, co. 2 – bis del TUIR (nel testo vigente ratione temporis).
Conseguentemente, in accoglimento del ricorso presentato dal contribuente, la Suprema Corte, considerato che i criteri per la determinazione della residenza fiscale in Italia sono esclusivamente quelli indicati nell’art. 2, del D.P.R. n. 917 del 1986, rileva che la regolarizzazione di alcune attività detenute all’estero, non determina, per ciò solo, in assenza di una specifica dichiarazione in tal senso, l’effetto della acquisizione, da parte del dichiarante, della residenza in Italia, né quello di privarlo, per una sorta di implicita rinuncia, del diritto alla prova contraria, convertendo la presunzione in certezza.