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Sommario: 1. Normativa del Patent box in Italia – 2. Eliminazione dei marchi d’impresa dal campo di azione della normativa del Patent box – 3. Raccomandazioni 2015 dell’OCSE – 4. Evoluzione della definizione del marchio da parte della Corte di Giustizia Europea: funzione di investimento del marchio quale base concettuale per una reintroduzione dei marchi d’impresa nell’alveo della normativa del Patent box.
1. Normativa del Patent box in Italia
Con la Legge di Stabilità 2015, nei commi da 37 a 45, si è introdotto anche in Italia[1] il regime opzionale del Patent box, consistente nella tassazione agevolata per i redditi derivanti dall’utilizzo e/o dalla cessione di “opere dell’ingegno, da brevetti industriali, da marchi, disegni e modelli nonché da processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili”. Come sarà discusso nel paragrafo 2, con il DL n.50 del 24 aprile 2017, convertito in legge il 15 giugno 2017, sono stati eliminati i marchi d’impresa dal campo di applicazione del Patent box.
Con l’introduzione del regime del Patent box il legislatore si è posto l’obiettivo di favorire gli investimenti in attività di ricerca e sviluppo in Italia, incentivando la collocazione nel nostro Paese dei beni immateriali attualmente detenuti all’estero e il loro mantenimento in Italia evitandone la ricollocazione all’estero verso regimi fiscali più favorevoli.
L’applicazione del regime opzionale è valida sia ai fini IRES che IRAP.
Al regime opzionale del Patent box si è data attuazione tramite un Decreto Ministeriale firmato dal Ministro dello Sviluppo Economico e dal Ministro dell’Economia e delle Finanze il 30 luglio 2015 (DM 30 luglio 2015), a cui ha fatto seguito un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate firmato il 10 novembre 2015, con cui si è messo a disposizione delle imprese il modello online per aderire alla tassazione agevolata dei redditi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali. Sono seguiti altri provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate e il decreto del Ministro dello Sviluppo Economico di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze dello scorso 28 novembre 2017 (DM 28 novembre 2017) che ha introdotto modifiche al DM 30 luglio 2015, resesi necessarie per effetto dell’eliminazione dei marchi d’impresa dal regime del Patent Box come previsto dal DL n. 50 del 24 aprile 2017.
La misura è rivolta a tutti i titolari di reddito d’impresa, a prescindere da forma giuridica, dimensione e regime contabile.
Tra i beneficiari rientrano anche i trust, con o senza personalità giuridica, non residenti nel territorio dello Stato, a condizione di essere residenti in Paesi con i quali è in vigore un accordo per evitare la doppia imposizione e con i quali lo scambio di informazioni sia effettivo (c.d. Paesi white list).
Per usufruire dell’agevolazione, efficace dal 2015, è necessario esercitare apposita opzione irrevocabile e valida per 5 anni.
L’opzione ha ad oggetto i redditi derivanti dall’utilizzo di:
- software protetto da copyright;
- brevetti industriali, concessi o in corso di concessione, italiani o esteri, compresi i certificati complementari di protezione, i brevetti per modello di utilità, i brevetti e certificati per varietà vegetali e le topografie di prodotti a semiconduttori;
- i disegni e modelli registrati e non registrati; le informazioni aziendali segrete e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali o scientifiche proteggibili come informazioni segrete e giuridicamente tutelabili (c.d. know how);
- beni immateriali legati tra loro da vincoli di complementarietà tali da non poter essere, in sostanza, separati ai fini della determinazione del reddito agevolabile correlabile al singolo bene immateriale. Tali beni sono stati ricompresi nella normativa del Patent box secondo quanto previsto dal DL n. 50 del 24 aprile 2017.
I redditi agevolabili possono derivare:
- dall’uso diretto dei beni, per cui è necessario individuare per ciascun bene immateriale oggetto dell’opzione, il contributo economico che ha concorso alla formazione del reddito d’impresa. In questo caso è necessario attivare un’apposita procedura di ruling con l’Agenzia delle Entrate;
- da una licenza d’uso, per cui il reddito agevolabile sarebbe costituito dai canoni ottenuti dalla concessione in uso, al netto dei costi fiscalmente rilevanti diretti e indiretti;
- dalle plusvalenze ottenute da una cessione dei beni immateriali, che sono completamente escluse dalla formazione del reddito di impresa purché almeno il 90% del corrispettivo ottenuto sia reinvestito, prima della chiusura del secondo periodo di imposta successivo a quello nel quale è avvenuta la cessione, in attività di ricerca e sviluppo di altri beni immateriali svolte direttamente dal cedente, mediante contratti di ricerca con università o enti equiparati, contratti di ricerca con società, incluse le start up innovative che hanno con l’impresa beneficiaria un legame di controllo diretto o indiretto.
La quota di reddito e del valore della produzione che può essere oggetto di agevolazione è definita in base al rapporto tra i costi di attività di ricerca e sviluppo sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene immateriale eleggibile e i costi complessivi sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene stess[2]. La detassazione quindi non riguarda l’intero reddito derivante dall’utilizzo del bene immateriale, ma solo quella parte specificamente connessa all’attività di ricerca e sviluppo.
Si tratta del c.d. nexus approach, metodo elaborato dall’OCSE per garantire il rispetto del requisito dell’attività sostanziale che impone che le attività beneficiarie di regimi agevolati siano effettivamente svolte nello Stato che concede l’agevolazione[3]. I costi di attività di ricerca e sviluppo relativi al bene intangibile costituiscono quindi una proxy dell’esistenza di un’attività sostanziale svolta nel Paese che concede l’agevolazione fiscale.
L’applicazione di tale metodo ha finalità antielusive prevenendo che il reddito venga delocalizzato dal Paese dove il valore è stato creato verso altri Paesi con fiscalità agevolata.
Le fasi del procedimento di calcolo dell’agevolazione si possono così sintetizzare:
- determinazione del coefficiente derivante dal rapporto tra costi qualificati per l’attività di ricerca e sviluppo sostenuti per il mantenimento, l’accrescimento e lo sviluppo del bene immateriale e i costi complessivi sostenuti sul medesimo bene;
- individuazione del reddito agevolabile, moltiplicando il reddito derivante dall’utilizzo del bene immateriale per il coefficiente derivante dal suddetto rapporto tra costi qualificati e costi complessivi;
- applicazione al reddito agevolabile della percentuale di esclusione: 30% per il periodo d’imposta 2015; 40% per il 2016 e 50% per i periodi d’imposta a partire dal 2017.
2. Eliminazione dei marchi d’impresa dal campo di azione della normativa del Patent box
Il DL n. 50 del 24 aprile 2017 convertito in legge il 15 giugno 2017, recante disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo, la c.d. “manovrina” di correzione finanziaria, prevede anche l’esclusione dei marchi d’impresa dall’agevolazione del Patent box. Inoltre, la norma prevede l’introduzione, sempre nell’ambito della normativa del Patent box, di un’ulteriore tipologia caratterizzata dalla compresenza di più beni immateriali agevolabili legati tra loro da vincoli di complementarietà tali da non poter essere, in sostanza, separati ai fini della determinazione del reddito agevolabile correlabile al singolo bene immateriale. In questa categoria, vi rientrano tutti i beni immateriali agevolabili espressamente indicati dalla disciplina del Patent box, ossia il software protetto da copyright, i brevetti industriali, i disegni e modelli, nonché i processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico giuridicamente tutelabili.
Le nuove disposizioni sono valide a partire dal 2017, facendo salve le opzioni esercitate per gli anni d’imposta 2015 e 2016.
Con il suddetto DM 28 novembre 2017 sono state modificate le disposizioni attuative del regime di Patent box contenute nel DM 30 luglio 2015 per allinearle alle nuove disposizioni contenute nel DL n.50 del 24 aprile 2017. In particolare, le modifiche introdotte riguardano: a) la rimozione dei marchi d’impresa dal novero dei beni agevolabili per il regime opzionale, con conseguente e relativa esclusione delle attività di ricerca e sviluppo, di cui all’art. 8 del DM 30 luglio 2015, del riferimento alle attività di “presentazione, comunicazione e promozione” dei marchi; b) la riformulazione della nozione di beni immateriali legati da vincoli di complementarietà e utilizzati congiuntamente, prevedendo che qualora vi sia un rapporto di complementarietà con un marchio non si potrà beneficiare del regime fiscale del Patent box.
L’esclusione dei marchi d’impresa dall’agevolazione del Patent box è volta ad allineare la disciplina di tale regime fiscalealle linee guida dell’OCSE, e, in particolare, alle raccomandazioni contenute nel documento “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”. Tale documento costutuisce l’azione 5 del Beps (Base Erosion and profit shifting) Action Plan 2015 dell’OCSE.
3. Raccomandazioni 2015 dell’OCSE
Con il termine Beps si intendono le pratiche fiscali dannose con cui viene sottratto reddito imponibile allo Stato di produzione o Stato fonte in favore di altri Stati che prevedono regimi fiscali più favorevoli. Tali pratiche fiscali elusive sottraggono ingenti risorse alle economie nazionali che potrebbero essere utilizzate per il bene comune: politiche di welfare, piani di consolidamento post-crisi, ecc. Pratiche fiscali di questo tipo impattano negativamente anche sulla fiducia da parte dei cittadini nei sistemi fiscali, contribuendo ad erodere il c.d. capitale civico.
Per tali ragioni, durante il summit del G20 del 19 giugno 2012, tenutosi in Messico, è stato affrontato il problema. Successivamente, durante il summit del G20 del 5-6 novembre 2012 è stato dato mandato all’OCSE di approfondire il tema.
L’OCSE ha poi presentato, durante la riunione del G20 del 19-20 luglio 2013 tenutasi a Mosca, un primo rapporto, l’Action Plan on Base Erosion and Profit Shifting, in cui individua un piano d’azione articolato su quindici misure, finalizzato ad affrontare il problema sul piano internazionale.
Il 16 novembre 2014 l’OCSE ha presentato un pacchetto di rapporti e infine il 5 ottobre 2015 sono stati pubblicati i risultati finali dell’intero progetto, i c.d. final reports.
I final reports costituiscono un pacchetto di misure di contrasto ai Beps che prevedono standard minimi in materia di scambio d’informazioni tra Paesi, di abuso dei trattati, di limitazione delle pratiche fiscali dannose, di scambio automatico di informazioni in sede di accordi fiscali tra multinazionali e Paesi (c.d. ruling) e di accordi tra le amministrazioni fiscali per evitare che le azioni di contrasto alla doppia non imposizione si traducano in una doppia imposizione.
Il pacchetto di misure comprende in tutto 15 azioni. In questa sede, ci interessa la su richiamata azione 5 “Countering Harmful Tax Practices More Effectively, Taking into Account Transparency and Substance”, che, con la finalità di contrastare le pratiche fiscali dannose, ha l’obiettivo di potenziare il suddetto requisito dell’attività sostanziale tramite il quale definire se un regime fiscale è dannoso e quindi facilita pratiche di erosione di basi imponibili.
Con riferimento ai regimi fiscali agevolati aventi ad oggetto beni intangibili, l’azione 5 analizza 16 regimi fiscali riferiti a tali beni, evidenziando come tutti siano non coerenti, in tutto o in parte, con il suddetto nexus approach. Nel documento relativo all’azione 5, si evidenzia anche come tale incoerenza diffusa sia riconducibile al fatto che la metodologia del nexus approach è stata elaborata nell’ambito del progetto Beps in via successiva rispetto all’introduzione di tali regimi fiscali agevolati.
Nel documento viene anche esplicitamente indicato che i marchi d’impresa devono essere tenuti fuori da regimi fiscali agevolati aventi ad oggetto beni immateriali, dato che tali beni intangibili si potrebbero prestare maggiormente a pratiche elusive di delocalizzazione dei redditi ad essi riferiti dai Paesi dove sono stati generati verso altri Paesi con fiscalità agevolata.
Per tale motivo, nel nostro Paese si è di recente intervenuti con il DL n. 50 del 24 aprile 2017 convertito in legge il 15 giugno 2017, con cui i marchi d’impresa sono stati eliminati dal campo di applicazione della normativa del Patent box.
In proposito si evidenzia che nel report dell’OCSE “Harmful Tax practices – 2017 Progress Report on Preferential Regimes”, pubblicato il 16 ottobre 2017, il Patent box italiano non è più classificato come dannoso, fatta eccezione per il periodo compreso tra il 30 giugno e il 31 dicembre 2016, durante il quale erano ammesse all’agevolazione fiscale anche le domande di opzione relative ai marchi d’impresa.
4. Evoluzione della definizione di marchio da parte della Corte di Giustizia Europea: funzione di investimento del marchio quale base concettuale per una reintroduzione dei marchi d’impresa nell’alveo della normativa del Patent box
Il marchio rientra a pieno titolo tra i beni intangibilidelle aziende, che sempre più investono nella sua valorizzazione, ed il suo livello di riconoscimento/apprezzamento da parte dei consumatori in molti casi non è semplice frutto di “eccessive” campagne di marketing attraverso cui reclamare proprietà di cui i prodotti “marchiati” sono effettivamente prive, pratiche tra l’altro specificamente vietate dalla legge.
Di seguito si evidenzia come, considerando una visione più complessa delle funzioni del marchio che non si limiti a considerare lo stesso come indicatore del bene/servizio marchiato de quo, ci possano essere margini per un reinserimento, a certe condizioni, dei marchi tra i beni intangibili che possono beneficiare del regime fiscale agevolato previsto dalla normativa del Patent box, cercando un allineamento “virtuoso” nell’ordinamento italiano alle su richiamate raccomandazioni dell’OCSE.
Per visione più complessa delle funzioni del marchio si intendono i nuovi orientamenti della Corte di Giustizia Europea, che, dovendosi confrontare con le novità attinenti ai nuovi media è venuta elaborando una giurisprudenza innovativa circa le funzioni dei marchi.
A fini esemplificativi, si riporta brevemente il caso Interflora/Marks & Spencer su cui si è pronunciata la Corte (C. 323/09).
Il caso riguarda appunto la Interflora, nota società con una rete di consegna di fiori in tutto il mondo, che prevedeva la possibilità per i propri clienti di effettuare le ordinazioni di persona, telefonicamente o via internet; il principale sito web dell’azienda era www.interflora.com e sue replicazioni per le versioni nazionali; la società era titolare del marchio “Interflora”; tale marchio era sia nazionale, nel Regno Unito, sia comunitario e godeva di grande notorietà tra i consumatori.
La Marks & Spencer (M&S), società chiamata in giudizio dalla Interflora era una società di diritto inglese, che rappresentava uno dei maggiori rivenditori al dettaglio del Regno Unito e forniva un’ampia gamma di prodotti e servizi attraverso la propria rete di negozi, nonché tramite il suo sito web www.marksandspencer.com; tra i vari servizi offerti c’era anche la vendita e consegna di fiori a domicilio, in palese concorrenza con l’attività svolta da Interflora.
M&S, nell’ambito del servizio di posizionamento AdWords di Google, si riservava l’utilizzo della parola chiave Interflora e delle sue varianti, formate dalla stessa parola con errori marginali o da espressioni contenenti il termine Interflora; in questo modo all’utente internet che cercava tramite Google la parola Interflora o sue varianti appariva – sotto il titolo “link sponsorizzato” – un annuncio pubblicitario della M&S.
Per questo motivo, la Interflora proponeva una domanda di declaratoria della violazione dei propri diritti di marchio dinanzi alla High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division, la quale decideva di sospendere il procedimento per sottoporre alla Corte di Giustizia Europea talune questioni pregiudiziali circa l’uso non consentito, da parte di un concorrente, nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, di parole chiave identiche ad un marchio.
La Corte, nella sua sentenza ricorda anzitutto che, in caso di uso da parte di un terzo di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio è stato registrato, il titolare del marchio ha il diritto di vietare tale uso solo qualora quest’ultimo possa pregiudicare una delle funzioni del marchio. La funzione essenziale del marchio è quella di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto o del servizio da esso contrassegnato (funzione di indicazione d’origine); altre funzioni sono quella di pubblicità e quella di investimento.
La Corte, nella sua sentenza, sottolinea che la funzione di indicazione d’origine del marchio non è l’unica meritevole di tutela contro le violazioni da parte di terzi. Spesso, infatti, il marchio rappresenta – oltre ad un’indicazione della provenienza dei prodotti o dei servizi – uno strumento di strategia commerciale utilizzato, soprattutto, a fini pubblicitari o per acquisire una reputazione allo scopo di rendere fedele il consumatore.
La Corte esamina per la prima volta in tale particolare caso la tutela della funzione di investimento del marchio. Secondo l’interpretazione della Corte, viola tale funzione l’uso, fatto da un concorrente, di un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici, qualora detto uso intralci in modo sostanziale l’utilizzo, da parte del suddetto titolare, del proprio marchio per acquisire o mantenere una reputazione idonea ad attirare i consumatori e a renderli fedeli. In una situazione in cui il marchio gode già di una reputazione, la funzione di investimento è violata allorché il predetto uso leda tale reputazione e ne metta in pericolo la conservazione.
Ritornando alla normativa del Patent box, si ritiene che i marchi d’impresa possano essere reintrodotti, senza entrare necessariamente in contrasto con le raccomandazioni dell’Ocse, tra i beni immateriali che possono usufruire dell’agevolazione fiscale prevista dalla normativa, solo però qualora si riferiscano ad aziende ampiamente impegnate in attività di ricerca e sviluppo che presentino apposita domanda di agevolazione anche per altri beni immateriali per cui è applicabile la normativa del Patent box (brevetti,software protetti da copyright, etc.).
In questo modo, si beneficerebbero le aziende che sostengono costi di attività di ricerca e sviluppo sui propri marchi valorizzandone la loro specifica funzione di investimento, solo però se esse svolgono anche attività di ricerca e sviluppo su altri beni immateriali che rientrano attualmente nel campo di applicazione della normativa del Patent box. Si eviterebbe così di agevolare le aziende che abbiano da valorizzare ai fini della normativa del Patent box solo marchi e non già altri beni intangibili.
Un’evoluzione della norma in tale direzione sembrerebbe più appropriata rispetto all’obiettivo generale di incentivo alle attività di ricerca e sviluppo in Italia che si è posto il legislatore con l’introduzione nel nostro Paese della normativa del Patent box, prevedendo in origine l’applicazione della norma anche con riferimento ai marchi, su cui molte aziende hanno espresso domanda di agevolazione all’Agenzia delle Entrate.
Giova, infatti, ricordare che il legislatore italiano si era già posto sin dall’origine il problema di inserire anche i marchi tra i beni agevolabili, in virtù del loro rilevante valore per la presenza nel nostro Paese del c.d. “Made in Italy”, cercando di attutire il più possibile gli attriti con le suddette raccomandazioni dell’OCSE che prevedono di tenerli fuori dal campo di applicazione di specifici regimi fiscali agevolativi.
Non a caso, la legge che ha introdotto il Patent box in Italia prevedeva in un primo momento l’applicabilità del regime fiscale di favore solo ai redditi derivanti dai marchi dotati del requisito di essere “funzionalmente equivalenti ai brevetti”. La relazione illustrativa della norma chiariva che tale requisito ricorre “quando il loro mantenimento, accrescimento o sviluppo richiede il sostenimento di spese per attività di ricerca e sviluppo”.
In questo modo erano tenuti fuori i marchi puramente commerciali. Tale impostazione sembra avesse l’obiettivo di rendere l’inclusione dei marchi nell’alveo della normativa del Patent box compatibile con il suddetto nexus approach, che richiede che sia provata attività di ricerca e sviluppo relativamente al bene intangibile sui cui redditi sia avanzata richiesta di defiscalizzazione.
Successivamente, si è intervenuti modificando tale impostazione con il decreto legge 24 gennaio 2015, n. 3, meglio conosciuto con il nome di “decreto investment compact”, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33. Tale decreto, tra le altre modifiche introdotte alla normativa del Patent box, ha anche esteso il regime fiscale a tutte le tipologie di marchi, inclusi quelli commerciali, superando in questo modo la limitazione per cui solo i marchi d’impresa funzionalmente equivalenti ai brevetti potevano essere ammessi all’agevolazione.
La norma che è stata modificata con il recente DL n. 50 considerava quindi come agevolabili anche i redditi derivanti dai marchi d’impresa per i quali fossero svolte attività di presentazione, comunicazione e promozione volte ad accrescere il loro carattere distintivo e/o la rinomanza dei marchi, contribuendo così alla conoscenza, all’affermazione commerciale, all’immagine dei prodotti o dei servizi, del design o degli altri materiali proteggibili, all’esplicarsi insomma proprio di quell’importante funzione d’investimento del marchio di cui si è discusso sopra con riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia Europea sul caso Interflora/Marks & Spencer.
[1] Regimi analoghi a quello introdotto in Italia sono previsti in: Belgio, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Paesi Bassi e Spagna
[2] Nel DL approvato nel CDM del 20 gennaio 2015 è prevista la possibilità di comprendere nei costi di attività di ricerca e sviluppo i costi di acquisto del bene immateriale agevolabile, nonché eventuali costi di ricerca relativi a contratti stipulati con società facenti parte del gruppo con un tetto massimo del 30% delle stesse.
[3] Metodo elaborato dall’OCSE nelle sue raccomandazioni 2015, di cui si discuterà in seguito.