La presente sentenza offre interessanti spunti di riflessione in merito alle condizioni entro le quali un amministratore di diritto (la c.d. testa di legno) può essere chiamato a rispondere del delitto di omessa dichiarazione ex art. 5 D.Lgs. 74/2000.
Nella vicenda che ci occupa, all’odierno imputato era stata contestato – accanto all’art. 10 D.Lgs. 74/2000 – il delitto di omessa dichiarazione per aver omesso di presentare – in qualità di amministratore di diritto della s.r.l. – la dichiarazione I.V.A. in riferimento ai periodi di imposta 2010 e 2011.
Nonostante le evidenze istruttorie ne avessero evidenziato il ruolo di mero prestanome (l’amministratore di fatto era il “vero deus ex machina della società”, p. 2), la Corte d’Appello di Brescia aveva comunque affermato la penale responsabilità dell’imputato, per il solo fatto di “aver consapevolmente assunto la qualifica di amministratore di diritto” (p. 4).
La sentenza riconosceva la sussistenza dell’elemento doloso sulla scorta della mera accettazione formale della carica di amministratore e della conseguente mancata presentazione della dichiarazione annuale; in particolare, all’imputato era “del tutto chiaro che l’omessa presentazione della dichiarazione IVA avrebbe comportato l’omesso versamento dell’IVA incassata dall’acquirente finale”, essendo l’odierno imputato ben consapevole di essere “il legale rappresentante di una società commerciale che operava nel settore del commercio auto, attività soggetta ad IVA e con funzione di sostituto di imposta” (p. 4).
In questo senso, sempre secondo l’impostazione adottata dalla Corte d’Appello, nessun pregio poteva essere riconosciuto all’inconsapevolezza (dell’imputato) degli obblighi gravanti sulla figura del Legale rappresentante e, in particolare, degli obblighi fiscali: l’imputato, in questo senso, “avrebbe potuto prendere informazioni e controllare che almeno i principali obblighi tributari fossero adempiuti” (p. 4), la cui ignoranza – e, in particolare, la mancata conoscenza dell’obbligo di presentare la dichiarazione I.V.A. annuale – integrava peraltro non tanto un errore sul fatto o su un precetto di carattere extra-penale – che, come tale, sarebbe stato idoneo ad escludere l’elemento soggettivo – quanto piuttosto un inescusabile errore sul precetto penale ex art. 5 c.p.
Come si vedrà, tale soluzione viene censurata dalla Suprema Corte, la quale respinge “l’affermazione secondo cui la responsabilità dell’amministratore di diritto discenda dall’aver egli consapevolmente assunto la qualifica di legale rappresentante” (p. 4).
In questo senso e in via preliminare, la Corte precisa subito che “nei reati omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, come nel caso di specie, deve rilevarsi che il vero soggetto qualificato non è il prestanome, ma colui il quale effettivamente gestisce la società perché solo lui è in condizione di compiere l’azione dovuta, mentre l’estraneo è il prestanome, a quest’ultimo una corresponsabilità può essere imputata solo in base alla posizione di garanzia di cui all’art. 2392 c.c., in forza della quale l’amministratore deve conservare il patrimonio sociale ed impedire che si verifichino danni per la società e per i terzi. Nelle occasioni in cui questa Corte si è occupata di reati, anche omissivi, commessi in nome e per conto della società, ha individuato nell’amministratore di fatto il soggetto attivo del reato e nel prestanome il concorrente per non avere impedito l’evento che in base alla norma citata aveva il dovere di impedire. Proprio perché il più delle volte il prestanome non ha alcun potere d’ingerenza nella gestione della società per addebitargli il concorso, questa Corte ha fatto ricorso alla figura del dolo eventuale. Si è sostenuto cioè che il prestanome accettando la carica ha anche accettato i rischi connessi a tale carica (cfr. Cass. 26 gennaio 2006, n. 7208; Cass. 6 aprile 2006, n. 22919, Cass. 26 novembre 1999, Dragomir, Rv 215199) (pp. 4-5).
Tutto ciò premesso, la pronuncia si interroga sui presupposti entro cui l’assunzione della carica di (formale) amministratore può essere idonea ad addebitare la violazione ex art. 5 D.Lgs. 74/2000 al prestanome, a norma dell’art. 2392 c.c. e art. 40 cpv. c.p. e in concorso con l’amministratore di fatto.
Stante la struttura dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000, risulta essere elemento dirimentela sussistenza del dolo specifico di evasione in capo all’autore del reato.
Detto altrimenti, per integrare la fattispecie di omessa dichiarazione, non è sufficiente la semplice sussistenza del dolo generico – consistente nella conoscenza e volontà di non presentare la dichiarazione – ma occorre altresì che vi sia (anche in capo al mero prestanome) il dolo specifico di evasione, integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo: “se è ben vero, infatti, che la coscienza dell’antigiuridicità o dell’antisocialità della condotta non è una componente del dolo, per la cui sussistenza è necessario soltanto che l’agente abbia la coscienza e volontà di commettere una determinata azione, è altrettanto vero, tuttavia, che […] attesa la natura di reato a dolo specifico (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016 – dep. 06/05/2016, Vece, Rv. 267022) – ai fini della punibilità dell’autore del reato, nella specie l’amministratore di diritto/prestanome, non è sufficiente il dolo generico, e cioè la coscienza e la volontà del comportamento e la previsione dell’evento da parte dell’agente quale conseguenza della sua azione od omissione, ma si richiede invece il dolo specifico di evasione che, in quanto integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo, esprime un disvalore ulteriore che, proprio perché tale, necessità di rigorosa prova, che non può essere affidata alla semplice, quanto irrilevante, affermazione fondata sul precetto della inescusabilità dell’ignoranza della legge penale contenuto nel citato art. 5 c.p.” (pp. 5-6).
Dolo di evasione che, nel caso che ci occupa, non può essere dedotto (in assenza di riscontri probatori) dalla semplice considerazione secondo cui l’omessa presentazione delle dichiarazioni I.V.A. fosse finalizzata al mancato versamento della relativa imposta, dal momento che tale affermazione si basa, a sua volta, sull’apodittica presunzione (non suffragata da alcun elemento probatorio) secondo cui, essendo l’imputato pienamente consapevole di essere il legale rappresentante di una società commerciale che operava nel settore del commercio auto (attività soggetta ad IVA e con funzione di sostituto di imposta), sarebbe stato a lui del tutto chiaro ed automatico che l’omessa presentazione della dichiarazione IVA avrebbe comportato l’omesso versamento dell’IVA incassata dall’acquirente finale.