La Suprema Corte nell’enunciare l’ammissibilità dell’istituto della compensazione nei confronti dell’assuntore di un concordato fallimentare che chiede il pagamento di una somma dovuta al patrimonio fallimentare (azione, quindi, già esercitabile dal debitore in bonis) si concentra dapprima sulla qualificazione del suo ruolo di parte o di terzo.
La Corte conduce il ragionamento per mezzo del riferimento alla figura del curatore fallimentare, il quale, agendo in giudizio per ottenere il pagamento di una somma già dovuta al fallito, si colloca nella medesima situazione sostanziale e processuale del fallito stesso. Egli non agisce, pertanto, in funzione di una sostituzione della massa creditizia, bensì esercita un’azione da intendersi nel patrimonio del fallito. “Ne consegue che il terzo convenuto in giudizio dal curatore può a questi legittimamente opporre tutte le eccezioni che avrebbe potuto opporre all’imprenditore fallito, comprese le prove documentali da queste provenienti, senza i limiti di cui all’art. 2704 cod. civ.”. In sostanza, il curatore, a seconda dell’azione che promuoverà, si potrà porre, alternativamente, quale espressione della tutela degli interessi dei creditori, del fallito oppure della massa fallimentare.
Nella medesima situazione si pone l’assuntore di un concordato fallimentare qualora si ponga nella situazione del fallito per mezzo della prosecuzione o della promozione di nuove iniziative giudiziarie. Il principio che la presente ordinanza della Suprema Corte vuol evidenziare è che “sia al curatore che all’assuntore, pertanto, la controparte può opporre senza limiti lo stesso contratto (ed il documento che lo incorpora) per fondarvi una sua eccezione o un suo contro-diritto”.
Ai fini dell’opponibilità nei confronti dell’assuntore è richiesta l’anteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento dei fatti che hanno dato origine alle pretese fondanti la compensazione.