Negli ultimi tempi si è assistito ad un orientamento giurisprudenziale in merito al valore giuridico del mark-to-market (più brevemente MTM) nei contratti derivati che ha suscitato non poche perplessità, vista e considerata la profonda e estesa portata delle implicazioni derivanti da tale pronunce, in alcuni passaggi non del tutto condivisibili.
In ordine cronologico, prima il Tribunale di Milano (VI Sez. Civile, sentenza del 19 aprile 2011, n. 5443, Presidente Laura Cosentini), poi la Corte di Cassazione (II Sez. Pen., sentenza del 21 dicembre 2011, n. 47421, Presidente Alberto Macchia) e circa un mese fa il Tribunale di Terni (in funzione di giudice del riesame, con un’ordinanza dello scorso 8 febbraio) hanno sostanzialmente concordato nel dichiarare il MTM come elemento non decisivo nell’economia di un contratto derivato, escludendo la possibilità di considerarlo come elemento qualificante e quantificante delle perdite subite da Enti ed Aziende.
Prescindendo dall’oggetto del contenzioso delle tre sentenze, è, peraltro, assolutamente interessante andare a verificare come gli organi giudicanti si siano espressi in merito ad un concetto tanto sensibile quanto centrale di un qualsivoglia contratto derivato.
Prima di fare ciò, è opportuno considerare un’acuta ed autoesplicativa definizione del MTM: “il TUF all’articolo 203 definisce il “costo di sostituzione”, cioè il mark-to-market. Questo “marcare il mercato” significa stabilire il valore prospettico del derivato stesso; si chiama costo di sostituzione, perché quello è il prezzo al quale, in quel dato momento storico- finanziario, un terzo indipendente sarebbe disponibile a subentrare in quel contratto alle sue originarie condizioni.” (Emilio Girino, Le radici negoziali dello strumento derivato, Convegno Unione Industriale di Torino, 24/02/2011, pag. 10).
Ciò premesso, nell’aprile del 2011 il Tribunale di Milano, con la citata sentenza n. 5443, testualmente afferma in merito a “il cosiddetto mark-to-market (MTM) o altrimenti detto Fair Value” che “si tratta di un valore che viene dato in un certo momento della sua vita ad un derivato, la cui stima involge notevoli aspetti previsionali e che di per sé non comporta alcuna giuridica conseguenza sulla posizione delle parti, non si traduce cioè in una perdita monetaria o in un obbligo di pagamento. Si tratta di una sorta di rating evoluto, ed infatti l’iniziale funzione è solo quella di consentire il monitoraggio dell’andamento del derivato, agganciandosi all’ipotesi della istantanea chiusura del rapporto”.
Per inciso, si noti come l’affermazione del Tribunale meneghino ricalchi fedelmente l’assunto sostenuto dal succitato Emilio Girino (I contratti derivati, II edizione, 2010, pag. 458), fermo restando che i giudici, pur condividendo con tale fonte la natura di mero patto accessorio al contratto derivato del MTM, non traggono le dovute conseguenze così efficacemente espresse dal summenzionato autore: “Il problema non sta dunque nella debenza, concettualmente innegabile, del valore del contratto in caso di rinegoziazione o cessazione prematura. Il problema sta altrove e, più precisamente, nel metodo di calcolo che conduce alla determinazione del valore di MTM. Problema questo di non agevole soluzione.” (op. cit., pag. 459).
Singolarmente, peraltro, lo stesso estensore della sentenza è costretto ad ammettere, inducendosi in una contraddizione difficilmente sanabile, che “del resto il MTM non è che quel fair value che espressamente l’art. 2427 bis comma 1 n.1 c.c. impone di indicare nella nota integrativa di bilancio e che deve stimarsi secondo modelli e tecniche di valutazione generalmente accettati.”
Sul valore di questa affermazione qui basta solo far notare come ciò che l’organo giudicante dichiara non avere “alcuna giuridica conseguenza sulla posizione delle parti” (i.e. il MTM ovvero il fair value del contratto derivato) abbia al contrario, per incontrovertibile legislazione e prassi in materia contabile, richiamata dallo stesso estensore della sentenza, una valenza formidabile, dovendo finanche far parte dei documenti redatti nella compilazione dei bilanci aziendali.
La discrasia, apparentemente lampante, è puntualmente analizzata da Angelo Paletta in “Il Mark-to-Market degli strumenti finanziari derivati: tra metafisica giurisprudenziale e concretezza delle regole contabili” (Diritto Bancario, Febbraio 2012), cui rimandiamo per gli approfondimenti del caso.
Alla sentenza del Tribunale di Milano, fa eco la summenzionata pronuncia della Cassazione Penale, nella quale si legge testualmente che “a proposito, poi, del mark-to-market (…) va rilevato che (…) non esprime affatto un valore concreto ed attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata.”
Peraltro la Suprema Corte spinge il concetto della sostanziale non rilevanza del MTM alle sue logiche (viste le premesse, ma non in assoluto) conseguenze, arrivando ad affermare che “per poter stabilire se quel dato rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’Ente contraente, occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza, visto che, tra l’altro, prima di tale evento sono previsti meccanismi di aggiustamento destinati proprio ad operare un bilanciamento fra le posizioni dei contraenti (leggasi “up-front”, nda), e non cadere entro meccanismi o clausole vessatorie.”
Il Tribunale di Terni, infine, con la citata ordinanza dell’8 febbraio u.s. e nella sua veste di giudice del riesame di un precedente decreto di sequestro preventivo (in ordine a contratti swap conclusi fra il Comune di Orvieto e la BNL), sulla scia delle due precedenti sentenze similmente osserva che il MTM "non esprime un valore reale ma di mera proiezione in termini di attualizzazione dei costi sostenuti dall’istituto di credito per l’operazione di finanza derivata intrapresa ed a questo dovuti esclusivamente nel caso in cui il rapporto venga interrotto prima della sua naturale scadenza".
Tutto ciò, se per certi aspetti potrebbe avere un fondamento giuridico da un punto di vista squisitamente formale, peraltro non è molto aderente al noto principio di prevalenza della sostanza sulla forma, fallendo nel cogliere il significato vero del MTM, che così viene ridimensionato in un ruolo, astrattamente “previsionale”, che male si confà alla reale portata giuridico-finanziaria che esso ha.
Bisogna, infatti, considerare la natura più squisitamente tecnica del MTM al fine di pienamente valutare tutti gli aspetti in esso contenuti, cominciando ad analizzare un concetto che, prodromo di quello che andremo affermando in seguito, è il cardine su cui si incentrano i dubbi legittimi sulle sentenze citate.
È ormai pacifico e da tempo concordemente affermato da tutta la giurisprudenza che, al momento della sottoscrizione, un qualsiasi contratto derivato dovrebbe essere par, concetto questo efficacemente espresso il 18 marzo 2009 di fronte alla 6a Commissione Finanze e Tesoro del Senato dal Direttore Generale pro-tempore della Consob Antonio Rosati (Indagine conoscitiva sulla diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle Pubbliche Amministrazioni): “I contratti par sono strutturati in modo tale che le prestazioni delle due controparti sono agganciate al livello dei tassi di interesse corrente al momento della stipula del contratto; a tale data il contratto ha quindi un valore di mercato nullo per entrambe le controparti. I contratti non par, invece, presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. In generale, i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro alla controparte che accetta condizioni più penalizzanti pur di incassare la somma di denaro; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up-front.”
Partendo, quindi, dall’incontestabile assunto che ad ogni contratto non par (i.e. inizialmente non equo ovvero disequilibrato) debba corrispondere la liquidazione di un up-front, il quale compensi in qualche forma tale sbilanciamento, è interessante vedere su quali basi tale up-front venga calcolato.
La metodologia si avvale di strumenti di calcolo attuariale, posto che l’up-front è definito come: “l’eventuale flusso di cassa del portafoglio finanziario strutturato che viene regolato al momento della conclusione dell’operazione in derivati” (art. 1, comma 3, lett. i, dello Schema di regolamento MEF di attuazione dell’articolo 62 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come sostituito dall’articolo 3 della legge 22 dicembre 2008, n. 203).
Nel calcolo, quindi, “irrompe” prepotentemente il concetto di MTM, i.e. fair value, in quanto l’up-front non è altro che il MTM (ovvero il fair value, secondo la notazione civilistica) del contratto derivato, calcolato al tempo zero, vale a dire all’atto della sottoscrizione dell’operazione stessa.
Che si richieda ai contratti derivati di essere inizialmente par, cioè non squilibrati a favore dell’uno o dell’altro contraente, e che si obblighi coattivamente, nel caso il contratto sia non par, a corrispondere un up-front iniziale per riequilibrarne l’equità, è cosa perlomeno incongruente con il disconoscimento del valore sostanziale che del MTM la giurisprudenza sopra citata autorizzerebbe a fare.
Su quali basi matematico-finanziarie, infatti, si dovrebbe calcolare l’up-front se non fondandolo sul concetto stesso di MTM? Forse esiste altra metodologia matematico-finanziaria che potrebbe essere applicata alternativamente a quella basata sul fair value (alias MTM)?
In altre parole, se fosse acriticamente presa per buona l’interpretazione della Cassazione, non costituendo, come visto, per i giudici della Suprema Corte il MTM un valore reale, su quale basi giuridico-tecniche si potrebbe valutare l’iniziale equità del contratto stesso, posto che alla base della valutazione dell’up-front di qualsiasi contratto l’unanimità della prassi internazionale pone in maniera incontrovertibile ed univoca il concetto matematico-finanziario di attualizzazione dei flussi (i.e. MTM)?
Laddove si mini sistematicamente la concretezza del MTM, facendolo diventare una specie di “mark-to-fantasy”, i.e. un semplice indicatore quasi metafisico di un qualcosa che invece è realmente (e spesso drammaticamente per Enti ed Aziende) concreto e pressante, è logico che l’unica soluzione rimasta sia quella tracciata nella citata sentenza della Cassazione Penale, allorquando si afferma che: “occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza”, soluzione questa ben poco tutelante per le tesorerie degli Enti Pubblici e delle Aziende.
Peraltro, si comprende perfettamente come gli organi giudicanti ed anche la dottrina si trovino in questo particolare momento di fronte ad un nodo arduo da dirimere, stanti le enormi implicazioni che ciascuna soluzione comporta. Il tentativo attuale, infatti, di dare una definizione giuridica al concetto di MTM è, seppur criticabile nella sua imprecisione, del tutto meritevole ed apprezzabile, posto che gli aspetti affrontati, per la loro natura più propriamente matematico-finanziaria, sono molto complessi e tendono a sfuggire alle categorizzazioni giurisprudenziali.
Di ciò ne sia riprova il fatto che ad oggi lo stesso concetto di strumento derivato non ha avuto ancora una definizione certa ed incontrovertibile, né da punto di vista normativo (l’art. 1, c. 3 del TUF fa riferimento ad una lista non esaustiva, che il Ministero del Tesoro può di volta in volta integrare con apposito regolamento), né da un punto di vista dottrinale, nonostante i moltissimi ed autorevoli pareri (fra gli altri i notevoli contributi di Emilio Girino, Bruno Inzitari, Francesco Caputo Nassetti, Daniele Maffeis e Giorgio De Nova).
In funzione di tutto ciò, l’auspicio è che gli organi giudicanti riescano a più efficacemente sistematizzare giuridicamente concetti e prassi della realtà operativa dei mercati e della teoria finanziaria, che, se male interpretati, potrebbero portare facilmente ad effetti distorsivi nel riconoscimento dei diritti/doveri delle parti in lite, in violazione del sacrosanto principio costituzionale sancito all’art. 3, comma 1, che ci piace ricordare: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.