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Giurisprudenza

Anatocismo e applicabilità della delibera CICR 09 febbraio 2000 ai contratti di conto corrente anteriori

22 Ottobre 2013

Avv. Filippo Maria De Stefano Grigis

Tribunale di Treviso, Sez. distaccata di Montebelluna, 10 giugno 2013, n. 110

Di cosa si parla in questo articolo

Massima

La capitalizzazione trimestrale degli interessi per i contratti di conto corrente stipulati in data anteriore all’entrata in vigore della delibera CICR 09 febbraio 2000 non è legittima neppure nel caso in cui la Banca abbia rispettato le prescrizioni di cui all’art. 7) della stessa delibera CICR, vale a dire la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e la rituale comunicazione per iscritto alla clientela entro il 31 dicembre 2000, giacché la stessa delibera postula anche che le nuove condizioni non comportino un peggioramento rispetto a quelle precedenti, mentre il peggioramento è in re ipsa nel passaggio da un anatocismo non dovuto, perché nullo, ad un anatocismo valido. Inoltre, va ribadito che, se il conto corrente è affidato, il calcolo della prescrizione si effettua distinguendo tra rimesse solutorie e rimesse ripristinatorie.

Commento

La giurisprudenza di merito sta approfondendo un cuneo molto delicato sulla possibilità, o meno, di applicare la nota delibera CICR 09 febbraio 2000 a tutti i contratti di conto corrente stipulati in data anteriore all’entrata in vigore della stessa delibera. Per comprendere la tematica e, quindi, la soluzione cui si sta pervenendo, sempre più frequentemente, bisogna prendere le mosse dal tenore letterale dell’art. 7) della delibera, per poi valutare il ragionamento della sentenza in commento.

Recita l’art. 7), cit. (Disposizioni transitorie): “1. Le condizioni applicate sulla base dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della presente delibera devono essere adeguate alle disposizioni in questa contenute entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio. 2. Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, le banche e gli intermediari finanziari, entro il medesimo termine del 30 giugno 2000, possono provvedere all’adeguamento, in via generale, mediante pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. Di tali nuove condizioni deve essere fornita opportuna notizia per iscritto alla clientela alla prima occasione utile e, comunque, entro il 31 dicembre 2000”.

Rispetto a questa formulazione, il Tribunale di Treviso rilevava che, per un contratto di c/c stipulato nel 1980, nel 2000 la Banca non aveva proceduto né alla rituale pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale né alla comunicazione per iscritto al cliente entro il termine del 31 dicembre 2000. Ma, statuiva il Tribunale – ed ecco il passaggio che più ci interessa –, “[…] se anche la Banca avesse applicato la periodica capitalizzazione degli interessi debitori e creditori con identica periodicità e nel rispetto della delibera CICR quanto a pubblicazione e comunicazione al cliente, tuttavia per rendere legittima la capitalizzazione occorrerebbe una pattuizione perché non può parlarsi di modifica “in melius” (ulteriore condizione posta dalla delibera CICR) rispetto ad una clausola in precedenza nulla”.

La statuizione del Tribunale di Treviso non può essere condivisa. Innanzitutto, non può esserlo perché l’art. 7), comma 2, della delibera CICR non chiede affatto una modifica “in melius” delle nuove condizioni economiche rispetto a quelle precedenti. La citata norma, infatti, recita testualmente: “[…] Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate […]. Basta, in altri termini, che le nuove condizioni non siano peggiorative rispetto a quelle precedenti, che siano, insomma, anche solo uguali a quelle precedenti; il che è all’evidenza ben diverso dal sostenere che le nuove condizioni economiche debbano comportare una modifica migliorativa rispetto a quelle precedenti.

Ciò detto, anche a correggere la prima parte del ragionamento, resterebbe in piedi la seconda parte, e cioè che ci si trova di fronte ad una precedente clausola nulla e che, quindi, una nuova clausola valida, proprio perché tale, sarebbe, in ogni caso, peggiorativa rispetto a quella precedente nulla; dal che la Banca ed il cliente avrebbe dovuto convenire la nuova clausola espressamente per iscritto, non potendosi la Banca limitare alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ed alla comunicazione scritta entro il 31 dicembre 2000.

Questo ragionamento, tuttavia, non convince.

Prendiamo le mosse da un rilievo all’apparenza minimo, ma, in realtà, già sintomatico: la rubrica dell’art. 7) cit. è la seguente: “Disposizioni transitorie”. La norma è, cioè, dettata per tutte quelle clausole anatocistiche contenute nei contratti di conto corrente già in essere alla data di entrata in vigore della delibera CICR; ed è per queste dettata sull’ovvio presupposto che queste clausole siano, sul piano sostanziale, affette da radicale nullità. Il Legislatore è, insomma, perfettamente consapevole di questa nullità e, per superarla, intende introdurre un meccanismo sanante. Ciò è confermato dal primo comma della norma in esame, là dove recita che queste condizioni economiche: “devono essere adeguate entro il 30 giugno 2000 e i relativi effetti si producono a decorrere dal successivo 1° luglio”; pena – è il sottinteso – l’insanabilità della loro nullità. Fatta questa premessa per circoscriverne l’ambito di applicabilità, la norma prosegue, e statuisce che: “Qualora le nuove condizioni contrattuali non comportino un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate […]” le banche e gli intermediari finanziari possono dare luogo all’adeguamento in forma semplificata e massiva, vale a dire con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale e la comunicazione per iscritto al cliente; ciò sarà necessario e sufficiente a determinare l’adeguamento delle clausole viziate nei termini di cui al primo comma.

In questo quadro – in cui, lo si ribadisce, il Legislatore offre l’opportunità di sanare la nullità delle clausole entro il 30 giugno 2000 – quando lo stesso Legislatore individua il suddetto meccanismo semplificato rispetto ad una pattuizione espressa per iscritto, postula che le nuove condizioni non siano peggiorative rispetto a quelle precedenti. La pietra di paragone di questo “peggioramento”, però, non può essere la stessa esistenza della clausola nulla, non può essere, insomma, la stessa nullità che con quel meccanismo si vuole sanare, bensì il contenuto economico della clausola. Per esemplificare: se la clausola nulla comportava un tasso d’interesse passivo del 3%, mentre quella nuova del 5%, la nuova condizione avrebbe comportato un peggioramento, dal che la Banca non avrebbe potuto valersi del meccanismo semplificato di adeguamento; mentre se la clausola nulla comportava un tasso d’interesse passivo del 3%, e quella nuova sempre del 3%, la nuova condizione non avrebbe comportato alcun peggioramento, dal che la Banca avrebbe potuto valersi del meccanismo semplificato di adeguamento. Diversamente opinando, nessuna clausola nulla avrebbe mai potuto essere sanata con quel meccanismo semplificato, perché è assiomatico che, essendo tutte le clausole precedenti nulle, una nuova clausola valida sarebbe stata sempre e comunque peggiorativa per il cliente rispetto ad una clausola precedente nulla.

Oltre a ciò, il Tribunale ribadiva il criterio indicato da Cass. SS.UU., Sent. n. 24418/2010, sulla decorrenza del termine di prescrizione, distinguendo, quindi, tra rimesse solutorie e rimesse meramente ripristinatorie della provvista, nel caso di conto corrente affidato. A tale riguardo, chi scrive non vuole certo ignorare la suddetta pronuncia del Supremo Collegio, né tantomeno la censura di incostituzionalità con sentenza Corte costituzionale, 05.04.2012, n. 78, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, Legge 26 febbraio 2011, n. 10. Tuttavia, dato atto dell’illegittimità costituzionale della citata norma, avente mero carattere interpretativo dell’art. 2935 cod. civ., resta quello che la stessa Corte costituzionale ha definito come “un orientamento maggioritario” viceversa formatosi nella giurisprudenza. Non sarà allora fuori luogo por mente alla circostanza che anche l’orientamento in punto dell’anatocismo si era consolidato per oltre vent’anni, era largamente maggioritario, ma che, poi, con un inaspettatorevirement, nel 1999 la Corte di Cassazione confutava il suo stesso granitico orientamento, nello stupore tanto degli operatori del settore quanto dell’utenza del sistema bancario. Può, quindi, sempre a parere di chi scrive, proseguire il dibattito dottrinale e giurisprudenziale per l’affermazione di un diverso orientamento.

Bisogna prendere le mosse dal ragionamento svolto dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 24418/2010.

Il ragionamento svolto dalla Corte riconosce, innanzitutto, che l’unitarietà del rapporto di conto corrente esiste, ma che essa non costituisce l’elemento discriminante per determinare il dies a quo della prescrizione del diritto di ripetizione dell’indebito. Ciò nondimeno, la Corte, premesso che il diritto alla ripetizione presuppone l’esistenza del pagamento, sostiene che ogni annotazione in AVERE regolata su conto corrente bancario, in costanza di un rapporto di affidamento, e nei limiti del concesso affidamento, non costituirebbe un “pagamento”, giacché non determinerebbe uno “spostamento patrimoniale” dal solvens (cliente affidato) all’accipiens (Banca), ma avrebbe un mero effetto ripristinatorio della facilitazione creditizia accordata. Tuttavia, è proprio sulle nozioni, da un lato, di “apertura di credito”, e, dall’altro, di “pagamento” che il ragionamento della Corte appare viziato. Quanto alla prima, va posto l’accento sul fatto che la riforma del diritto fallimentare ha dato finalmente ingresso alle nozioni economiche omnicomprensive di “rimesse”, “esposizione debitoria”, “posizione passiva”, e, addirittura di, “pretese”; con il che ha superato la tradizionale distinzione, per vero di sola elaborazione giurisprudenziale, tra “conto passivo” e “conto scoperto”; distinzione che non aveva, nella realtà bancaria, alcun obiettivo riscontro. Che tali nozioni possano non essere di facile comprensione ed interpretazione nel mondo del diritto può essere comprensibile; ma il loro recepimento ha già prodotto le nuove dizioni dell’art. 67, comma 3, lett. b) L.F. (“b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca”);e dell’art. 70 L.F. (“[…] il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si e’ aperto il concorso”). Non è questa la sede per diffondersi su di esse: ma va sottolineata la diretta relazione stabilita tra le “rimesse”, quali esse siano, e la “esposizione debitoria”, che può essere ridotta dalle rimesse; ed altresì evidenziato che l’esposizione debitoria consiste, indubitabilmente, nella semplice registrazione contabile delle operazioni in addebito ed in accredito sul conto corrente di corrispondenza, a nulla rilevando che essa si sia generata in costanza, oltre, o, addirittura, in totale assenza di una forma di affidamento. Data questa nozione di “esposizione debitoria”, a nulla parimenti rileva che la rimessa riduca la registrazione contabile di un “conto passivo” piuttosto che quella di un “conto scoperto”, essa determinando, in ogni caso, il fatto storico e contabile della riduzione dell’esposizione, data dall’unico saldo contabile negativo o c.d. “saldo DARE” del conto corrente.

In questo quadro, la concessione dell’affidamento, piuttosto, determina, in primo luogo, che il correntista sia preventivamente (e non volta a volta) autorizzato ad effettuare delle operazioni in addebito; in secondo luogo, che sia applicato un tasso di maggior favore per tutte le operazioni in addebito effettuate sino a concorrenza dell’ammontare dell’affidamento. Ma, oltre a ciò, che l’operazione in addebito sia contenuta nel limite dell’affidamento oppure, perché consentito, volta a volta dalla Banca, superi tale limite, non muta la conseguenza generata da tale operazione, vale a dirsi l’insorgenza di un’obbligazione pecuniaria restitutoria in capo al correntista; il quale correntista è debitore della Banca per tutte le somme corrispondenti alle operazioni in addebito che ha effettuato. Con la conseguenza che è assolutamente irrilevante la circostanza che i versamenti siano eseguiti dal correntista in presenza di una esposizione debitoria inferiore o pari all’ammontare dell’affidamento piuttosto che superiore a quest’ultimo. Questi versamenti, in ogni caso, nel momento in cui sono eseguiti – e qui veniamo alla seconda nozione che è in gioco – costituiscono pagamento (id est versamento della somma spettante), perché estinguono l’obbligazione pecuniaria restitutoria in misura pari a ciascuno di essi; perché il “versamento” (o rimessa) integra, di per se stesso, uno “spostamento” patrimoniale dal solvens all’accipiens, a prescindere che a questo spostamento – che è un fatto contabilmente e storicamente accaduto e determinato – succedano ulteriori operazioni in addebito, autorizzate dalla Banca al correntista nei termini di cui sopra. Tutto ciò che accade dopo ciascuna operazione di versamento, dopo ciascun pagamento, dopo, in ultima analisi, ciascuna estinzione dell’obbligazione pecuniaria restitutoria è, infatti, un’alea che le parti sopportano a termini contrattuali, con rispettive facoltà di ulteriori utilizzi, rinuncia all’affidamento, piuttosto che riduzione e revoca dell’affidamento; tutte facoltà il cui esercizio sarà destinato o a generare ulteriori obbligazioni pecuniarie oppure a cristallizzare la residua situazione contabile. La concessione dell’affidamento, infatti, non è un debito, ma è solo una potenzialità di debito, che soltanto gli utilizzi trasformano in un’obbligazione pecuniaria restitutoria.

Ciò posto, se – come sostiene la Corte – la tradizionale distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti solutori (che discende da quella in esame tra conto passivo e conto scoperto) è stata elaborata “ad altri fini” (ovverosia in materia fallimentare); ma, a quei diversi fini, essa è stata superata, prendendo atto della effettiva realtà contabile di un conto corrente bancario, ancorché affidato, non si vede per quale ragione, ai fini prescrizionali, debba resistere la stessa distinzione, sol perché, del tutto artificiosamente, si vuole insistere per limitare la nozione di pagamento ai soli versamenti sull’extrafido, così da posticiparsi la decorrenza del termine prescrizionale.

Il dibattito, quindi, può proseguire su questa linea e si apre, ovviamente, ad ulteriori contributi.

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