Nel vigore della disciplina antecedente alla Riforma del 2003, la delibera di aumento oneroso del capitale sociale, assunta in violazione del diritto d’opzione dei soci, non può ritenersi nulla, ma soltanto annullabile. Infatti, il vizio di nullità per illiceità dell’oggetto si ha solo quando la decisione sociale violi disposizioni legislative dettate nell’interesse generale, e non nel caso di specie, in cui vengono contrastate esclusivamente norme ispirate alla tutela dei soci.
L’azione revocatoria ordinaria, proposta ai sensi dell’art. 2901 c.c., nei confronti della rinuncia al diritto d’opzione è funzionale a consentire al creditore di agire esecutivamente sul diritto d’opzione per soddisfarsi sul ricavato della vendita forzata e non gli permette, invece, di sostituirsi al debitore nell’esercizio di tale diritto.
Il divieto di assistenza finanziaria, andando a tutelare l’effettività del capitale sociale, ha carattere assoluto e può considerarsi violato anche quando l’elusione della regola sia il fine di un’operazione complessiva, in cui figurano più contratti collegati tra loro.
La Corte di Cassazione, nella sentenza in oggetto, viene investita della verifica della legittimità della decisione di Corte d’Appello che, al termine di una lunga e complessa vicenda processuale, giunge, tra l’altro, a considerare nulle una serie di negozi, ritenuti collegati tra loro. Si tratta, in particolare, dell’acquisizione da parte di varie società, appartenenti a uno stesso gruppo, della totalità delle azioni di una seconda società, la quale aveva, poi, prestato un finanziamento in favore di un’ulteriore società del medesimo gruppo. Nello specifico viene dichiarata la nullità del contratto di mutuo, per via della violazione del divieto di assistenza finanziaria, da cui scaturisce la declaratoria di nullità anche della cessione delle azioni, posta l’indissolubile connessione esistente tra i negozi. Sul punto la Cassazione respinge le censure poste dal ricorso principale, secondo le quali la decisione della Corte d’Appello non aveva sufficientemente motivato la violazione dell’art. 2358 c.c., dal momento che il finanziamento era stato realizzato nei confronti di un soggetto diverso da quello acquirente le azioni della società finanziatrice. Sul punto la Suprema Corte ravvisa nell’appartenenza ad uno stesso gruppo un elemento tale da permettere di desumere, in modo univoco, che il denaro erogato fosse stato utilizzato da altra società per l’acquisto delle azioni della società finanziata, con conseguente violazione del divieto di assistenza finanziaria.
Le società ricorrenti, poi, in caso di eventuale riconferma da parte della Suprema Corte della contestata dichiarazione di nullità della cessione di azioni, dati gli effetti ex tunc della declaratoria, chiedono che venga pronunciata l’inesistenza/nullità della delibera di aumento di capitale, assunta dalla società finanziata, successivamente all’azzeramento del capitale stesso, funzionale al ripianamento delle perdite, per violazione del diritto d’opzione spettante alle società cedenti. Fermo restando l’impossibilità per la Suprema Corte di avvalersi sul punto del dettato dell’art. 2377, comma 5° n. 1 c.c., dovendosi il caso decidere alla luce della disciplina ante Riforma del 2003, i Giudici di Legittimità non ritengono che la delibera presenti vizi procedimentali tali da considerarla inesistente, posto che, in ogni caso, all’assemblea avevano partecipato i soggetti allora legittimati, ovvero le società cessionarie. La stessa Corte, inoltre, argomenta sull’impossibilità di accogliere la domanda di nullità per illiceità dell’oggetto della delibera, evidenziando come ove la mancata offerta in opzione delle azioni nei confronti delle società cedenti integri un’ipotesi di annullabilità della decisione sociale, non di nullità, essendo la regola di cui all’art. 2441 c.c. posta a tutela di interessi particolari facenti capo ai singoli soci.
La Corte si confronta, infine, con una richiesta di revocatoria ordinaria nei confronti della rinuncia al diritto d’opzione compiuta, nell’ambito della sopramenzionata operazione di ricapitalizzazione, da parte delle società cessionarie. Sul punto i Giudici di Legittimità ricordano come il fine dell’azione pauliana debba essere quello di permette al creditore di ottenere l’espropriazione forzata del bene oggetto della fraudolenta disposizione e non può tendere, al contrario, a far sostituire il creditore al debitore nell’esercizio del diritto. Tale ragionamento presuppone la necessità di allegare un autonomo valore economico rispetto al diritto d’opzione rinunciato, circostanza non realizzata nel ricorso principale, che viene, quindi, anche sotto questo profilo, respinto.
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