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Appunti in tema di dovere di lealtà dei creditori nel nuovo Codice della crisi

5 Giugno 2019

Andrea Novarese e Beatrice Bertuzzi, Latham & Watkins

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Il contesto del ‘nuovo’ dovere di lealtà – 2. La nozione di collaborazione leale – 3. L’incerto coordinamento con la segnalazione alla Centrale dei rischi – 4. Le conseguenze della violazione del dovere – 5. Conclusioni

 

1. Il contesto del ‘nuovo’ dovere di lealtà

Il nuovo Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza (il “Codice”), introdotto con l. n. 14/2019, ha comportato una riforma organica delle procedure concorsuali, creando un cambiamento di paradigma nelle condotte delle parti coinvolte.

L’art. 4 comma 1 del Codice richiama infatti, per i creditori ed il debitore, il principio di buona fede e correttezza, contenuto nella disciplina generale delle obbligazioni all’art. 1175 c.c. In particolare, i creditori – fino alla novella attuale, soggetti passivi delle procedure concorsuali in grado di vantare sole pretese – vengono apparentemente responsabilizzati, ponendo in capo ad essi un dovere di lealtà ed un obbligo di trasparenza nei rapporti non solo con la parte debitrice, ma anche con gli altri creditori e gli organi della procedura di volta in volta rilevante.

Giova sottolineare, al fine della nostra analisi, come un comportamento secondo buona fede venga, peraltro, già richiesto dall’art. 182‑septies L. fall. (“Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria”) che dispone come il tribunale debba procedere all‘omologazione previo accertamento, avvalendosi ove occorra di un ausiliario, che le trattative si siano svolte in buona fede.

I nuovi obblighi sono, quindi, da collocare all’interno di un processo non conflittuale di composizione degli interessi di creditori e debitore, che si allontana dal tradizionale modello di preferenza degli interessi dei primi rispetto al secondo. L’intervento di riforma si prefigge, invero, di favorire l’emersione anticipata della crisi, quando ancora non sia irreversibile. La logica della prevenzione ha, inoltre, lo scopo di eliminare lo stigma in capo al debitore fallendo, sollecitando così l’attività degli organi della procedura, nonché dei creditori stessi, verso il superamento tempestivo della situazione di difficoltà, mediante soluzioni di ristrutturazione idonee. Il legislatore, in questo modo, pone un freno all’abuso della procedura di concordato preventivo, spesso strumentalizzata al fine di evitare la dichiarazione di fallimento, con frequenti esiti negativi. Un’economia capace di anticipare il momento patologico della crisi dell’impresa singola riesce, infatti, a tenere al riparo da crisi sistemiche generali, evitando, quindi, un possibile effetto domino tra i soggetti economici che operano all’interno del medesimo comparto industriale, nonché dei finanziatori che, su base ordinaria, rendono finanziariamente liquido il loro interscambio commerciale. Nella medesima ottica, l’obbligo di riservatezza si erge a presidio del capitale reputazionale dell’impresa stessa, minimizzando il rischio di pregiudicarla ulteriormente a stare sul mercato.

2. La nozione di collaborazione leale

2.1. La ratio della norma

La nozione di collaborazione leale genera un problema applicativo, in quanto non chiarisce quali siano le conseguenze in caso di violazione del dovere stesso. Il c.d. “dovere di comportarsi lealmente” parrebbe, peraltro, introdurre un concetto metagiuridico, privo di un parametro di riferimento su cui valutare la condotta del creditore, al fine di determinarne la scorrettezza effettiva.

L’obbligo di collaborare lealmente ed il dovere di riservatezza evocano i codici di comportamento emanati da Associazioni di settore, ovvero da Ordini professionali, che hanno il fine di facilitare ed aumentare il grado di sicurezza delle operazioni di finanziamento, condotte da creditori appartenenti al ceto bancario.

Il “Codice di Comportamento tra Banche per affrontare i processi di ristrutturazione atti a superare la crisi di impresa” – emanato nel 2000, molto in anticipo rispetto alla stagione di riforme in ambito fallimentare degli anni 2005-2006 volte a favorire i percorsi di risanamento negoziale –  all’art. 1 conteneva un elenco di principi generali a cui banche ed intermediari dovevano attenersi, nel caso in cui avessero deciso di aderire a tale Codice di Comportamento, suggerito dall’ABI. Tra questi principi, spiccano ancora oggi le disposizioni sulla valorizzazione delle imprese nelle loro prospettive reddituali e la promozione di comportamenti ispirati a principi di cooperazione ed equità sostanziale nei rapporti tra il ceto creditorio. La lodevole iniziativa rimase, però, priva di frutti: non tutte le banche aderirono ed adottarono tale Codice di Comportamento. Esso venne in gran parte ignorato, ed anzi riconfermato da comportamenti opportunistici degli operatori bancari, spesso richiamati ad attenersi alle indicazioni ivi contenute.

Più recentemente, nel 2015, Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, in collaborazione con Assonime, ha redatto le “Linee-guida per il finanziamento delle imprese in crisi”, che, seppur non vincolanti, suggeriscono “prassi virtuose”, ossia modelli comportamentali tali da tenere al riparo l’operatore da eventuali scrutini giudiziali. In particolare, nel documento si sostiene che una negoziazione aperta e leale con i creditori, specialmente professionali, sia prodromica nonché fondamentale alla buona riuscita dell’operazione di finanziamento ovvero alla predisposizione di nuove misure di salvataggio, nel caso in cui la soluzione prospettata sia impraticabile. In tale sede, viene poi specificato come il ruolo del creditore non debba confondersi con quello del debitore, che potrebbe portare a risultati distorsivi della logica concorsuale.

Si può apprezzare, quindi, come l’introduzione del dovere di lealtà non sia una novità del tutto estranea al nostro ordinamento, ma come sia riconducibile alle best practice in ambito concorsuale.

È dubbio se si possa spingere il dovere di lealtà fino a ricomprendere anche un divieto a porre in essere condotte opportunistiche come, ad esempio, l’ostacolo ingiustificato delle trattative del debitore con altri creditori. Infatti, tale punto è stato sollevato da un’associazione di categoria (ANCE-Associazione Nazionale Costruttori Edili) che ha evidenziato l’assenza di una disposizione specifica del Codice in merito. Tuttavia, è forse da concludere che, se dall’esame concreto di tale atteggiamento si rilevasse come contrario a buona fede, non si vede motivazione sufficiente per escluderlo dalla species di condotte inottemperanti al dovere di lealtà.

2.2. Il dovere di lealtà nella giurisprudenza

Recentemente il Tribunale di Milano, con l’occasione dell’emissione di un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. diretto ad ordinare ad una banca la cancellazione dell’impresa attrice dalla Centrale dei Rischi di Banca d’Italia, ha ribadito la generale applicabilità del principio di buona fede e correttezza nel funzionamento del rapporto bancario, consacrando, peraltro, il dovere di reciproca lealtà di condotta che “deve presiedere all’esecuzione di qualsivoglia tipologia di contratto” (Trib. Milano sez. VI, 12/10/2018).

Lo stesso provvedimento del Tribunale di Milano rimanda alla più recente pronuncia della Cassazione sul tema (Cass. Civ. Sez. III, sent. 13345, 07/06/2006), in cui viene statuito come: “in tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all‘esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase, sicché la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell‘ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all‘esecuzione di un contratto (art. 1375 c.c.), concretizzandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell‘interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto”.

Conseguentemente, la Suprema Corte ha statuito come la buona fede debba atteggiarsi come un impegno od obbligo di solidarietà che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, pur prescindendo da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi anche dell‘altra parte, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a carico della parte tenuta al rispetto di tale impegno.

3. L’incerto coordinamento con la segnalazione alla Centrale dei rischi

La pronuncia del Tribunale di Milano sopra citata offre, cionondimeno, uno spunto di riflessione circa l’obbligo di segnalazione alla Centrale dei rischi gravante in capo agli operatori che aderiscono al sistema, ai sensi dell’art. 125 del D.lgs. n. 385 del 1 settembre 1993 (“Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia”, d’ora in avanti “TUB”). Come noto, lo scopo delle informazioni registrate nella Centrale dei rischi è quello di limitare l’accesso al sistema creditizio a quei soggetti che non godono della salute finanziaria necessaria. Infatti, l’obbligo di segnalazione si estrinseca in un duplice adempimento da parte della banca, rispettivamente formale e sostanziale: (i) una comunicazione preventiva al cliente, atta a metterlo al corrente della segnalazione e (ii) un controllo sull’effettiva sussistenza di una difficoltà di gestione dell’esposizione debitoria. L’art. 125 TUB detta, quindi, un preciso iter di segnalazione, e di eventuale rettifica, visti gli effetti pregiudizievoli che un adempimento improprio dell’obbligo potrebbe causare. L’intermediario, come indica la pronuncia del Tribunale di Milano, deve contemperare l’obbligo di segnalazione con il principio di correttezza, nonché attenersi all’osservanza dell’obbligo di riservatezza, ex art. 7 TUB. Infatti, gli intermediari hanno accesso riservato ai dati della Centrale con il solo scopo di assunzione e gestione del rischio di credito (come prevede la Circolare di Banca d’Italia n.139 dell’11 febbraio 1991, aggiornata a gennaio 2019 “Centrale dei rischi. Istruzioni per gli intermediari creditizi”, d’ora in avanti: “Circolare 139/91”). La scelta, percorsa dal regolatore, di riservare la consultazione agli intermediari, è probabilmente sottesa da una generale preoccupazione per quei soggetti non professionali che, avendo la facoltà di consultare tale banca dati, accederebbero ad informazioni sensibili e potrebbero utilizzare esclusivamente per finalità esclusivamente personalistiche, con conseguente incremento  dei rischi operativi per il soggetto segnalato e dei rischi finanziari per l’intero ceto bancario.

Focalizzando l’attenzione sull’adempimento sostanziale da parte dell’intermediario della segnalazione alla Centrale dei rischi, si apprezza come questo non possa e debba coincidere con un accertamento di una condizione di insolvenza da operarsi in sede giudiziale ma come tale obbligo sia strumentale ad un sistema di allerta di  uno “stato di insolvenza, anche non accertato giudizialmente o (di) situazioni sostanzialmente equiparabili” (Circolare 139/91, cap. II, sez. 2, par. 1.5).

Definito il presupposto sostanziale della segnalazione, appare necessario un confronto con la nozione di “stato di crisi” che, come noto, nella vigente Legge Fallimentare non ha trovato una definizione in grado di tracciare un confine netto con l’insolvenza, lasciando così spazio a speculazioni sugli indici della sua possibile reversibilità. Per contro, il legislatore delegato, sulla scorta delle disposizioni della legge delega, ha introdotto all’art. 2 del Codice una puntuale definizione di stato di crisi che viene definito come: “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l‘insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. Risulta pertanto interessante l’analisi della correlazione  tra lo stato di crisi necessario per l’attivazione di una procedura di allerta  e “le situazioni equiparabili allo stato di insolvenza” utili per la segnalazione dei rischi, situazioni contigue se non spesso coincidenti.

Tale correlazione suggerisce due considerazioni, a seconda che l’approccio seguito nell’accertamento della crisi sia (i) interno all’azienda, ossia mediante una rilevazione operata dagli organi della società, ovvero (ii) esterno, pervenendo alla conclamazione dello stato di crisi attraverso l’intervento di un soggetto non appartenente alla struttura sociale. Nel primo caso, qualora la società, insieme con i suoi organi di controllo, rilevasse un’effettiva difficoltà nella conduzione della propria attività imprenditoriale, potrà richiedere l’accesso alla procedura di allerta in maniera volontaria, potendo così l’imprenditore stesso giovarsi delle misure premiali ed esimenti di punibilità. Tuttavia, non può sfuggire come la scelta di avvalersi della procedura di allerta attivata su base volontaria trovi una barriera nel caso, estremamente frequente, in cui uno dei creditori appartenga al ceto bancario. Tale creditore, infatti, da un lato sarà tenuto al dovere di lealtà ed obbligo di riservatezza ai sensi dell’art. 4, comma 3, del Codice, ma, d’altro canto, non sarà automaticamente sottratto all’obbligo di segnalazione alla Centrale dei rischi, pur nel rispetto del principio di correttezza nonché di riservatezza, ad esso relativi. Pertanto l’obbligo di segnalazione andrà valutato con grande prudenza avuto riguardo alla tipologia di inadempimento (rilevante o meno) e alle cause del medesimo (per esempio nel caso di ritardo sistemico nel ciclo degli incassi del settore di appartenenza), ciò al fine di evitare che l’intermediario finanziario non effettui, con la dovuta professionalità, un controllo sull’effettiva sussistenza di una difficoltà di gestione dell’esposizione debitoria; inoltre la segnalazione dovrà comunque accompagnarsi ad una preventiva informazione al cliente imprenditore ed a un dialogo con i suoi organi di gestione e controllo, al fine di rendersi proattivamente disponibili a considerare la soluzione proposta nell’ambito di una procedura di allerta o altra tipologia di accordo previsto dal Codice. Nel caso invece di accertamento esterno, in cui l’imprenditore non abbia instaurato alcun tipo di procedura di allerta pur versando in una situazione di perdurante squilibrio finanziario, la preventiva comunicazione operata dagli intermediari verso i soggetti che detengono crediti in sofferenza ai sensi dell’art. 125 TUB non è nella sua finalità dissimile dalla comunicazione dei creditori qualificati (quali: l’Agenzia delle Entrate, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’Agente della riscossione delle imposte) introdotta dal Codice ai sensi dell’art. 15, comma 1. Nell’adempiere a tale obbligo di segnalazione, le banche dovranno sempre considerare come, ad esito della segnalazione, un loro conseguente atteggiamento meramente attendistico (improntato ad un’immediata sospensione dei fidi) o di rientro accelerato, sarebbero in contrasto con gli obblighi di cui all’art. 5 del Codice.

4. Le conseguenze della violazione del dovere

Per quanto concerne le conseguenze in caso di inadempimento di tali doveri, si possono prospettare due diversi trattamenti qualora si consideri la norma (i) effettivamente precettiva ovvero (ii) priva di tale contenuto. Innanzitutto, deve essere osservato come non essendovi disposizioni sanzionatorie riguardo le violazioni qui in discussione, si ritiene di dover escludere eventuali ripercussioni nell’ambito, sulla base del principio della riserva di legge.

Dunque, nella prima ipotesi – che si colloca probabilmente più in linea con l’intenzione del legislatore – si può affermare che l’eventuale violazione di questi obblighi comporti l’applicazione delle norme codicistiche sul risarcimento del danno, quindi sulla base del combinato disposto con gli artt. 1175, 1218 e 1375 c.c. Si potrà, poi, determinare la responsabilità sulla base dell’effettiva figura sottostante al creditore. Infatti, qualora si trattasse di un creditore bancario, è lecito ritenere che trovi applicazione l’art. 1176 c.c., rubricato come “Diligenza nell’adempimento”, il quale, al comma 2, richiede che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Tale tesi troverebbe, peraltro, conferma nell’impostazione seguita dall’Arbitro Bancario e Finanziario nel dirimere le controversie scaturite da illegittime segnalazioni alla Centrale dei rischi. I collegi, in più occasioni (inter alia: Decisione 688/2015; Decisione 1692/2015) sulla scorta della giurisprudenza della Suprema Corte in tema di illegittima segnalazione creditizia di un debitore (Cass. Civ. Sez. I, sent. 15609, 09/07/2014), si sono pronunciati nel senso di riconoscere il danno sia patrimoniale che non patrimoniale. 

Dunque, l’art. 4 comma 3 del Codice non introdurrebbe un nuovo obbligo tout court per il creditore, bensì si tratterrebbe, forse più opportunamente, di una specificazione dell’art. 1176 comma 2 c.c., che permetterà di fare riferimento alle best practice in ambito bancario, qualora il creditore coincida una banca, come già avviene nell’ambito della responsabilità dei sindaci (art. 2407 c.c.) in cui, ai fini della sua attribuzione, si fa riferimento ad indicatori extra normativi (i.e. codici deontologici degli ordini professionali). Per quanto concerne, invece, l’impostazione per cui il contenuto della norma non sarebbe precettivo (per tutti: G. Fauceglia, Il nuovo diritto della Crisi e dell’Insolvenza, Torino, 2019, 11-12), le conseguenze, in particolare sul piano della lealtà, vengono fatte ricadere “sulla posizione del singolo creditore non leale, in relazione al trattamento del credito”.

5. Conclusioni

Il Codice introduce in capo al creditore un dovere di lealtà, oltre all’obbligo di riservatezza, che non è da ritenere come una nozione nuova, bensì una specificazione nonché un rafforzamento della disciplina generale delle obbligazioni.

Per comprendere il novero delle fattispecie che verranno considerate come violazioni dell’obbligo sarà necessario attendere le prime pronunce della giurisprudenza, che probabilmente, vista la novità dell’attribuzione della competenza a sezioni specializzate nel caso di imprese non minori (art. 27 del Codice), andranno a perimetrare una species di condotte non leali, anche con riferimento alle prassi del settore.

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