Con la sentenza n. 8911 del 4 aprile 2025, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di arbitrato societario con sede all’estero.
In particolare, la Corte delinea la validità di una clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società italiana non quotata, la quale preveda che le controversie societarie siano devolute ad arbitrato con sede all’estero.
La questione trae origine da una procedura arbitrale promossa nel 2014 da una società italiana non quotata, fondata su una clausola compromissoria statutaria che devolveva le controversie tra soci e amministratori ad un collegio arbitrale da costituirsi secondo il regolamento della Camera di Commercio Internazionale, con sede dell’arbitrato a Ginevra e applicazione del diritto sostanziale italiano.
Sulla base di tale clausola, la società ha convenuto in arbitrato un ex amministratore, il quale eccepiva l’incompetenza del collegio arbitrale, deducendo la nullità o inefficacia della clausola compromissoria per contrasto con le norme imperative del D.Lgs. n. 5/2003 in tema di arbitrato societario interno, e in particolare con i requisiti relativi alla nomina degli arbitri e alla pubblicità della clausola.
Il collegio arbitrale, con lodo parziale, respingeva l’eccezione e affermava la propria competenza.
Il successivo lodo definitivo veniva riconosciuto in Italia, e l’opposizione al riconoscimento veniva respinta dalla Corte d’appello competente, che confermava la validità della clausola compromissoria.
Investita della questione, la Suprema Corte ha affermato un principio di diritto destinato a costituire punto di riferimento nel sistema dell’arbitrato societario transnazionale:
«In tema di arbitrato societario, è valida e può essere riconosciuta in Italia una clausola compromissoria contenuta nello statuto di una società di diritto italiano che preveda la sede dell’arbitrato all’estero, purché rispetti il requisito sostanziale previsto dall’art. 34, comma 2, d.lgs. n. 5/2003, che impone, a pena di nullità, la nomina dell’intero organo arbitrale da parte di un soggetto terzo estraneo alla società. Le disposizioni processuali contenute negli artt. 35 e 36 del medesimo decreto, pur inderogabili per l’arbitrato societario domestico, possono essere derogate attraverso la scelta di una lex arbitri straniera, a condizione che questa rispetti i principi fondamentali del giusto processo arbitrale previsti dalla Convenzione di New York del 1958.»
La Corte valorizza la distinzione tra legge applicabile alla validità sostanziale della clausola– nella specie, l’ordinamento italiano – e legge regolatrice del procedimento arbitrale, la cui efficacia resta confinata all’ambito territoriale nazionale, ai sensi dell’art. 12 della legge n. 218/1995.
In tale contesto, la scelta di una sede arbitrale estera costituisce esercizio legittimo dell’autonomia privata garantita dall’art. 4 della medesima legge, senza che le norme del d.lgs. n. 5/2003 siano idonee a comprimere tale prerogativa in assenza di espressa previsione derogatoria.
Non può dunque escludersi il riconoscimento di un lodo straniero per il solo fatto che il procedimento arbitrale non si sia svolto secondo le norme procedurali italiane, dovendo piuttosto valutarsi se la lex arbitri straniera applicata abbia garantito il rispetto dei principi fondamentali del giusto processo, come richiesto dalla Convenzione di New York del 1958.
La pronuncia della Corte riconosce pertanto che l’autonomia statutaria delle società italiane può legittimamente comprendere anche l’opzione per arbitrati internazionali con sede estera, sempreché ciò non pregiudichi la tutela effettiva delle parti e il rispetto dei principi fondamentali del procedimento.