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Argentina: una crisi non critica (tra finanza razionale e finanza comportamentale)

4 Agosto 2014

Giuseppe G. Santorsola, Professore # Ordinario di Corporate Finance e Corporate & Investment Banking Università Parthenope di Napoli

Il rumore suscitato dal default selettivo dell’Argentina deve essere correttamente inquadrato per la sua corretta valutazione.

Questa nota è dedicata ai risparmiatori; ben diverso sarebbe il testo se dovessi commentare la situazione dal punto di vista di un hedge fund o di un investitore alla ricerca di investimenti “stressed”.

L’ammontare del mancato pagamento è relativo al pagamento di cedole e non al rimborso del capitale. L’impatto sui prezzi delle obbligazioni è stato di fatto contenuto e non ha suscitato l’attenzione leggibile come panico che altrimenti si sarebbe verificata.

Si tratta di una crisi “voluta” e quasi ricercata dal debitore, una reazione ad una sentenza non condivisa dal Governo Argentino, comunque in condizioni critiche, e – soprattutto – non inevitabile, nell’ambito di una contrapposizione con un interlocutore specifico rappresentato dagli hedge fund e non dagli investitori finalizzati a differenti orizzonti.

Restando attenuato l’impatto sugli investitori più istituzionali la bassa reazione non favorisce gli obiettivi degli speculatori più propensi all’aggressività.

Si è notato un tono basso della comunicazione da parte della stampa più qualificata in contrapposizione con l’evidenza offerta da siti e pubblicazioni più dedicati alla comunicazione aggressiva, spesso alimentata da un conflitto di interessi sottostante in chi gestisce quei media..

Peraltro, alcune valutazioni generano rischio per i soggetti in possesso di titoli oggetto di ristrutturazione e non per quelli (già di per se sottoposti a rischio) che a suo tempo rifiutarono lo scambio nel 2005-2010. Le regole applicate sono collegate ad azioni collettive per le quali sono necessarie maggioranze difficilmente conseguibili, a motivo delle quali le azioni possibili sono limitate. Chi avesse venduto in questi giorni, ha acquisito liquidità (per la quale investire non è agevole se non a bassi tassi), ma evita l’ingessamento delle proprie posizioni e una condizione di stress per le conseguenti decisioni.

Sotto il profilo della pura valutazione razionale, la sentenza statunitense che ha generato la criticità non appare soluzione vantaggiosa; rappresenta la prova che l’intervento della magistratura nelle questioni finanziarie, legittima in punta di diritto, non è la scelta preferibile per i mercati e per i suoi operatori meno attenti o meno disponibili alla continua movimentazione delle proprie posizioni.

Per il lettore italiano, una riprova che l’azione giudiziaria è inidonea alla gestione delle condizioni generata dalla dinamica delle variabili finanziarie. Il diritto non è un driver corretto ed opera secondo schemi che non interpretano le condizioni moderne della finanza. Un tema sul quale i Regulators mondiali dovranno muoversi in futuro per donare alle Magistrature di ogni paesi strumenti più adatti. Applicare quelli in vigore, aumenta la ampiezza e la gamma dei rischi, palesando condizioni peggiori di quelle che potrebbero altrimenti generarsi.

A fine 2014 scade inoltre la clausola RUFO (Rights Upon Future Offers) che, in caso di trattamenti migliori riservati ai bondholders, dà diritto di chiedere le stesse condizioni. Per questo motivo il governo argentino sta chiedendo alla giustizia di sospendere la sentenza fino a fine anno, per evitare di dover gestire nuove cause. Il timore è che il prezzo dei titoli precipiti senza una precisa razionalità.

Il fatto che, al momento, i sottoscrittori meno influenzati siano quelli protetti dalla Task Force Argentina (coloro che rifiutarono la negoziazione) non significa che quella soluzione sia la migliore; soltanto è quella meno influenzata dagli eventi, mentre la possibilità praticare di vedersi rimborsati e protetti resta giuridicamente elevata, ma fattivamente sempre difficile.

Sono personalmente convinto che la combinata azione della sentenza americana, della indecisione argentina e della struttura del diritto internazionale in vigore creino una condizione negativa, restando, singolarmente, un insieme di decisioni razionali e corrette. Peccato che non generino un risultato tangibile, anche se – in ipotesi puramente teorica – costituiscono una arma di pressione per i legislatori affinché modifichino le fondamenta in base alle quali i tribunali assumono le loro decisioni.

E’ certamente necessario modificare le condizioni in base alle quali le emissioni private, le corporate bond e le altre obbligazioni sono protette quasi ovunque dalle norme sulla disciplina delle crisi, mentre il debito sovrano resta estraneo a tali normative. In tal modo la quota prevalente dei bond in circolazione gode di una condizione di diverso privilegio, invertendo la abituale classificazione del rischio cui siamo abituati. La sentenza, che correttamente definisce il solo caso sottoposto al suo giudizio, impatta quale blocco su una quota del debito inferiore al 10% del totale con effetto sulla restante quota. Chi valuta questo aspetto tecnico non teme una crisi sistemica, ma la reazione comportamentale potrebbe alterare questa obiettiva considerazione.

Resta valida in generale la lezione già percepita negli anni scorsi. I titoli di cui si tratta (non solo quelli argentini) non sono adatti alla massa dei risparmiatori che è invece coinvolta in ossequio alle scelte – disallineate rispetto alla valutazione del rischio – che sono state suggerite, consigliate e offerte in passato a risparmiatori e investitori cui spettava un servizio di consulenza del tutto differente. Una lezione indispensabile per scrivere in modo conforme le regolamentazioni secondarie della direttiva MiFID2.

Sarebbe teoricamente valido ma poco efficace ritornare a commentare gli errori del passato; personalmente sono convinto che uscire dall’investimento sia (o meglio sia stata) la scelta migliore, che l’ottimo relativo sia stato cedere i titoli all’inizio della fase di incertezza e che la valutazione in merito debba considerare il fatto che, dal momento della conversione nei nuovi accordi, i possessori dei titoli abbiano acquisito rendimenti superiori a quelli altrimenti disponibili, elemento che deve essere considerato nel valutare la perdita di capitale in cui si è incorsi (o si incorrerà) al momento della vendita.

Posso ben comprendere attese e comportamenti degli investitori più avezzi al rischio; non capirei perché i loro obiettivi dovrebbero essere facilitati da comportamenti irrazionali dei “risparmiatori”, i quali già compirono un errore nel momento iniziale del loro coinvolgimento.

Se si evita di interpretare correttamente la situazione, il rischio più grave è quello di corrodere il mercato delle emissioni di titoli da parte della grande maggioranza dei Paesi sovrani per i quali lo spread rispetto ai benchmark risulti particolarmente elevato; sarebbe questa nel medio termine la conseguenza più gravosa, obbligando ad interventi delle istituzioni internazionali, al momento non certo auspicabili nella misura che sarebbe necessaria. In assenza di un accordo di Bretton Woods aggiornato, ci troveremmo in Woods inesplorate del tutto pericolose.

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