La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6758, ribadisce la tesi secondo cui l’art. 20, D.p.r. n. 131/1986 (“T.u.r.”) detterebbe una disposizione interpretativa e non una regola antielusiva imponendo “[…] una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva […]”.
Sulla scorta di questo principio di diritto, i Giudici di Piazza Cavour accolgono la tesi dell’Ufficio il quale ha provveduto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 20, “T.u.r.”, alla (ri)-qualificazione come cessione d’azienda di un conferimento seguito da una cessione ad un soggetto terzo dell’intera partecipazione nella società conferitaria.
Per contro, la difesa del contribuente ha innanzitutto opposto ragioni extra-fiscali a sostegno dell’operazione col fine di escludere la sussistenza di un intento elusivo sotteso alla sequenza negoziale posta in essere. In altre parole, la società contribuente ha ritenuto l’art. 20, “T.u.r.” una norma antielusiva stricto sensu al pari di quella contenuta nell’art. 37-bis, D.p.r. n. 600/1973 giungendo alla conclusione che in assenza di una finalità elusiva non possano ricorrere i presupposti applicativi del medesimo articolo 20. Ad ulteriore riprova della bontà del proprio operato, la società ha anche obiettato che la cessione d’azienda produrrebbe effetti giuridici ben distinti rispetto a quelli scaturenti da un conferimento nonostante gli effetti economici delle due operazioni possano dirsi equivalenti. A tal proposito, l’art. 20, “T.u.r.”, ha sostenuto ancora la difesa, compie testuale riferimento proprio agli “effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione”.
La Corte, nel motivare il proprio pronunciamento, ripercorre la tormentata genesi interpretativa che ha interessato l’art. 20, “T.u.r.” altresì alla luce dell’introduzione dell’art. 10-bis, L. n. 212/2000[1] (“Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”).
I Giudici, opponendosi alla tesi della società contribuente, asseriscono dapprima che in una pluralità di atti “[…] non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva […]”– tentando di risolvere, così, l’annosa ambiguità provocata dalla disposizione del 1923 secondo cui ai fini dell’imposta di registro rilevassero gli effetti economici piuttosto che quelli giuridici – quindi, avvalorano, quale diretta conseguenza logica di quanto precede, la concezione che vuole l’imposta di registro come “[…] “imposta di negozio” correlata alla causa concreta dell’operazione […]”[2].
La Corte di Cassazione pone poi in evidenza la diversità di oggetto e di natura tra le norme interessate dalla vicenda – l’art. 20, “T.u.r.”, per l’appunto, l’ex art. 37-bis, D.p.r. n. 600/1973 e l’art. 10-bis, L. n. 212/2000 – puntualizzando, in definitiva, che la disposizione interpretativa del Testo unico del registro “[…] può attingere la causa economica delle fattispecie negoziali complesse, mentre la disposizione antielusiva […] riguarda le fattispecie negoziali prive di “causa economica” (Cass. 10 febbraio 2017, n. 3562) […]”.
Sebbene il ragionamento della Suprema Corte possa essere in parte condiviso, operazioni come quella in commento configurerebbero circostanze di forte incertezza del diritto con l’Amministrazione finanziaria libera di definire fattispecie imponibili diverse da quelle volute dai contribuenti.
[1] Proprio la coniazione legislativa dell’“abuso del diritto” ha dato luogo ad alcune, seppur isolate, pronunce giurisprudenziali che hanno subordinato la riqualificazione degli atti ex art. 20, “T.u.r.” alla prova della sussistenza di un disegno elusivo (vd. Cass. civ. Sez. V, Sent., 27-01-2017, n. 2054).
[2] Cfr. Cass. civ. Sez. V, 25-02-2002, n. 2713, Cass. civ. Sez. V, Sent., 05-06-2013, n. 14150, Cass. 14.02.2014, n. 3481.