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Giurisprudenza

Art. 23 TUF, nullità derivata e buona fede: la nullità (di protezione) non “protegge” l’investitore che l’abbia invocata abusando del diritto

23 Settembre 2015

Avv. Martina Gentile, Studio Legale Giovannelli & Associati

Tribunale di Modena, 06 maggio 2015, n. 846

Ii Tribunale di Modena, con la recente sentenza n. 846/2015, ha fornito un’interessante applicazione pratica dell’ormai noto principio di buona fede c.d. “processuale”, che – nell’interpretazione del citato provvedimento – assurge a criterio per verificare la stessa “azionabilità” di rimedi tipicamente protettivi quali le nullità relative.

Il caso sottoposto all’attenzione del Giudice modenese era quello di un investitore che assumeva la nullità, per violazione dell’art. 23 TUF, del contratto quadro stipulato con un istituto bancario e mai sottoscritto da parte dell’intermediario. In particolare, l’invalidità del contratto quadro veniva invocata al solo fine di ottenere la declaratoria di nullità derivata (con conseguente condanna della banca alla restituzione delle somme investite) di uno specifico ordine esecutivo dell’accordo quadro, e cioè l’ordine di acquisto dei titoli Lehman, che – per le ben conosciute vicende – si era rivelato essere un “investimento ad alto rischio”.

Correlativamente, ed è questo il punto nodale della vicenda, il consumatore/investitore faceva salva la totalità delle altre operazioni poste in essere in esecuzione di quell’(invalido) contratto quadro, nell’assunto che le stesse avessero invece recato all’attore un apprezzabile margine di profitto.

Si trattava, dunque, di un caso di esercizio selettivo dell’azione di nullità: fattispecie, questa, già portata in precedenza all’attenzione della giurisprudenza, che ne ha peraltro a più riprese dichiarato la legittimità, nel presupposto che l’invocazione di effetti restitutori limitati – conseguenti alla mancanza di un contratto quadro – sia il naturale portato dell’applicazione del principio della domanda (art. 99 c.p.c.) e di quello di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c. (si veda, ad esempio, Tribunale di Prato, sentenza 2 agosto 2013 e, recentemente, Tribunale di Milano, sentenza 29 aprile 2015).

Da questo orientamento si discosta il Giudice modenese, che ravvisa invece una sostanziale aporia connaturata alla domanda: vero è, sostiene la sentenza in commento, che la nullità relativa comminata dall’art. 23 TUF è posta a presidio del contraente debole, i.e. il consumatore/investitore. Tuttavia, l’esercizio selettivo dell’azione di nullità costituisce una vera e propria violazione della clausola di buona fede in senso oggettivo e si traduce in un utilizzo improprio della tutela approntata dall’ordinamento, laddove l’investitore scelga poi di preservare la maggior parte degli effetti pratici del negozio di cui (teoricamente) invoca l’inefficacia.

Quanto alle conseguenze della violazione della clausola di buona fede oggettiva, la risposta è netta: l’abuso del diritto processuale può legittimare il Giudice a non conoscere della domanda, a non esaminarne il merito.

Ciò anche quando la domanda verta su questioni rilevabili d’ufficio (e la nullità è senz’altro una di queste): ed infatti, la sentenza 846/2015 propugna il principio (mutuato da una certa giurisprudenza di legittimità) per cui se la nullità deve essere sempre “rilevata”, non necessariamente il Giudice poi deve “dichiararla”.

Dunque, una volta che la nullità relativa sia stata rilevata dalla parte che ne ha interesse, l’organo giudicante resterà comunque libero di valutare la domanda tesa ad ottenere la dichiarazione di nullità e – laddove, come nella fattispecie, tale domanda confligga con generali precetti di buona fede – potrà rigettarla, o addirittura non valutarla.

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