Premessa
La sentenza della Cassazione Penale 3 dicembre 2019 (dep. 11 marzo 2020), n. 9755, che interviene nell’ambito di un procedimento incidentale cautelare pendente nei confronti di un soggetto indagato per il reato di associazione per delinquere finalizzata all’evasione dell’imposta sul valore aggiunto ed all’autoriciclaggio dei relativi proventi, affronta alcune questioni di particolare interesse in relazione al reato di autoriciclaggio, previsto e punito dall’art. 648-ter.1 c.p.
In primo luogo, con la pronuncia in esame la Suprema Corte offre utili indicazioni circa lo spettro di ipotesi riconducibili alla nozione di “attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”, previste dalla fattispecie incriminatrice di autoriciclaggio e nell’ambito delle quali possono essere impiegati, sostituiti o trasferiti i proventi di altro reato. Inoltre, la sentenza tratta nuovamente la questione che – all’indomani dell’introduzione del delitto di self-laundering – ha posto numerosi interrogativi e generato un ampio dibattito, relativa al significato da attribuire al quarto comma della disposizione, per il quale, “fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale”.
Sentenza
La pronuncia della Suprema Corte attiene alla fase cautelare di un procedimento penale nell’ambito del quale un gruppo di soggetti è sottoposto ad indagini per i reati di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., di emissione di fatture per operazioni inesistenti ai sensi dell’art. 8 del D. Lgs. n. 74/2000 e di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p. Più nel dettaglio, i fatti sottoposti all’attenzione della Corte riguardavano l’evasione dell’IVA attuata attraverso l’acquisto di beni mediante lettere di intenti, allo scopo di beneficiare del regime della sospensione d’imposta (grazie al quale particolari categorie di soggetti sono ammesse ad acquistare e importare beni, senza essere assoggettate alla relativa imposta). Il sodalizio criminale provvedeva poi – tramite società di comodo – ad effettuare operazioni di acquisto e vendita di tali beni, in questo caso soggette ad IVA, senza tuttavia operare il versamento dell’imposta, anche se la stessa veniva poi portata in detrazione nelle relative dichiarazioni.
Da ultimo, una società olandese fatturava importi – per operazioni inesistenti – a carico di una società italiana riconducibile agli indagati, la quale provvedeva al pagamento delle somme richieste, mediante bonifico bancario. Gli importi così accreditati rientravano infine in Italia, nella disponibilità del gruppo criminale, sotto forma di denaro contante consegnato direttamente nelle mani degli indagati.
Nella vicenda in commento, il Tribunale del Riesame di Venezia respingeva l’istanza proposta dall’indagato avverso l’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari di Rovigo, con la quale il magistrato aveva in prima battuta disposto l’applicazione della misura degli arresti domiciliari. Conseguentemente, l’indagato presentava ricorso per Cassazione, lamentando – per quanto qui interessa – la violazione di legge e il vizio di motivazione di cui all’art. 606, comma 1 lett. b) e lett. e) c.p.p., rilevando che il pagamento di fatture per operazioni inesistenti non potesse rientrare nella definizione di attività economica prevista dalla fattispecie, anche alla luce del fatto che i proventi dell’illecito venivano suddivisi tra i soggetti agenti e destinati a mero godimento personale.
Considerazioni
La Suprema Corte è chiamata a pronunciarsi sulla sussumibilità sotto la fattispecie di autoriciclaggio del pagamento di fatture per operazioni inesistenti, difettando – ad avviso del ricorrente – il requisito del trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, anche considerando che il denaro rientrava in un secondo momento nel territorio nazionale in contanti ed era destinato a godimento personale (e non ad investimento).
Sul punto, la Cassazione ritiene irrilevante la riconosciuta apparenza delle operazioni economiche oggetto di fatturazione, dal momento che rientrerebbe nel concetto di «attività economica/finanziaria imprenditoriale anche il solo impiego di fatture per operazioni inesistenti, come pure l’effettuazione di operazioni finanziarie (quale l’emissione di un bonifico) aventi come causale il pagamento di una fattura contabilmente rilevante». Sotto questo profilo, in sentenza si evidenzia come l’emissione di un documento contabile, con valenza economica e fiscale (in quanto destinato – rispettivamente – ad essere annotato nei registri e a concorrere alla formazione del bilancio), così come l’avvenuto pagamento della fattura, integrano senza dubbio una forma di attività economica o finanziaria. Del resto, a riprova della natura economica del sinallagma effettuazione bonifico/ricezione fattura (ancorché per operazione inesistente), la Corte sottolinea la possibilità di utilizzare il documento fiscale per ottenere un’apertura di credito o di far valere il pagamento quale costo comportante un abbattimento dei ricavi.
Il successivo rientro delle somme in Italia rappresenterebbe quindi non la dimostrazione del godimento personale (invero, non provato), ma solo la parte conclusiva dell’iter criminis, mentre le già descritte modalità di ritorno (in forma di denaro contante) sarebbero – per il giudice di legittimità – espressione dell’idoneità della condotta a frapporre un ostacolo concreto all’identificazione della provenienza delittuosa.
Il secondo tema di indubbio interesse affrontato dalla pronuncia in commento è quello relativo all’interpretazione assegnata dalla Corte di Cassazione alla clausola di esonero prevista dall’art. 648-ter.1, comma 4 c.p. Oltre a rilevare che, sotto il profilo fattuale, «nessun elemento concreto consente di affermare fondatamente la presenza di un impiego esclusivamente personale degli importi rientrati dall’Olanda», la Suprema Corte, rifacendosi alle argomentazioni già avanzate in altra pronuncia della medesima sezione, prende posizione sul valore precettivo della clausola del quarto comma, inquadrandone portata e significato anche alla luce dei vari orientamenti dottrinali.
Nel richiamato precedente la Corte, chiamata a pronunciarsi circa la corretta interpretazione da attribuire alla locuzione “fuori dai casi di cui ai commi precedenti”, ripercorreva i due indirizzi registratisi sul punto in giurisprudenza ed in dottrina.
Secondo un primo orientamento, che ritiene prevalente l’argomento letterale o semantico, la disposizione avrebbe unicamente carattere interpretativo, limitandosi a chiarire al meglio l’ambito di applicazione del reato in esame. L’esenzione sarebbe quindi destinata a trovare applicazione in tutte quelle ipotesi già estranee alla fattispecie di autoriciclaggio (per come delineata al primo comma), ossia nei casi in cui l’agente, dopo aver realizzato il reato presupposto, abbia posto in essere condotte altre rispetto a quelle tipizzate. Non sarebbe dunque possibile discostarsi dal dato testuale, altrimenti incorrendo in un’inammissibile violazione dei principi di tassatività e determinatezza del diritto penale. Appare evidente come da tale interpretazione deriverebbe senza alcun dubbio una qualificazione dogmatica sui generis della previsione, dal momento che il legislatore – con la disposizione del quarto comma – si sarebbe limitato a definire in negativo le condotte dell’“autoriciclatore”, al fine di colmare quel deficit di tipicità di cui soffre l’intera fattispecie.
Al contrario un secondo orientamento, con l’obiettivo di attribuire all’esclusione del quarto comma un proprio spazio applicativo, ha invece interpretato il sintagma di apertura in altri termini, ritenendo che il legislatore sarebbe incorso in un errore, scrivendo “fuori dei casi” invece di “nei casi”. Ragionando diversamente, si svuoterebbe infatti di significato il quarto comma, declassandolo a mera precisazione. Di conseguenza, si ritiene che l’esenzione in parola dovrebbe essere inquadrata tra le cause di esclusione della tipicità, individuando essa un limite negativo del fatto tipico, in quanto descrive una modalità della condotta espressamente esclusa dalla rilevanza penale. In replica a quest’ultimo orientamento, la Corte ha invece osservato – nel richiamato precedente – come quest’ultima soluzione stravolga il significato della fattispecie incriminatrice, in violazione del canone dettato dall’art. 12 delle preleggi, il quale vieta all’interprete l’attribuzione di un senso differente da quello «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore».
La Suprema Corte evidenzia, in ogni caso, l’utilità della clausola prevista dal comma quarto, pur non ritenendola una causa di non punibilità, bensì una norma di portata interpretativa. In particolare, ad avviso della Corte, la locuzione in esame sottintende «a) un uso diretto – da parte dell’agente – dei beni provento del delitto presupposto: ciò può agevolmente desumersi dall’aggettivazione (“mera”: rectius: semplice; “personale”) dei due sostantivi (“utilizzazione”; “godimento”) che non lascia spazio ad alternative. Di conseguenza, non rientra nella fattispecie in esame una condotta a seguito della quale l’agente utilizzi i beni in modo indiretto, come, ad esempio, il godimento personale di un bene provento del delitto presupposto che, anziché essere goduto o utilizzato personalmente (quindi, direttamente), sia stato, prima di essere utilizzato, sottoposto ad operazioni di riciclaggio che ne abbiano concretamente ostacolato l’identificazione della provenienza delittuosa; b) l’assenza di qualsiasi attività concretamente ostacolativa dell’identificazione della provenienza delittuosa del bene. A tale conclusione si perviene, innanzitutto, sulla base del testo legislativo: se l’agente – per non essere punibile – deve limitarsi a “destinare” direttamente i beni provento del delitto presupposto a sue esigenze “personali”, ne consegue che tale condotta, conseguente a quella del delitto presupposto, non può e non dev’essere caratterizzata da comportamenti decettivi proprio perchè l’agente non avrebbe alcuna necessità “giuridica” di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene che utilizza» (così Cass. Pen., Sez. II, n. 30399/2018).
In detta pronuncia, si ricorda che – prima che il reato di autoriciclaggio fosse inserito nel nostro ordinamento – per il reato di cui all’art. 648-bis c.p. era previsto il cd. privilegio dell’autoriciclatore, che considerava non punibili le condotte attualmente previste dall’art. 648-ter.1 c.p., in quanto considerate una mera prosecuzione del reato presupposto. Oggi, invece, l’ambito di applicazione del privilegio di self-laundering deve considerarsi più limitato, ma – in ogni caso – l’autore del delitto presupposto non potrà essere punito laddove non ponga in essere condotte capaci di impedire la tracciabilità della provenienza delittuosa del denaro, dei beni e delle altre utilità provenienti dal delitto non colposo, limitandosi al mero utilizzo o godimento dei beni provento del delitto.
La Suprema Corte si serve dunque del citato precedente al fine di affermare l’irrilevanza della argomentazione difensiva per cui il denaro contante, rientrato dall’Olanda e spartito tra gli indagati, fosse stato destinato al godimento personale. Sul punto, il giudice di legittimità conclude che «la suddetta clausola non si applica a tutte le condotte descritte nei commi precedenti del medesimo articolo [..]. Dunque, l’espressione “fuori dai casi” a livello semantico null’altro significa che la fattispecie in essa considerata è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei “commi precedenti”. Con la conseguenza che, una volta che la fattispecie criminosa di cui al comma 1 dell’art. 648-ter.1 c.p. sia integrata in tutti i suoi requisiti, l’agente è sanzionabile penalmente, restando del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia “meramente” utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale».
In conclusione, quindi, è possibile non rispondere del delitto di autoriciclaggio, solo qualora si utilizzi o goda dei proventi del reato presupposto in modo diretto e senza compiere alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. La deroga al ne bis in idem sostanziale può quindi giustificarsi solo in presenza di atti che non si traducano nel mero godimento o nella trasparente disposizione del provento (quale naturale prosecuzione del reato presupposto), ma che – al contrario – rappresentino ulteriori condotte artificiose, idonee a recare ostacolo all’identificazione del provento illecito.