Nel caso di specie, il Tribunale di Milano era chiamato a giudicare un’azione di responsabilità ex art. 2476 c.c. intentata da cinque soci “di capitale” di una S.r.l. nei confronti di un socio d’opera e amministratore, nonché dei genitori di questa, l’una amministratrice di diritto, l’altro asseritamente amministratore di fatto della società dalla costituzione sino alla nomina di un liquidatore di fiducia degli attori. Ai tre era imputata l’appropriazione di ricavi liquidi non dichiarati, la tenuta delle scritture contabili in maniera tale da celare tali appropriazioni, nonché la cessione, tramite negozi simulati, del compendio aziendale dalla S.r.l. danneggiata ad altra società facente capo alla convivente dell’asserito amministratore di fatto.
Tali addebiti, peraltro, erano già stati enucleati, pur essendo in parte estranei al thema decidendum, in una causa d’impugnazione delle delibere che approvavano i bilanci 2011 e 2012, introdotta dai medesimi attori e conclusasi, dopo la nomina da parte di questi ultimi del liquidatore, con una “singolare conciliazione giudiziale” avente ad oggetto, tra l’altro, proprio il riconoscimento della fondatezza delle censure mosse agli amministratori e l’esistenza di un credito, a favore di parte attrice, derivante dalla mancata distribuzione degli utili non contabilizzati negli esercizi 2011-2014.
Sulla base di tale riconoscimento e di una relazione peritale che, riconosciuta la frammentarietà e la mancanza di chiarezza delle scritture contabili della società, provvedeva a ricostruire i ricavi ipotetici dai valori di corrispettivi, materie prime e rimanenze, unitamente agli studi di settore dell’Agenzia delle Entrate, gli attori avevano poi quantificato e provato il danno arrecato dai gestori alla società nel diverso procedimento ex art. 2476 c.c. in misura pari all’ammontare degli utili non distribuiti ai soci.
Il Tribunale meneghino, rilevato che non c’era contestazione sul fatto che parte degli incassi non fosse contabilizzata, si trova ad affrontare la duplice questione della corresponsabilità dell’amministratore di fatto e della sussistenza del danno. Ed è proprio su questa seconda che, in ossequio al principio della ragione più liquida, il giudicante appunta la sua attenzione.
In primo luogo, il Tribunale esclude che gli attori abbiano soddisfacentemente provato l’esistenza dell’asserito danno, rimasto “pura ipotesi”, attesa l’inattendibilità dei dati desunti dalla contabilità sociale e l’inutilizzabilità delle metodologie induttive che dotate di valore di prova presuntiva unicamente in ambito fiscale. L’importo stesso, peraltro, è per il giudicante erroneamente quantificato nel monte utili che i soci avrebbero percepito se i ricavi fossero stati correttamente dichiarati – dato emergente proprio dal riconoscimento operato dal liquidatore espressione degli stessi soci attori, il che escluderebbe lo stesso valore probatorio della ricognizione, operata oltretutto in giudizio in cui gli amministratori non erano parti.
Per di più, a fronte della contestazione della gestione extracontabile dei ricavi, la prova liberatoria che rimane all’amministratore consiste nella dimostrazione che tali importi abbiano comunque avuto una destinazione inerente all’attività sociale e, quindi, che non siano stati distratti ad altri fini. E la detta circostanza fattuale risultava provata dalle dichiarazioni di uno dei testi di parte attrice, secondo cui i ricavi “in nero” erano utilizzati per pagare in contanti i fornitori sociali, ricostruzione avvalorata in via presuntiva dall’assenza di qualsiasi istanza di accesso a procedure concorsuali, a cura del liquidatore, che indurrebbe ad escludere l’esistenza di poste debitorie significative. Mancando anche la prova della consistenza e del valore dei beni simulatamente ceduti, il Tribunale doveva rigettare la domanda attorea in ragione dell’assenza di prova del danno patrimoniale subito dalla società.