A pensarci è un mistero che le parole possano offendere. Soprattutto se una parola in tempi diversi ha avuto significati del tutto opposti a quelli che finisce per assumere nel tempo presente. È certamente questo il caso della parola “banca”. Dal massimo di fiducia e reputazione che accompagnava la parola e i suoi significati, siamo passati all’offesa e al disprezzo, alla percezione di pericolo e rischio, e all’attribuzione delle peggiori aggettivazioni, sia per le istituzioni che per chi ci lavora. Il premio Nobel della letteratura Octavio Paz ha scritto che: “Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia quindi con la grammatica e il ristabilimento dei significati”. D’altra parte se si considera il linguaggio del management bancario degli anni del cosiddetto turbo-liberismo, non è difficile ravvisare la necessità di una critica della ragione manageriale che passa anche per una critica dei linguaggi. Facciamo alcuni esempi che possono essere illuminanti, purtroppo col senno di poi, di cui come è noto sono pieni i fossi. Da un certo momento in poi, in quei tempi, le performance sono divenute tutte “eccellenti”; la qualità è diventata necessariamente “totale”; gli stili manageriali ritenuti adeguati sono diventati quelli “aggressivi”. Il linguaggio abilita comportamenti. Quelli linguistici sono veri e propri atti. John Austin, importante linguista, ha scritto un libro fondamentale che si chiama. “Quando dire è fare”. È evidente che quando l’esasperazione linguistica raggiunge livelli estremi sarebbe importante chiedersi cosa sta succedendo. Tra le altre cose, forse la conseguenza più importante è che quando un fenomeno è “eccellente”, “totale” o simili, assume una ben strana caratteristica: non è più perfettibile. È basato perciò sulla negazione dell’incertezza e non sulla disposizione ad apprendere da incertezza ed errori. È portatore di assenza di spazi di miglioramento e innovazione. Assume connotazioni totalitarie che non si concedono l’esercizio del dubbio. A ben guardare ne viene fuori il ritratto di quel che è accaduto, con le conseguenze reputazionali che hanno generato lo scivolamento e il degrado semantico e di immagine pubblica della parola e del fenomeno “banca”. Di ritorno da un incontro seminariale alla Scuola di Economia Civile di Loppiano, dove abbiamo analizzato le conseguenze attuali di un certo modo di esercitare il management e di gestire le organizzazioni sia private che pubbliche, mi ritrovo a chiedermi dove abbiamo sbagliato nel concorrere a creare una cultura e dei linguaggi manageriali che, il meno che si possa dire, non sono stati all’altezza delle trasformazioni che sono intervenute, dopo aver concorso a causarle. L’inefficacia nelle decisioni e la carente qualità delle scelte hanno prodotto e producono conseguenze spesso indesiderabili e ciò è evidente in non pochi ambiti. La diffusione per imitazione, spesso acritica, dei modelli di comportamento manageriale che si sono affermati nel tempo dell’individualismo iperliberista, ha portato spesso a trascurare il senso della responsabilità etica e sociale nella gestione, in nome di forme di retorica e di arroganza che hanno comportato e comportano costi sociali ed economici importanti. L’influenza del management si è fatta spesso politica, riguardando le strategie delle aziende e delle istituzioni, e ciò ha portato a scelte che si sono rivelate controintuitive e problematiche, quando non hanno messo in discussione l’identità stessa e i vantaggi competitivi specifici delle organizzazioni, come è in una parte non secondaria del sistema bancario. C’è da chiedersi se la formazione che pure è stata svolta, anche con investimenti di un certo livello e con azioni di qualità, possa incidere effettivamente, di fronte a scelte di governo che si mostrano pervicaci nel perseguire progetti che cercano innovazione per imitazione. Lo scarto tra l’attenzione alle persone e orientamenti e disorientamenti di governo ha creato una crisi di legame sociale all’interno delle organizzazioni. Un contratto psicologico rotto vige oggi dentro la maggior parte delle organizzazioni, dove la partecipazione e la ricerca del bene vicendevole sono non solo trascurati ma, addirittura, motivo di disinteresse se non di derisione. L’indifferenza, intesa come una sospensione eccessiva della risonanza tra esseri umani, insieme al conformismo e alla saturazione dei linguaggi e delle prassi, hanno condotto ad un esercizio della managerialità schiacciato sull’esistente, in un tempo in cui la generatività e l’innovazione sarebbero particolarmente importanti. La carenza di strategie di governo crea, perciò, disagi individuali e i livelli di stress che sono evidenti. Nel momento in cui si riconosce da più parti la stretta interdipendenza tra qualità delle relazioni interne e produttività, sarebbe proprio il caso di veder emergere progetti e strategie per valorizzare il meglio che c’è e far nascere il nuovo che serve. Per questo scopo abbiamo bisogno anche di un vocabolario più sobrio e concreto, che ridia dignità alle parole, agganciandole al senso di responsabilità, perché come dice Alice nel paese delle meraviglie, “tutto dipende da chi è padrone dell’uso delle parole”.
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