“In ipotesi di distrazione di cespiti aziendali, non può, nei confronti del soggetto investito solo formalmente di una carica gestoria della società, trovare automatica applicazione la massima di orientamento secondo cui, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza dei disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto”.
Così i Giudici della V Sezione della Suprema Corte accolgono (parzialmente) il primo dei motivi del ricorso presentato da due imputati condannati per i reati di bancarotta patrimoniale – fraudolenta e preferenziale – e per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, i quali denunciavano l’assenza di motivazione da parte della Corte d’Appello di Potenza riguardo ad una ragione di gravame specificamente dedotta e relativa alla circostanza per cui i ricorrenti avrebbero in realtà avuto un ruolo subalterno nell’ambito della realtà societaria. Più precisamente, la censura aveva ad oggetto il fatto che la Corte territoriale si fosse limitata a rilevare che una posizione di garanzia gravava sui due soggetti in virtù della funzione espletata all’interno dell’organigramma societario (rispettivamente di Presidente e di componente del Consiglio di Amministrazione) che imponeva loro di attivarsi per impedire la commissione di atti depauperativi del patrimonio societario.
Gli Ermellini, con riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale, rammentano il consolidato orientamento secondo cui l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, in frode ai creditori, delle scritture contabili “anche laddove sia investito formalmente dell’amministrazione della società fallita (cosiddetta “testa di legno”) in quanto sussiste il diretto e personale obbligo di tenere e conservare le predette scritture”.
Rispetto al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, invece, giungono ad affermare il principio di diritto in incipit riportato, evidenziando come non si possa automaticamente ritenere che l’accettazione della carica di amministratore formale celi un disegno criminoso dell’amministratore di fatto; al contrario, occorre che anche quando tale dissimulazione si verifichi, “le conseguenze della condotta dell’amministratore di fatto, che l’amministratore di diritto, in virtù della carica, aveva l’obbligo giuridico di impedire, possano a lui ricollegarsi dal punto di visa psicologico, per averne egli avuto, quantomeno, generica consapevolezza, non potendosi questa presumere in base al semplice dato di avere il soggetto acconsentito a ricoprire formalmente la predetta carica”.
Ne consegue che spetta al Giudice dar conto puntualmente delle ragioni che consentano – oltre ogni ragionevole dubbio – di ritenere che coloro che risultino formalmente amministratori di una società pieghino il proprio ruolo di garanti dell’integrità del patrimonio aziendale a quello di schermo delle manovre occulte dell’amministratore di fatto ed abbiano contezza delle operazioni compiute in frode ai creditori sociali, così accettando le conseguenze di tali atti.