Con la Sentenza n. 9819 del 2 dicembre 2015 (Presidente D’Orsi, Relatore Chiametti) la giurisprudenza di merito è tornata a pronunciarsi sul tema del beneficiario effettivo ai fini del diritto interno, riconoscendo che la certificazione proveniente dal fisco estero attestante la configurabilità di tale status è condizione sufficiente a godere dell’esenzione dalle ritenute alla fonte sui pagamenti in uscita dal territorio dello Stato.
La controversia nasce a seguito di una verifica fiscale nel corso della quale l’Ufficio contestava al contribuente, una compagnia assicurativa italiana, l’erronea esenzione da ritenute su interessi passivi corrisposti alla consociata francese, ai sensi dell’articolo 26-quater del DPR 600/1973 e Direttiva 2003/49/EC.
Il contribuente, da parte sua, ribatteva portando all’attenzione dell’Ufficio la documentazione necessaria al fine di beneficiare dell’esenzione in epigrafe, ovvero produceva attestazione dell’amministrazione finanziaria estera attestante lo status di titolare effettivo del reddito da parte della consociata francese e, soprattutto, allegava la dichiarazione dello stesso beneficiario effettivo attestante la sussistenza dei requisiti di cui ai commi 2 e 4 del medesimo articolo 26-quater.
L’Ufficio, a questo punto, resisteva al ricorso proposto dal contribuente, presentando controdeduzioni con le quali ribadiva di non disconoscere lo status di beneficiario effettivo della consociata francese, come richiesto dall’articolo 11, paragrafo 2 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Francia, quanto la mancanza di data certa sull’attestazione prodotta dalla controparte, che anzi, risultava posteriore alla data di pagamento degli interessi. Dunque, si deduce dalle indicazioni fornite dall’Ufficio, alla norma di fonte domestica si attribuisce un requisito di specialità ulteriore rispetto alla norma convenzionale, per la quale è sufficiente lo status di beneficiario effettivo del soggetto percipiente del reddito.
Insolitamente, il caso qui in esame parrebbe (e il condizionale è d’obbligo, come vedremo più avanti) non far riferimento all’annoso argomento della configurabilità in capo ad un soggetto dello status di beneficiario effettivo (tema ampiamente dibattuto in dottrina e in giurisprudenza, relativo al fenomeno dell’abuso dei trattati internazionali), quanto, piuttosto, a norme procedimentali di diritto interno che ruotano intorno alla bontà dell’autocertificazione del percipiente (come rinvenibile dalla lettura del secondo paragrafo dell’articolo 26-quater, comma 6, laddove statuisce che “la suddetta documentazione [dichiarazione del beneficiario effettivo che attesti la sussistenza dei requisiti indicati nei commi 2 e 4] va presentata (…) entro la data del pagamento degli interessi (…)”.
Ciò premesso, è interessante osservare le conclusioni evidenziate dai giudici di prime cure nella Sentenza n. 9819/1/2015. Conclusioni che non forniscono alcuna indicazione sulla correttezza, o meno, dell’operato dell’Ufficio in quanto alla contestata sussistenza del difetto di data certa sulla documentazione prodotta dal contribuente. La questione viene affrontata andando direttamente al cuore del problema, ovverosia facendo derivare lo status di effettiva titolaritàdel percipiente (come richiesto ai fini della normativa interna con il DPR 600/73) dalla natura sostanziale attribuita alla certificazione rilasciata dal fisco estero, e attestante l’assoggettamento a tassazione di quel reddito nello stato di residenza della controparte. Dunque, dimostrando come la sostanzialità che deriva dal documento consegnato dal fisco estero abbia forza maggiore rispetto alla formalità invocata dall’Ufficio mediante annotazione di data certa sull’autocertificazione del percettore.
I giudici, facendo leva su una serie di precedenti sentenze della giurisprudenza di merito (tra cui si segnalano la Comm. Trib. Lombardia, 29 giugno 2015, n. 2897; Comm. Trib. Piemonte, 4 maggio 2012, n. 28; Comm. Trib. Abruzzo, 30 giugno 2009, n. 154) riconoscono che il certificato di residenza convenzionale (che ricordiamo è quel documento con il quale l’autorità fiscale estera attesta la residenza ai fini tributari nel Paese estero della controparte) può essere ritenuto documento di prova idoneo a godere dei benefici convenzionali tra due Paesi. Dunque, una volta che il soggetto pagatore ha provveduto ad ottenere la documentazione che certifica la titolarità effettiva del reddito da parte del percipiente, deve essere sollevato da qualunque altro compito e/o responsabilità. Questo perché, osservano i giudici, “i certificati emessi dalle autorità fiscali straniere hanno valenza probatoria vincolante”. Eventualmente sarà onere dell’Ufficio avviare un contraddittorio con i colleghi dell’Autorità fiscale estera per valutare l’autenticità dell’attestazione, laddove “il soggetto italiano può limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti dalle medesime disposizioni convenzionali per beneficiare di regimi fiscali di favore”.
In altre parole, come già ribadito da autorevole dottrina, non è possibile derogare all’obbligo di riconoscimento dei documenti prodotti da altra autorità fiscale aderente alla Comunità Europea contravvenendo al principio di mutuo riconoscimento e leale cooperazione. È infatti da censurare ogni comportamento volto a disconoscere, sotto forma di abuso di potere, l’accettazione di documentazione ufficiale proveniente da altre amministrazioni finanziarie. Su questo punto è intervenuta la stessa Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 32/E dell’8 luglio 2011 quando, nell’ambito dell’attivazione di procedure di cooperazione fiscale transfrontaliera previste dalla Direttiva 77/799 CEE, afferma l’esistenza di un tale principio di collaborazione tra amministrazioni fiscali degli Stati aderenti all’Unione Europea.
Intorno a quest’ultimo principio trovano terreno fertile le considerazioni finali dei giudici, che ben coniugano due aspetti. Da un lato, citando la Cassazione Civile, Sentenza n. 1553 del 3 febbraio 2012, con la quale i giudici, in riferimento ad un presunto caso di esterovestizione di una società di diritto olandese, hanno stabilito che una valida prova dell’effettiva residenza all’estero della società possa rinvenirsi nella certificazione rilasciata dall’Autorità fiscale olandese attestante la sua residenza in detto Stato. Dall’altro, richiamando il principio, più volte affermato dalla Corte di Giustizia Europea, di prevalenza della sostanza sulla forma, per scongiurare il rischio di produrre effettivi dissuasivi all’esercizio delle libertà fondamentali (in primis, libertà di stabilimento e libertà di circolazione dei capitali) statuiti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.
Qualche ulteriore riflessione sul tema. Innanzitutto possiamo soffermarci sul documento di prassi – Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 167/E del 21 aprile 2008 (“Istanza di interpello, Applicabilità della Convenzione dello Stato di residenza dei soci sottoscrittori di un fondo trasparente”) – con il quale il soggetto istante chiedeva all’Amministrazione Finanziaria dei chiarimenti (anche) in merito alla documentazione da produrre al fine di consentire al sostituto d’imposta italiano l’applicazione diretta della minore aliquota prevista convenzionalmente. Il parere dell’Ufficio in questo caso è stato molto chiaro, identificando come elementi prodromici per usufruire dell’agevolazione convenzionale i seguenti documenti:
- dichiarazione del soggetto non residente effettivo beneficiario degli utili, dalla quale risultino le condizioni necessarie per l’applicazione del regime convenzionale nonché gli elementi necessari a determinare la misura dell’aliquota da applicare;
- attestazione dell’autorità fiscale dello Stato ove l’effettivo beneficiario degli utili è residente, dalla quale risulti la residenza del medesimo in detto Stato.
Inoltre nel momento in cui l’Ufficio, nella Risoluzione in commento, ricorda che i sostituti d’imposta hanno la possibilità di applicare direttamente le più favorevoli aliquote, indirettamente conferma un elemento di diritto fondamentale. Orbene, una volta che il soggetto pagatore si è preoccupato di ottenere la documentazione proveniente dall’Autorità fiscale estera, ecco che il suo compito si esaurisce. Nulla può e deve essere richiesto in termini di verifica della sussistenza dello status di titolare effettivo del soggetto non residente. Eventualmente, come anche evidenziato dai giudici nella Sentenza n. 9819/1/2015, sarà onere dell’Autorità fiscale italiana stabilire un contatto con i colleghi dello Stato di residenza del percettore del reddito, per chiedere i chiarimenti dovuti.
Sul tema annotiamo la pronuncia della Comm. Trib. Piemonte, 4 maggio 2012, n. 28. La controversia in questione traeva origine dall’eccezione sollevata dall’Ufficio in merito alla qualifica di beneficial owner di una società tedesca, limitatamente al pagamento di canoni di royalties da un soggetto italiano, con cui si riduceva l’aliquota della ritenuta alla fonte dall’ordinario 30% (articolo 25 del DPR 600/73) al convenzionale 5% (articolo 12, paragrafo 2 della Convenzione Italia – Germania). I motivi della decisione legittimano l’applicazione della ritenuta alla fonte in misura ridotta, basando le motivazioni sul “diritto del soggetto italiano di limitarsi ad assumere la certificazione fiscale rilasciata dal Paese estero quale valido elemento di prova della sussistenza in capo al soggetto estero dei requisiti richiesti (…) per godere di regimi fiscali di favore”. Nel caso in esame, osservano i giudici, la società italiana aveva esibito le certificazioni fiscali delle autorità tedesche “che hanno indubbia valenza probatoria”.
Insomma, quella medesima valenza probatoria estesa dai giudici di primo grado nella Sentenza n. 9819/1/2015 anche all’evidenza, ai fini della norma interna per gli effetti del DPR 600/73, dei documenti idonei a godere di un’esenzione da ritenuta alla fonte.