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Giurisprudenza

Brevi note di commento alla luce delle motivazioni della sentenza della Cassazione n. 43809/2015, caso ‘Dolce e Gabbana’

10 Dicembre 2015

Alberto Marcheselli, Professore Associato di Diritto Tributario e Finanziario presso l’Università degli Studi di Genova; Stefano Maria Ronco, Avvocato in Torino

Cassazione Penale, sez. III, 24 ottobre 2014, n. 43809

In data 30 ottobre 2015 sono state depositate le motivazioni dell’assoluzione con formula piena – perché il fatto non sussiste – in relazione alle accuse di evasione fiscale contestate nei confronti di due noti stilisti milanesi, Domenico Dolce e Stefano Gabbana. L’assoluzione, che era già stata resa nota nell’ottobre 2014 – ma di cui si attendevano le motivazioni – ha, quindi, portato a definitiva conclusione il contenzioso penale con la Procura di Milano.

La sentenza presenta molteplici profili meritevoli di approfondimento, sia di diritto penale che di diritto tributario.

In questo commento si è, pertanto, scelto di limitarsi ad affrontare quelle argomentazioni della Cassazione più marcatamente riconducibili a tematiche di diritto tributario, tralasciando l’analisi di altre questioni, quali, ad esempio, la tematica dell’esclusione della rilevanza penale dell’elusione fiscale; la qualificazione e differenziazione dell’evasione dall’elusione in punto di elemento soggettivo del reato; i confini del principio del ne bis in idem; le tipologie di danno non patrimoniale che possono essere lamentate dall’Agenzia delle Entrate costituitasi quale parte civile, malgrado anch’esse offrano spunti di indubbia attualità.

Il percorso argomentativo della Corte – volto all’esame della fondatezza dell’addebito contestato agli imputati circa l’omessa presentazione in Italia della dichiarazione annuale dei redditi ex art. 5, D.Lgs. 74/2000 – viene scandito secondo i seguenti passaggi logici che si incentrano, in particolare, sull’analisi dei presupposti al ricorrere dei quali deve ritenersi sussistente l’obbligo di presentazione di dichiarazione in Italia.

Il percorso argomentativo viene condotto prendendo a riferimento l’art. 73, comma 3, T.U.I.R., che disciplina i requisiti di individuazioni della residenza delle società ed enti assoggettati ad imposizione I.R.E.S.

Come noto, la caratteristica di fondo della disciplina introdotta all’art. 73, comma 3, T.U.I.R. risponde alla funzione – centrale nell’economia di un sistema impositivo come quello italiano improntato ad un criterio di tassazione personale dei redditi – di offrire un criterio di collegamento per la delimitazione del potere impositivo degli Stati.

In questa chiave, l’obiettivo dell’istituto della residenza fiscale è di fornire, appunto, validi criteri che permettano agli operatori di comprendere se e a quali condizioni l’ordinamento domestico consideri effettivamente sussistente una tipologia di legame qualificato tra il soggetto passivo I.R.E.S. ed un dato Paese, tale da legittimare l’assoggettamento a tassazione da parte di quello stesso Stato di tutti i redditi prodotti, su base mondiale, invece che dei soli redditi prodotti sul suo territorio.

Venendo, quindi, ai criteri enucleati dall’art. 73, comma 3, T.U.I.R. occorre rilevare come gli stessi, a carattere alternativo e non cumulativo, tengano in conto tanto elementi formali – quali la sede legale della società – quanto profili di carattere sostanziale – quali l’oggetto principale e la sede dell’amministrazione – che favoriscono un’indagine effettuale, da condursi in chiave casistica, circa la sede di effettivo svolgimento dell’attività economica.

A tale proposito, in conformità ad un consolidato orientamento, la Cassazione riconosce la prevalenza di criteri basati su una logica di effettività, attribuendo centralità al criterio della sede amministrativa quale definizione che meglio permette di cogliere il profilo della direzione effettiva della persona giuridica.

Si tratta, di per sé, di una considerazione non nuova, che costituisce ulteriore conferma della prevalenza, nell’ordinamento giuridico italiano, dell’orientamento legato alla ‘real seat theory’[1].

La Cassazione, tuttavia, non si limita ad un’analisi fondata sulle sole disposizioni di diritto interno, ma, soprattutto, colloca la propria analisi in una dimensione più ampia, dando fondamentale rilevanza agli orientamenti della Corte di Giustizia in materia di tributi armonizzati.

Si tratta, peraltro, di una questione complessa – basata su principi giurisprudenziali con elementi a tratti in parte sovrapponibili – che non si presta facilmente ad una opera di sistematizzazione.

A tale proposito, va preliminarmente evidenziata la giurisprudenza in materia di costituzione e trasferimento della società con riferimento ai casi Centros, Überseering, Inspire Art e Vale con i quali la Corte di Giustizia ha affermato la libertà dell’operatore economico di stabilirsi nell’Unione Europea per svolgere la propria attività economica, potendo, peraltro, anche scegliere di costituire, più semplicemente, una società controllata in un altro Stato membro senza dare corso ad attività imprenditoriali[2].

In sostanza, l’orientamento della giurisprudenza Centros implica che anche le società prive di una effettiva e sostanziale attività economica siano oggetto delle previsioni di tutela enucleate sia con riferimento alla libertà di stabilimento che alla libertà di fornire servizi nel territorio dell’Unione e che, quindi, a livello di libertà fondamentali previste dai Trattati, lo svolgimento di una genuina attività economica non costituisce un requisito imprescindibile per il godimento della libertà di stabilimento e di offerta di servizi sul mercato.

A tale riguardo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha assunto un approccio tendenzialmente cauto nell’affermare l’incompatibilità di misure nazionali per contrasto con il principio di non discriminazione fiscale. Mentre, infatti, nel più generale ambito concernente il tema della tutela delle libertà fondamentali previste dai Trattati è stato “evidenziato il superamento dell’equivalenza fra principio di non discriminazione e libertà fondamentali”[3] nell’ambito del più ristretto campo afferente le misure fiscali potenzialmente lesive del divieto di non discriminazione la Corte di Giustizia ha dato applicazione al principio di non discriminazione in maniera più restrittiva.

La giurisprudenza dell’Unione ha, infatti, statuito in materia fiscale, in particolare con la sentenza Cadbury Schwepps[4], come – al fine di evitare eventuali condotte abusive da parte dei contribuenti tese ad ottenere vantaggi fiscali in mancanza di un’effettiva attività di natura imprenditoriale – sia necessaria una verifica circa l’effettivo svolgimento di un’attività economica nello Stato ospitante.

Una verifica che, pertanto, può portare ad una compressione alla libertà di stabilimento “con lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”[5].

Orbene, la Corte di Cassazione si pone nel solco di questo secondo orientamento giurisprudenziale, richiamando ampi stralci della giurisprudenza in materia di tributi armonizzati.

Infatti, la Suprema Corte – dopo un lungo excursus dedicato all’approfondimento della portata e dei profili di contiguità tra la nozione di ‘stabile organizzazione’ e di ‘centro di attività stabile’ nell’ordinamento domestico – giunge a valorizzare il concetto dell’abuso del diritto, quale principio atto a contrastare le strutture giuridiche prive di sostanza economica, che costituiscono “costruzioni di puro artificio volte ad abusare indebitamente a fini fiscali del diritto di libertà di stabilimento. […] Costruzione artificiosa e indebito vantaggio fiscale vanno di pari passo: il vantaggio fiscale non è indebito sol perché l’imprenditore sfrutta le opportunità offerte dal mercato o da una più vantaggiosa legislazione fiscale (ma anche contributiva, previdenziale), lo è se è ottenuto tramite situazioni non aderenti alla realtà, di puro artificio che rendono conseguentemente indebito il vantaggio fiscale”[6].

Si tratta di un passaggio importante perché permette di meglio specificare quali elementi debbano essere presi in particolare attenzione nell’ambito del percorso logico volto all’individuazione del criterio della sede effettiva di direzione degli enti collettivi esteri assoggettati ad una relazione di controllo ai sensi dell’art. 2359, comma 1, c.c.

A tale riguardo, la Cassazione, pur menzionando il criterio fondato sull’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali e le direttive amministrative della società controllante – criterio, peraltro, espressamente valorizzato dal legislatore all’art. 73, comma 5 bis T.U.I.R.- mette in luce come tale tipologia di accertamento non possa ritenersi sufficiente nell’ambito dell’accertamento circa l’esterovestizione della società estera.

Piuttosto, la Corte sottolinea come vada indagato se la società controllata estera costituisce costruzione di puro artificio, priva di sostanza economica, tale da non svolgere attività economiche di tipo reale, sulla base di un accertamento posto in essere seguendo i principi desumibili dalle disposizioni interne – quali la disciplina in tema di stabile organizzazione – ma soprattutto alla luce dei principi giurisprudenziali formulati nel tempo dalla Corte di Giustizia in materia di abuso delle libertà fondamentali nell’ambito fiscale[7].

In definitiva, discende da tale pronuncia come anche per la Cassazione italiana l’accertamento in punto di esterovestizione vada condotto, primariamente, con l’obiettivo di verificare che dietro la forma giuridica utilizzata dall’operatore economico sia individuabile una sostanza economica. Verifica, peraltro, che – in analogia agli orientamenti della Corte di Giustizia – andrà condotta indagando circa la sussistenza di un effettivo insediamento reale nel Paese estero ove è sita la controllata, teso a controllare l’esistenza e consistenza dello svolgimento di attività economiche in tale Stato, che devono poggiare su elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, relativi, in particolare, al livello di presenza fisica dell’ente asseritamente esterovestito in termini di locali, di personale e di attrezzature.

Si tratta, in conclusione, di un percorso argomentativo indubbiamente molto articolato e – per certi versi – innovativo rispetto alla tradizionale giurisprudenza della Cassazione in materia di esterovestizione. Percorso, peraltro, non del tutto privo di alcuni profili di criticità, legati al rischio di una certa commistione tra concetti giuridici non assimilabili – l’abuso della forma giuridica piuttosto che la fittizietà della struttura societaria – rispetto ai quali non sembra vi sia, nelle motivazioni della Corte, un utilizzo del lessico pienamente sorvegliato, attento a delineare una precisa demarcazione tra principi differenti al fine di evitare potenziali rischi di fraintendimento.

Ed, infatti, se è indubbio che vi è una equivalenza degli effetti tributari, sul piano sostanziale, tra abuso della forma giuridica e fittizietà della struttura giuridica – atteso che entrambe le contestazioni mirano ad attrarre ad imposizione redditi asseritamente sottratti a tassazione in Italia – radicalmente differenti sono, invece, le conseguenze sanzionatorie a secondo della diversa qualificazione giuridica della condotta del contribuente.

Ciò è ulteriormente confermato tenendo in considerazione che il novellato art. 10 bis, L. 212/2000 prevede l’irrilevanza penale dell’abuso del diritto e, quindi, a fortiori anche dell’abuso della forma giuridica, ma non include nel suo perimetro applicativo eventuali contestazioni in punto di fittizietà della struttura societaria, espressione di un accordo simulatorio.

Su tratta, certo, di una distinzione sottile per i non addetti ai lavori, sul piano concettuale, e oggetto di un accertamento molto delicato sul piano argomentativo e probatorio, ma che deve essere attentamente ponderata specie alla luce del nuovo testo dell’art. 3, D.Lgs. 74/2000 che ha specificato come – sul piano oggettivo – il delitto di presentazione di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici possa essere integrato anche a fronte di “operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente”, e non a fronte di operazioni prive di sostanza economica. Le prime, dal punto di vista del penalista, rientrano nell’area della fraudolenza (penalmente rilevante), le seconde del completamente distinto, concettualmente e normativamente, settore dell’abusività.

Di conseguenza, va evidenziato il rischio strisciante che contestazioni fondate sulla mancanza di sostanza economica – oggi escluse dall’area del penalmente rilevante ai sensi del novellato art. 10 bis, L. 212/2000 –  sfocino nuovamente in addebiti di matrice penale qualora l’ipotesi dell’abuso della forma giuridica venga qualificata come espressione della più radicale – e giuridicamente incompatibile – ipotesi di negozio simulato, attraverso il percorso, invero tortuoso di una errata qualificazione della nozione di residenza fiscale.

 


[1] Tale impostazione dottrinale – che, come noto, si contrappone alla ‘incorporation theory’, maggiormente ancorata a logiche tipiche dei Paesi con tradizione di common law – individua nel luogo in cui sia sito il centro effettivo di direzione dell’impresa il criterio di collegamento atto ad individuare la legge applicabile alla società.

[2] Sentenze della Corte di Giustizia, procedimenti C-212/97; C-208/00; C-167/01 e C-378/10.

[3] G. BIZIOLI, Il divieto di discriminazione fiscale, in C. SACCHETTO, Principi di diritto tributario europeo ed internazionale, Torino, 2011, p. 153.

[4] Sentenza della Corte di Giustizia, procedimento C-196/04.

[5] Ibidem, § 55.

[6] Corte di Cassazione, sentenza n. 43809/2015, §§ 16.75 segg.

[7] Su tali profili si veda, in particolare, il § 16.86 della sentenza n. 43809/2015 della Cassazione.

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