Il caso. Il decreto della Corte di Appello di Venezia, 28 settembre 2020, qui commentato, si mostra particolarmente interessante, in quanto fissa alcuni rilevanti principi giuridici in materia di concordato preventivo: in specie, trattasi di concordato in continuità, presentato da società immobiliare, che inter alia poggia sull’accollo dell’intero onere concordatario da parte di terzi.
La domanda di omologazione era stata rigettata dal Tribunale di Padova, in quanto asseritamente: (i) in presenza di una somma offerta in maniera fissa, la percentuale offerta ai creditori chirografari poteva risultare variabile, dovendosi per contro prevedere una percentuale certa, (ii) il concordato risultava liquidatorio, in quanto la provvista per il pagamento dei debiti era fornita da un terzo post omologa, mentre i flussi della continuità sarebbero stati trattenuti dalla società risanata (per l’effetto non sarebbe stata ossequiata la percentuale minima del 20% a beneficio dei chirografari).
I principi giuridici. La Corte d’Appello di Venezia, con una pronuncia pregevole dal punto di vista tanto logico quanto sistematico, ribalta l’esito di primo grado, concentrandosi (i) primariamente, su quali siano gli elementi costitutivi del concordato preventivo, (ii) successivamente, sul criterio di soddisfacimento dei chirografari.
Come segue.
(i) Con riferimento al primo punto, secondo la Corte d’Appello il contesto normativo attuale non consente di ipotizzare un novero di possibili forme di concordato (liquidatorio, in continuità, misto con prevalenza dell’una o dell’altra componente), ma individua più linearmente un istituto di carattere generale, regolato dagli artt. 160 e ss. L.F., e un’ipotesi speciale rispetto ad esso, prevista dall’art. 186-bis. In tale prospettiva, elemento caratterizzante il concordato in continuità aziendale è la continuazione dell’attività d’impresa, condizionata all’attestazione da parte del professionista indipendente di cui all’art. 161, co. 3, L.F., che la prosecuzione dell’attività dell’impresa prevista dal piano di concordato sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Questo, e non altro, è l’elemento distintivo dell’ipotesi recata dall’art. 186-bis. In presenza di tale condizione, neppure la previsione di eventuali dismissioni di cespiti aziendali può incidere sulla natura del concordato e sulla individuazione della corrispondente disciplina: il concordato preventivo in cui alla liquidazione atomistica di una parte dei beni si accompagni una componente, di qualsiasi consistenza, di prosecuzione dell’attività aziendale, rimane regolato nella sua interezza dalla disciplina speciale prevista dall’art. 186-bis (salvi i casi di abuso). Infatti, il co. 1 di tale disposizione espressamente contempla anche una simile ipotesi fra quelle ricomprese nel suo ambito, mentre non prevede alcun giudizio di prevalenza fra le porzioni di beni a cui sia assegnata una diversa destinazione (in tal senso il concordato in oggetto era da ritenersi in continuità non essendo neppure rilevante, in senso contrario, la possibile dismissione di cespiti post esecuzione del concordato, trattandosi di una vicenda estranea all’interesse dei creditori e quindi all’esame dell’autorità giudiziaria).
(ii) Fatta questa premessa sistematica, la Corte osserva che la messa a disposizione da parte di un terzo della provvista necessaria per soddisfare l’offerta ai creditori non incide sulla natura del concordato, in quanto l’art. 186-bis non dispone, quale elemento caratterizzante la continuità, che i proventi ritratti dall’esercizio dell’attività d’impresa debbano essere destinati ai creditori, né che questi debbano necessariamente partecipare al rischio d’impresa.
Con riferimento all’asserita percentuale fissa minima da garantire ai creditori, la Corte d’Appello evidenzia che la causa concreta della procedura di concordato preventivo non ha un contenuto fisso e predeterminabile, risultando dipendente dal tipo di proposta formulata: per l’effetto, non è possibile individuare una percentuale fissa minima, al di sotto della quale la proposta concordataria possa ritenersi, di per sé, inadatta a perseguire la causa concreta a cui la procedura è volta.
Il Tribunale, dunque, deve considerare se emerga, in maniera eclatante, la manifesta inettitudine del piano a raggiungere gli obiettivi prefissati, ivi compresa la soddisfazione in una qualche misura dei crediti rappresentati e, una volta esclusa questa evenienza, va lasciata al giudizio dei creditori, quali diretti interessati all’esito della procedura, la valutazione – sotto i diversi aspetti della plausibilità dell’esito e della convenienza della proposta – delle modalità di soddisfacimento dei crediti, ivi comprese la consistenza delle percentuali di pagamento previste.
Il che equivale a dire che non rientra nell’ambito della verifica della fattibilità riservata al giudice un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta, e quindi sulla convenienza della stessa, anche sotto il profilo della misura minimale del soddisfacimento previsto.
Infine, quest’ultimo si riverbera anche sulla risolvibilità del concordato, in quanto secondo il Giudice veneziano non è sostenibile la tesi di un automatismo legato al mancato rispetto della percentuale offerta al momento della presentazione della proposta: in altre parole, non basta un qualsiasi scostamento della percentuale offerta per potersi ritenere il concordato risolvibile, bensì l’inadempimento deve avere non scarsa importanza. Per tale verifica, la percentuale di soddisfacimento che sia stata eventualmente indicata dal debitore non è strettamente vincolante: ne consegue che il concordato preventivo può essere risolto, ex art. 186 L.F. solo qualora emerga che esso sia venuto meno alla sua funzione necessaria di soddisfare in una qualche misura i creditori chirografari e, integralmente, i creditori privilegiati ove non falcidiati.