Ai sensi dell’art. 50, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), i trattati[1] cessano di essere applicabili nei confronti dello Stato interessato a recedere dall’Unione europea (UE) a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso[2].
Dalla mezzanotte CET del 31 gennaio 2020, a seguito della contestuale entrata in vigore dell’Accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (Regno Unito) dall’UE e dalla Comunità europea dell’energia atomica (l’“Accordo”)[3] [4], il Regno Unito non è più considerato uno Stato membro dell’Unione europea (UE).
Come riportato all’interno dei “considerando” dell’Accordo “è nell’interesse sia dell’Unione sia del Regno Unito stabilire un periodo di transizione o di esecuzione durante il quale –nonostante tutte le conseguenze del recesso del Regno Unito dall’Unione per quanto riguarda la partecipazione del Regno Unito alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, […] –dovrebbe applicarsi al Regno Unito e nel Regno Unito, di norma con gli stessi effetti giuridici prodotti negli Stati membri, il diritto dell’Unione, compresi gli accordi internazionali, al fine di evitare turbative durante il periodo di negoziazione dell’accordo o degli accordi sulle future relazioni”.
La parte quarta dell’Accordo prevede una specifica disciplina transitoria. In particolare, l’art. 126 dell’Accordo dispone che “È previsto un periodo di transizione o esecuzione che decorre dalla data di entrata in vigore del presente accordo e termina il 31 dicembre 2020”[5] (il “Periodo transitorio”). Inoltre, ai sensi del successivo art. 127:
- “Salvo che il presente accordo non disponga diversamente, il diritto dell’Unione si applica al Regno Unito e nel Regno Unito durante il periodo di transizione” (paragrafo 1);
- “Durante il periodo di transizione il diritto dell’Unione applicabile a norma del paragrafo 1 produce nei confronti del Regno Unito e nel Regno Unito gli stessi effetti giuridici che produce all’interno dell’Unione e degli Stati membri, ed è interpretato e applicato secondo gli stessi metodi e principi generali applicabili all’interno dell’Unione” (paragrafo 3); e
- “Salvo che il presente accordo non disponga diversamente, durante il periodo di transizione i riferimenti agli Stati membri nel diritto dell’Unione applicabile a norma del paragrafo 1, anche attuato e applicato dagli Stati membri, si intendono fatti anche al Regno Unito” (paragrafo 6).
L’art. 2, lett. a), dell’Accordo prevede che per “diritto dell’Unione” si intendono, tra l’altro:
- il TUE, il TFUE, il trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (punto i);
- “i principi generali del diritto dell’Unione” (punto ii);
- “gli atti adottati dalle istituzioni, organi e organismi dell’Unione”[6] (punto iii).
Con riferimento all’applicazione del paragrafo 6 dell’art. 127 dell’Accordo al comparto delle imposte dirette italiane, è possibile distinguere le seguenti fattispecie:
a) disposizioni di diritto italiano che adeguano l’ordinamento interno ai principi generali del diritto dell’UE;
b) disposizioni di diritto italiano che recepiscono disposizioni di Direttive europee; e
c) disposizioni di diritto italiano che rinviano alla nozione di Stato membro dell’UE, ma che non implementano né principi generali del diritto dell’UE né recepiscono disposizioni di Direttive europee.
Mentre l’applicazione delle disposizioni sub a) e b) nei confronti del Regno Unito deriverebbe dalla lettera dell’art. 127 dell’Accordo, dubbia appare l’applicazione delle disposizioni sub c), tra le quali rientrerebbe l’esenzione da ritenuta su finanziamenti a medio e lungo termine erogati alle imprese di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973.
Al riguardo è stato osservato[7] che la mancata applicazione delle disposizioni sub c) nei confronti di persone residenti o stabilite nel Regno Unito nel corso del Periodo transitorio determinerebbe una violazione delle libertà fondamentali (in particolare della libera prestazione di servizi e della libera circolazione di capitali) in quanto comporterebbe una discriminazione orizzontale tra soggetti residenti in Stati membri (o che si considerano tali, in base alla predetta disposizione transitoria) diversi[8].
Considerato che la disposizione contenuta nell’art. 127 dell’Accordo fa salva durante il Periodo transitorio l’applicazione al Regno Unito di tutto il “diritto dell’Unione”, ivi inclusi “i principi generali” come le libertà fondamentali sancite dal TFUE, le persone residenti o stabilite nel Regno Unito, nel corso del Periodo transitorio, devono essere tutelate come se il Regno Unito facesse ancora parte dell’UE. Da ciò consegue che nel caso in esame il Regno Unito deve essere considerato ai fini dell’applicazione dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973 come se fosse ancora ricompreso nella UE, in quanto una diversa interpretazione comporterebbe una violazione di un principio fondamentale sancito dal TFUE.
Da ultimo, si rileva che l’Agenzia delle entrate, con la risposta all’istanza di interpello n. 156 del 28 maggio 2020, ha indirettamente avallato tale soluzione. Il caso sottoposto all’esame dell’Agenzia delle Entrate riguardava l’applicabilità ad un soggetto istituito nel Regno Unito della disposizione contenuta nell’art. 27, comma 3, secondo periodo del D.P.R. n. 600/1973, la quale prevede l’applicazione di un’aliquota ridotta sui dividendi distribuiti a favore di fondi pensione istituiti negli Stati membri della UE/SEE. Al pari dell’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/1973 tale disposizione non deriva dall’implementazione di una normativa europea[9].
In risposta al quesito, è rilevante notare come l’Agenzia delle Entrate abbia negato l’applicazione di tale disposizione ritenendo che nel caso di specie il soggetto istante non fosse qualificabile alla stregua di un fondo pensione, ammettendo invece – quanto meno implicitamente – che il Regno Unito resta ricompreso per il Periodo transitorio fra i Paesi membri della UE.
[1] Ai sensi dell’art. 1, ultima alinea, del TUE per “trattati” si intendono il TUE e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
[2] Ai sensi del citato paragrafo 3, in mancanza di un accordo, i trattati perdono efficacia decorsi due anni dalla notifica dell’intenzione di recedere, “salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine”.
[3] Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’EU L29 del 31 gennaio 2020.
[4] Per connessione di argomento si rileva che, a seguito dell’entrata in vigore dell’Accordo, non trovano applicazione le norme contenute nel Decreto-legge 25 marzo 2019, n. 22. Infatti, il citato DL avrebbe trovato applicazione in caso di recesso senza accordo tra l’UE e il Regno Unito. Vale la pena notare che l’art. 13 del citato DL prevedeva che “Fino al termine del periodo transitorio si continuano ad applicare le disposizioni fiscali nazionali previste in funzione dell’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea, ivi incluse quelle connesse con l’esistenza di una direttiva UE. Le disposizioni derivanti dall’attuazione di direttive e regolamenti dell’Unione europea in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) e accise continuano ad applicarsi in quanto compatibili”. In questo senso, si veda Risposta n. 156 del 2020.
[5] Prorogabile fino a ulteriori due anni ai sensi dell’art. 132, paragrafo 1, dell’Accordo.
[6] Tra i quali si annoverano la Direttiva Madre Figlia (Direttiva 2011/96/UE del Consiglio, del 30 novembre 2011), la Direttiva Interessi e Canoni (Direttiva 2003/49/CE del Consiglio, del 3 giugno 2003), la Direttiva Fusioni (Direttiva 2009/133/CE del Consiglio, del 19 ottobre 2009), la ATAD (Direttiva (UE) 2016/1164 del Consiglio, del 12 luglio 2016) e la DAC 6 (Direttiva (UE) 2018/822 del Consiglio, del 25 maggio 2018).
[7] Cfr. S. Tellarini, Le implicazioni tributarie della Brexit, webinar AIFI del 26 febbraio 2020 e P. Arginelli – G. Colombaioni, L’effetto dell’accordo Brexit sull’interpretazione e l’applicazione delle disposizioni di diritto italiano relative alle imposte non armonizzate, Rivista Telematica di Diritto Tributario del 30 marzo 2020.
[8] Con la sentenza del 24 febbraio 2015, causa C-512/13, Sopora, avente ad oggetto l’interpretazione dell’art. 45 del TFUE relativo alla libera circolazione dei lavoratori, la CGUE ha affermato che una discriminazione tra lavoratori residenti in diversi Stati membri dovrebbe essere considerata contraria alla libertà di circolazione dei lavoratori. Infatti, “stando al tenore dell’articolo 45, paragrafo 2, TFUE, che mira all’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità «tra i lavoratori degli Stati membri», letto alla luce dell’articolo 26 TFUE, occorre ritenere che detta libertà vieti anche la discriminazione tra lavoratori non residenti, se questa porta a favorire senza giustificazione i cittadini di taluni Stati membri rispetto ad altri”.
[9] Tale ritenuta ad aliquota ridotta venne introdotta dalla Legge n. 88 del 2009 al fine di rendere compatibile l’ordinamento italiano con le libertà fondamentali e ottenere l’archiviazione di una procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea in quanto, in base alla disciplina ai tempi vigente (ex articolo 17 del D.Lgs. n. 252/2005 nella versione pro tempore applicabile) i fondi pensione di diritto italiano erano soggetti ad un’imposta sostitutiva dell’11% sul risultato netto maturato in ciascun periodo d’imposta. Successivamente, la Legge di stabilità 2015, ha elevato l’aliquota applicabile ai fondi pensione di diritto italiano al 20%, senza tuttavia aggiornare l’aliquota applicabile ai dividendi pagati ai fondi pensione istituiti in Stati membri dell’UE. Allo stato, pertanto, è dubbio che la disposizione in questione possa essere ritenuta attuativa delle libertà fondamentali sembrando piuttosto più corretto ricondurre tale disposizione, al pari dell’art. 26, comma 5-bis del D.P.R. n. 600/1973 tra le disposizioni che fanno semplicemente rinvio alla nozione di Stato membro ma che non implementano nel diritto interno né una Direttiva né un principio dell’Unione.