In materia di misure di prevenzione patrimoniale è configurabile la buona fede del terzo creditore che vanta sul bene un diritto di garanzia reale sorto antecedentemente al provvedimento di confisca, soltanto nel caso in cui, avendo avuto riguardo alla particolare attività svolta dal medesimo, risulti dimostrata: a) l’estraneità a qualsiasi collusione o compartecipazione all’attività criminosa; b) l’inconsapevolezza credibile in ordine alle attività svolte dal prevenuto; c) un errore scusabile sulla situazione apparente del prevenuto.
L’istituto di credito non può essere addossato dall’onere di penetranti indagini quanto alle pendenze penali a carico del soggetto potenzialmente beneficiario del finanziamento non potendo, peraltro, il semplice dato di una condanna penale per un qualunque reato ovvero della assai risalente applicazione di una misura di prevenzione essere, di per sé, ostativo alla concessione del credito. Il semplice dato di una qualsiasi condanna penale non può infatti impedire all’istituto di credito di concedere il finanziamento, a discapito della funzione economica sociale delle banche di finanziare attività che operano nei settori più disparati.
Nella pronuncia in esame la Corte di Cassazione è intervenuta in merito all’ammissione al passivo dei crediti vantati da terzi nell’ambito di un procedimento di confisca. Sul tema, l’art. 52 d. lgs. 159/2011 prevede infatti che il diritto di credito vantato da un terzo sia ammesso allo stato passivo ove il creditore dia prova che lo stesso risulti da atti aventi data certa anteriore rispetto al sequestro e, tra le altre cose, che lo stesso non sia strumentale all’attività illecita o a quella che ne costituisca il frutto o il reimpiego «sempre che il creditore dimostri la buona fede e l’inconsapevole affidamento». Ne consegue che il creditore che voglia far valere il proprio credito, affinché possa essere ammesso allo stato passivo della procedura, è onerato della prova, oltre che del proprio diritto, anche della propria buona fede, interpretata quale mancanza di ogni collegamento diretto o indiretto del terzo creditore con la consumazione del fatto-reato.
Il giudice deve quindi valutare la «buona fede» del terzo creditore tenendo conto di alcuni precisi criteri dettati dallo stesso art. 52, comma 3, d. lgs. 159/2011, ossia «delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, anche con riferimento al ramo di attività, alla sussistenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale nonché, in caso di enti, alle dimensioni degli stessi». Come già rilevato dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 7 maggio 2013, n. 10532), tali criteri non costituiscono tuttavia parametri esclusivi e vincolanti: la valutazione rimessa al giudice sulla «buona fede» del creditore può infatti basarsi anche su principi non espressamente indicati dal legislatore o, in ogni caso, quelli indicati dall’art. 52, co. 3, d. lgs. 159/2011possono essere motivatamente disattesi.
Il semplice dato di una qualsiasi condanna penale non può infatti impedire all’istituto di credito di concedere il finanziamento, a discapito della funzione economica sociale delle banche di finanziare attività che operano nei settori più disparati