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Approfondimenti

Cash pooling, profili di revocabilità fallimentare e finanziamenti infragruppo

15 Dicembre 2015

Francesca Lorenzi, Studio legale Dolmetta e Salomone – D&S

Di cosa si parla in questo articolo

1. I contratti di cash pooling[1]

I contratti di cash pooling si configurano quali contratti atipici che hanno ad oggetto la prestazione del servizio di gestione dei flussi di liquidità di società appartenenti a un medesimo gruppo. Si tratta di accordi diffusi nella prassi (non esclusiva) dei grandi gruppi societari, che vi ricorrono per accentrare la gestione della tesoreria al fine di ottimizzarne l’efficienza, razionalizzando l’organizzazione dell’attività di impresa rispetto ai movimenti di cassa e all’impiego della liquidità complessiva del gruppo. 

Il tratto comune alle due modalità operative attraverso le quali viene prestato il servizio consiste, infatti, nel destinare le eccedenze di liquidità di cui dispongono alcune società del gruppo in un dato momento, ad altre che si trovino in una situazione di carenza, così da ridurre il livello globale dell’indebitamento esterno e consentire il risparmio di provvigioni e interessi passivi da corrispondersi alle banche.

La tesoreria accentrata, inoltre, agevola un maggior coordinamento e controllo delle risorse finanziarie e dei fabbisogni di cassa delle singole società del gruppo; genera risparmi di struttura attraverso l’accentramento degli uffici e del relativo personale; consente al gruppo di beneficiare di migliori condizioni di accesso al credito, essendo delegata a interloquire col sistema bancario la sola finanziaria di gruppo, o società c.d. pooler, dotata di maggior forza finanziaria e, quindi, contrattuale. 

Il servizio di tesoreria accentrata si attua, essenzialmente, attraverso due schemi contrattuali di riferimento: (i) l’effective o zero balance cash pooling, più noto e diffuso,e il (ii) notional (o virtual) cash pooling, denominato anche netting, sviluppatosi prevalentemente nel mondo anglosassone. Entrambi questi schemi suppongono la stipulazione di negozi di conto corrente con la banca di riferimento da parte di ciascuna delle società partecipanti.   

2. Modalità operative

2.1. Zero balance cash pooling

Il cash pooling consiste nell’automatico (ed effettivo) trasferimento, su un unico conto corrente accentrato intestato alla finanziaria, di tutti i saldi (creditori o debitori) afferenti ai conti correnti bancari intestati alle singole società, con contemporaneo azzeramento degli stessi alla fine di ogni giornata lavorativa.

Nell’ambito di questa modalità operativa, le singole società pongono in essere tutti i pagamenti e gli incassi necessari per la loro attività di impresa, mediante i propri conti correnti bancari. La finanziaria – che può essere la capogruppo, ovvero una holding intermedia o una società partecipata – si occupa, invece, di gestire le eccedenze di cassa, nonché di coprire le esigenze di liquidità facenti capo alle diverse società aderenti.

A tal fine, le parti stipulano una convenzione di tesoreria in forza della quale si impegnano a concludere appositi contratti per la copertura dei fabbisogni finanziari[2], stabilendone condizioni, modalità e termini[3].

Questi rapporti negoziali, che si instaurano tra finanziaria e società intestataria del conto periferico nel momento stesso in cui i saldi sono trasferiti sul conto accentrato, trovano riscontro in appositi conti correnti che la pooler provvede ad aprire nella propria contabilità, per ogni società del gruppo, al fine di dare rappresentazione contabile delle singole operazioni e degli interessi eventualmente applicati, e di consentire il computo periodico di un saldo mediante compensazione delle opposte partite.

Le partite di dare e avere iscritte su questi conti correnti si compensano ope legis, progressivamente e contestualmente alla loro iscrizione: tale effetto giuridico sottrarrebbe il conto corrente in parola (c.d. di gestione) alla disciplina propria del conto corrente ordinario di cui agli articoli 1823 ss. cod. civ., in forza della quale l’effetto compensativo si realizza alla chiusura del conto, quando il saldo diviene esigibile.

In questo sistema, a fianco della convenzione di tesoreria e dei conti di gestione, sta la stipulazione, tra la banca di riferimento e ciascuna società, di un conto corrente di corrispondenza autonomo (impiegato per l'esecuzione e la recezione dei pagamenti inerenti all'attività di impresa) ma apposito: nel senso che alle condizioni contrattuali usuali di conto corrente si aggiunge (nel caso, sovrapponendosi) la pattuizione che il rapporto è regolato in cash pooling e che la banca trasferisca, a mezzo di giroconti, i saldi – sia debitori, che creditori – dei conti delle società controllate a quello accentrato della società pooler.

2.1.1 Qualificazione giuridica

Le modalità operative del cash pooling, in particolare del modello c.d. zero balance in esame, hanno indotto la dottrina (e, sporadicamente, la giurisprudenza) a interrogarsi sulla natura giuridica del rapporto che si crea tra società periferica e finanziaria a seguito degli atti di trasferimento dei saldi. Sono stati così individuati elementi comuni ai contratti tipici di conto corrente ordinario, di conto corrente bancario e di mutuo. In particolare:

(i) la riconducibilità al conto corrente ordinario è contemplata da un parte della dottrina in ragione dell’effetto compensativo dei reciproci rapporti che si realizza alla scadenza periodica convenuta ex art. 1831 cod. civ.. La chiusura con frequenza giornaliera, propria del cash pooling, non determinerebbe uno scostamento di natura strutturale. L’altro tratto comune è sicuramente dato dalla semplificazione nella gestione dei rapporti, effetto tipico del servizio di cash pooling, sebbene, sotto il profilo causale, detta semplificazione valga a connotare il solo contratto di conto corrente ordinario[4];

(ii) la non riconducibilità al deposito bancario ex art. 1834 ss. cod. civ. è unanimemente condivisa, in ragione dell’espressa esclusione dei servizi di tesoreria prestati dalle p. finanziarie di gruppo dalla previsione di cui all’art. 11, comma 3, T.U.B., secondo la quale non costituisce raccolta di risparmio tra il pubblico l’attività del soggetto che acquisisce fondi «effettuata presso specifiche categorie individuate in ragione di rapporti societari o di lavoro». Tale esclusione comporta la non applicabilità delle regole della tecnica bancaria che garantiscono la disponibilità del credito del depositante in ogni tempo[5]. Detto altrimenti: «non configurando una raccolta di risparmio, qualora lo zero balance cash pooling sia effettuato fra società appartenenti al medesimo gruppo, la società accentratrice non è sottoposta agli obblighi di riserva obbligatoria e di comunicazione alle Autorità monetarie previsti dal D.Lgs. n. 385 del 1993»[6];

(iii) la riconducibilità al contratto di credito è più dibattuta. Parte della dottrina esclude che il rapporto in questione si atteggi come tale, non potendovi «essere un contratto di credito in senso stretto se non vi è uno spazio di tempo tra dazione e restituzione, se cioè non vi è differimento»[7]. I flussi in questione, inoltre, sono rivolti a sopperire ad esigenze di liquidità immediate e transeunti sorte a livello di singole entità aderenti, e non ad attribuire in godimento somme per un tempo determinato o indeterminato, com’è proprio della causa credendi. Nello specifico, il trasferimento dei saldi creditori alla finanziaria conferisce a quest’ultima il diritto di utilizzare il denaro ma non anche quello ad un termine per la restituzione. Parimenti, il trasferimento della somma – pari al saldo debitorio presente sul conto periferico intestato alla società – dal conto intestato alla finanziaria a quello periferico, non realizza una funziona creditizia, poiché alla società non viene dato alcun termine per la restituzione di detta somma: il credito della finanziaria che, infatti, origina a seguito del predetto bancogiro, è immediatamente liquido ed esigibile nel momento in cui viene iscritto nel conto di gestione ove, come visto, opera una compensazione ope legis con i debiti che la finanziaria presenta nei confronti della stessa società beneficiaria.

Diversa è l’opinione di chi osserva come «il ripianamento del saldo passivo del conto periferico costituisce a tutti gli effetti un negozio di prestito comportante la messa a disposizione, pure se temporanea, di risorse finanziarie tra le società del gruppo … ciò condurrà sempre, in ultima analisi – ad es. in caso di fallimento della società controllata – all’emergere, nel caso di saldo attivo, di un diritto di credito a favore della capogruppo»[8].

Sul punto, la giurisprudenza ha aderito, talora, alla tesi della funzione di finanziamento del cash pooling[9]; talaltra, alla tesi di segno contrario secondo la quale: «Questi trasferimenti non possono essere qualificati come contratto di mutuo perché non determinano alcuna consegna di denaro da una parte all’altra, con il successivo obbligo di restituzione e non rappresentano un prestito in denaro»[10].[11]

2.2.Notional cash pooling (c.d. netting)

Questa seconda tipologia di cash pooling si distingue dalla precedente perché non prevede alcun “trasferimento” effettivo di fondi dalla società con saldi attivi a quella con saldi passivi, e si caratterizza per fare ricorso a una compensazione algebrica “virtuale” delle posizioni di ciascuna società nei confronti della banca. Si tratta, cioè, di un’operazione contabile, denominata netting, che consente di calcolare la posizione netta di ogni società aderente al gruppo. Detta operazione si inserisce in una (più) generale procedura, c.d. di clearing, per mezzo della quale si realizza la definizione contemporanea di un complesso di operazioni, col vantaggio di ridurre notevolmente il numero e gli importi delle posizioni da liquidare e, conseguentemente, i costi di transazione (ed, eventualmente, di tassazione).

Il ricorso a questa procedura presuppone che le società del gruppo abbiano conferito, alla finanziaria, un mandato a estinguere le obbligazioni pecuniarie in essere tra le stesse mediante moneta di gruppo, ovverosia mediante scritturazioni contabili, evitando, così, la circolazione materiale di pezzi monetari. Il trasferimento di disponibilità dall’una all’altra società del gruppo avviene, pertanto, in modo immateriale, mediante movimentazione dei conti che entrambe intrattengono con la finanziaria[12].

L’estinzione dell’obbligazione pecuniaria può avvenire o mediante scritturazione in tempo reale – la finanziaria procede ad annotare, sui conti intestati alle società del gruppo, l’importo di ogni singola transazione al ricevimento dell’ordine di pagamento e/o di incasso -, ovvero ad una scadenza prefissata (c.d. cutoff time).

In questo secondo caso, le società del gruppo interessate e la finanziaria stipulano un contratto c.d. di netting, in forza del quale la pooler provvede, alla scadenza prefissata, al calcolo delle posizioni nette facenti capo a ogni società nei confronti di tutte le altre (c.d. netting multilaterale), e al pagamento delle differenze individuate mediante movimentazione – a debito o a credito – dei conti correnti che le società del gruppo intrattengono presso la stessa (c.d. final settlement).

Trattandosi di un procedimento che non trova riconoscimento normativo, la dottrina si è interrogata in merito alla possibilità di applicare l’istituto della compensazione, quale modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento, anche al netting multilaterale, nonostante  non sia ravvisabile il requisito della reciprocità dei crediti.

La soluzione sembra risiedere nell’istituto della compensazione volontaria di cui all’art. 1252 cod. civ., sicché le parti, mediante un regolamento compensativo, stabiliscono preventivamente quali crediti portare in compensazione e si accordano per la contemporanea estinzione degli stessi nonostante la mancanza del requisito della reciprocità. In particolare, il regolamento compensativo costituirebbe il fondamento giuridico dell’effetto estintivo che deriverebbe dalla trasformazione, in un’unica obbligazione netta, delle obbligazioni (a favore o a carico) di ogni società nei confronti di tutte le altre[13].[14]

3. Profili di revocabilità fallimentare

Del tema della revocatoria delle rimesse effettuate sul conto corrente di gestione esistente tra pooler e società del gruppo (c.d. “revocabilità infragruppo”) si sono occupati alcuni autori ma non la giurisprudenza.

La dottrina ha, dunque, ritenuto compensate, ex art. 1241 ss. cod. civ., le reciproche posizioni annotate sul conto di gestione, sussistendo il presupposto dell’autonomia dei rapporti (o autonomia della fonte dei crediti) ai quali quelle stesse posizioni si riferiscono. Operando il meccanismo della compensazione legale tra partite contrapposte, si esclude la configurabilità di una revocatoria delle relative rimesse in caso di fallimento della società aderente al sistema[15].

Tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si sono, invece, occupate del pagamento di debito altrui, di cui si ravvisano, nei gruppi, frequenti applicazioni sotto forma di pagamento del debito della controllata da parte della capogruppo, o di estinzione del debito di una controllata da parte di una società sorella, o, infine,di pagamento del debito del socio da parte della controllata.

La prima ipotesi a venire in considerazione è quella della revocabilità del pagamento del terzo (capogruppo, società sorella o controllata) da parte del Fallimento del debitore avvantaggiato (controllata o controllante).

A questo proposito, un orientamento pressoché costante della Suprema Corte ha affermato la revocabilità ex art. 67, comma 2, l.f. di detto pagamento, a condizione che il terzo (solvens) abbia esercitato la propria rivalsa in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento del debitore ottenendo il rimborso della somma erogata. Nello specifico, dunque, è l’atto solutorio compiuto dalla fallita per la realizzazione del credito di rivalsa del solvens, a dover essere revocato, non il pagamento a favore della società creditrice: solo il primo, infatti, è atto di disposizione depauperativo lesivo della par condicio creditorum[16].

Là dove, invece, il solvens non si sia rivalso contro la società fallita, il pagamento a favore della società creditrice non potrà essere revocato in quanto atto neutro, inidoneo a incidere sulla par condicio creditorum, «non venendo in alcun modo modificato l’ammontare dei crediti ammessi alla ripartizione dell’eventuale attivo, una volta che al posto dell’originario creditore viene ad insinuarsi la finanziaria, per lo stesso ammontare e con i medesimi diritti»[17].

L'altra ipotesi da esaminare attiene alla revocabilità del pagamento del debito di una società del gruppo nei confronti del creditore accipiens, da parte del Fallimento della stessa società (controllante, partecipata o società sorella) che a quel pagamento abbia provveduto senza esserne obbligata.

Sul punto si è formato un contrasto giurisprudenziale in merito alla scelta del regime revocatorio al quale l'atto solutorio sarebbe da assoggettare: se quello, più favorevole al Fallimento, tracciato dalla norma dell'art. 64 l.f. (per gli atti a titolo gratuito), ovvero quello articolato dalla norma dell'art. 67, comma 2, l.f.

Così, alla tesi che assoggetta al regime dell'art. 67, comma 2, l.f. il pagamento del terzo nei confronti del Fallimento dello stesso – in ragione della natura tipicamente onerosa del pagamento per il creditore che lo riceve –, se ne è contrapposta una diversa secondo la quale la soggezione del pagamento all'uno o all'altro regime andrebbe verificata volta per volta, dovendosi accertare la gratuità o meno dell'atto con riguardo al rapporto tra terzo e debitore, sussistendo la prima quando l’esecuzione dell’atto non sia collegata ad una prestazione corrispettiva eseguita o promessa in favore del terzo dal debitore[18].

In questo panorama si colloca la sentenza delle Sezioni Unite n. 6538/2010, che sposta l’attenzione dai contenuti dell’obbligazione all’interesse economico che la complessiva operazione intende realizzare. Di conseguenza, anche in mancanza di un corrispettivo, o di un nesso sinallagmatico, l’onerosità è ravvisabile ogni qual volta il solvens possa comunque ottenere dalla sua prestazione un vantaggio – configurabile come ogni forma di utilità anche non consistente in una attribuzione patrimoniale – che provenga dal debitore, dal creditore o da un terzo, «così da recuperare anche indirettamente la prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento pone rimedio con l’inefficacia ex lege»[19].  

A questo proposito, nell’ottica di tutelare i creditori concorsuali rispetto all’atto di disposizione compiuto dal solvens fallito, la giurisprudenza ha posto a carico del creditore beneficiario l’onere di provare, anche mediante presunzioni, il vantaggio comunque ricavato dalla società fallita dall’operazione, che si presume gratuita in mancanza di un esplicito corrispettivo.

La disamina sin qui svolta, incentrata sulla ricostruzione (come pagamento del terzo) degli addebiti e degli accrediti di cash pooling ai fini revocatori, non può omettere alcune note conclusive sul tema della revocabilità delle rimesse affluite sul conto corrente bancario nell’ambito di un contratto di tesoreria accentrata. È proprio in tale contesto, infatti, che sui conti bancari delle società del gruppo che ricevono sostegno finanziario per la gestione operativa, a fronte della sistematica registrazione di un saldo debitore si produce, quotidianamente, una rimessa in accredito per giroconto del saldo contabile passivo al conto pool della controllante, con conseguente azzeramento dell’esposizione.

Tali rimesse potrebbero, dunque, presentare, tecnicamente, tutti i presupposti per l’assoggettamento (della banca) ad azioni revocatorie, qualora fosse accertata la sussistenza dei requisiti della consistenza e durevolezza della riduzione della esposizione debitoria e la conoscenza dello stato di insolvenza (in capo alla banca)[20].

Il “nuovo” art. 67, comma 3, lett. b) l.f., infatti, prevede, quale regola generale, quella della irrevocabilità delle rimesse bancarie «purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca».

La norma citata pone una serie di problemi interpretativi, il primo dei quali involge la possibilità di ritenere o meno ancora attuale un ventennale orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza del precedente regime che, in mancanza di una disciplina specifica, adottava quale criterio per la determinazione delle rimesse revocabili la distinzione tra conto passivo e conto scoperto, rimesse ripristinatorie e rimesse solutorie[21].

Ebbene, la giurisprudenza di merito risulta oggi divisa tra chi ritiene ancora rilevante detta distinzione[22], e chi invece la ritiene del tutto superata dall’attuale quadro normativo che, nel dedicare alla fattispecie un’apposita disposizione, appare del tutto slegato dai precedenti concetti di conto affidato e scoperto[23].

A sostegno di questo secondo orientamento si pone l’argomento che valorizza vuoi il riferimento alla complessiva posizione passiva del correntista – contenuto nel richiamo della norma in esame all’”esposizione debitoria”, comprensiva non solo del debito liquido ed esigibile, ma anche di quello non esigibile, come nel caso di passività corrispondente al credito accordato e utilizzato -, vuoi i fatti successivi alla rimessa, al fine di verificare se il conto sia stato utilizzato secondo l’operatività propria del servizio di cassa ovvero in funzione di rientro del cliente. «È infatti evidente sotto tale profilo che anche una rimessa affluita su mero conto passivo, pur ripristinando la provvista, può comportare un rientro definitivo della banca, quando il correntista non possa più utilizzare la disponibilità in questione per il congelamento del rapporto o per il recesso dal contratto o perché il rapporto si chiuda per il fallimento del correntista e per converso come una rimessa affluita su conto scoperto non comporti una rientro durevole o definitivo della banca, quando il correntista riutilizzi le somme affluite sul conto»[24].

Il secondo problema interpretativo attiene al significato da attribuire ai requisiti della consistenza e durevolezza che devono connotare la modalità di riduzione dell’esposizione debitoria ai fini della revocabilità delle rimesse.

Sul requisito della consistenza, l’orientamento ad oggi maggioritario ha adottato un’interpretazione quantitativa che guarda all’entità della rimessa, finendo per rimettere all’arbitrio del giudice la determinazione di tale parametro e precludendo, così, la possibilità di conoscere a priori i presupposti delle rimesse revocabili.[25]

Prende le distanze dall’accezione quantitativa attribuita all'aggettivo consistente la sentenza del Tribunale di Udine da ultimo citata che, nel valorizzare il profilo qualitativo del requisito, non vi ravvisa un concetto diverso dal termine durevole ma, piuttosto, un rafforzativo dello stesso, in questo modo contenendo i profili di arbitrarietà insiti nella determinazione del parametro e eliminando ogni disparità di trattamento – costituzionalmente rilevante sotto il profilo della irragionevolezza – tra rimesse (quantitativamente) consistenti e rimesse che, pur avendo ridotto durevolmente l’esposizione debitoria, si pongano al di sotto della soglia quantitativa ritenuta apprezzabile[26].

 Quanto al requisito della durevolezza è prevalsa, anche in questo caso, una interpretazione di carattere relativo e non assoluto, che rinvia ad un accertamento da compiersi di volta in volta, in ragione dell’andamento del rapporto[27], con inevitabile ricorso alla discrezionalità del giudice chiamato a individuare, in concreto, quando il «ritmo di utilizzo del conto» possa essere ritenuto “normale”, o quanto tempo debba trascorrere tra la rimessa e il successivo addebito affinché la riduzione dell’esposizione debitoria possa considerarsi durevole.  

«La riduzione dell’esposizione “consistente e durevole è pertanto solo quella che si verifica quando le rimesse che hanno diminuito l’esposizione non siano state quasi immediatamente neutralizzate da nuovi utilizzi da parte del correntista per le esigenze dell’impresa, secondo quello che è il ritmo normale di utilizzo del conto»[28].

Emerge, dunque, dalle note sin qui svolte, come l'effetto riduttivo “durevole” dell'esposizione del conto non appaia riferibile alle rimesse accreditate in esecuzione di un contratto di cash pooling, normalmente caratterizzate dall'alternanza tra accredito e corrispondente addebito e dall'essere destinate, in virtù di un accordo tra banca e società correntista, a costituire la provvista di operazioni di prelievo o di pagamenti in favore di terzi.

In questi casi, infatti, la rimessa, pur riducendo momentaneamente l'esposizione della banca, è immediatamente seguita da un corrispondente addebitamento che ripristina il livello originario dell'esposizione per effetto del pagamento eseguito dalla banca in favore di un terzo.

La giurisprudenza riserva a queste rimesse il regime dell'irrevocabilità, trattandosi di operazioni c.d. bilanciate, caratterizzate dalla contestualità e dalla parità di importo degli accrediti e dei relativi addebiti. Andrebbe pertanto esente da revocatoria anche la rimessa incidente su un saldo-debitore “scoperto”, poiché l'operazione sarebbe considerata come intervenuta direttamente tra società correntista e terzo beneficiario finale del pagamento, nei confronti del quale solamente – non già della banca, mero intermediario della correntista – potrebbe (semmai) azionarsi la revocatoria[29].

Concludendo, dunque, può affermarsi l'irrevocabilità di rimesse accreditate in esecuzione di un contratto di tesoreria accentrata nella misura in cui le stesse siano assimilabili ad operazioni bilanciate – come si ritiene che siano, laddove sussistano le caratteristiche e le modalità di funzionamento “tipiche” del c.d. zero balance cash pooling –, in ragione vuoi di un orientamento giurisprudenziale consolidato, vuoi dell'attuale disciplina della revocatoria, dalla quale è esente la rimessa bilanciata per l'assenza di uno (o dell'unico) dei due requisiti (la durevolezza) richiesti dall'art. 67, comma 3, lett. b) l.f.

4. Patologie di gruppo e gestione accentrata della liquidità

Il cash pooling, quale modalità di svolgimento dei rapporti finanziari infragruppo, è strumento di esercizio e, al contempo, indice dell’esistenza dell’attività di direzione e coordinamento disciplinata agli articoli 2497–2497-septies cod. civ.[30]. 

È dunque inevitabile che ogni “deviazione” dal generale principio di corretto finanziamento dell’impresa di gruppo si traduca in un funzionamento patologico del gruppo, suscettibile di manifestarsi anche nella (o mediante) la gestione accentrata della tesoreria.

In questa prospettiva, una sintesi schematica delle problematiche riscontrate nell’esperienza italiana e straniera dei gruppi societari porta ad evidenziare, tra gli altri, i seguenti rischi[31]:

(i) la confusione di patrimoni nell’ambito del gruppo, con depauperamento di una o più società a favore di altre: fenomeno, questo, che si verifica qualora la finanziaria ometta una corretta annotazione dei trasferimenti di liquidità, con conseguente configurabilità a suo carico di profili di responsabilità (contrattuale, nei confronti delle singole società; aquiliana, nei confronti dei creditori sociali);

(ii) i trasferimenti di risorse finanziarie a condizioni inique: situazione, questa, che può ricorrere, in un finanziamento down-stream, quando sia applicato un tasso di interesse passivo molto oneroso; in un finanziamento cross-stream quando, sussistendo asimmetrie informative tra la società erogatrice e la finanziata, sia applicato un tasso attivo inferiore a quello di mercato; in un finanziamento up-stream, quando l’erogazione non sia assistita da idonea garanzia o da un adeguato tasso di interesse;

(iii) il compimento di operazioni di tesoreria estranee all’oggetto sociale in quanto poste in essere per il perseguimento esclusivo dell’interesse della finanziaria o di singole componenti del gruppo, a carico o a danno di altre, oltre che dei loro creditori[32];

(iv) la totale subordinazione e dipendenza finanziaria delle società soggette a direzione unitaria, a fronte dell’esercizio abusivo o scorretto dell’attività di direzione e coordinamento da parte della holding e dei suoi amministratori[33].

Vi è, infine, il rischio che le società che alimentano il conto accentratore scontino l’insolvenza della pooler, o la crisi di altre società, vedendosi pregiudicato il rimborso della somma trasferita, oltre alla normale prosecuzione dell’attività d’impresa, con un effetto “a catena” che può coinvolgere l’intero gruppo. La protezione dal rischio di insolvenza delle società “finanziatrici” dipende, in concreto, dalla tempestività con cui la finanziaria riesca a far fronte alle proprie obbligazioni e a procurarsi fonti esterne di finanziamento.

4.1 Applicabilità dell’art. 2497-quinquies ai trasferimenti di liquidità infragruppo attuati in forza dell’accordo di cash pooling[34]

La dottrina più recente ha dedicato particolare attenzione a quei casi in cui i trasferimenti di liquidità infragruppo siano effettuati al fine di sopperire ad una situazione di sottocapitalizzazione della società finanziata, generando effetti elusivi delle norme imperative sul conferimento e realizzando un abuso a danno dei creditori sociali.

La disciplina introdotta dall’art. 2497-quinquies cod. civ., con i rimedi della postergazione e della revoca dei rimborsi dei finanziamenti “anomali”, intende così tutelare le ragioni dei creditori esterni al gruppo degradando, nell’ordine di soddisfazione, il credito del finanziatore anomalo (che sia, cioè, contemporaneamente anche socio o società del gruppo) per impedirgli di concorrere con gli altri creditori aggravando il pericolo della mancata soddisfazione dei loro diritti.

A questa tutela si aggiunge, quale rimedio alternativo o cumulativo, l’azione risarcitoria per responsabilità ex art. 2497 cod. civ.

La dottrina si è chiesta, dunque, se i trasferimenti di liquidità che hanno luogo nell’ambito di sistemi accentrati di tesoreria configurino tipologie di finanziamento rilevanti ai fini dell’art. 2497-quinquies cod. civ.

L’applicabilità della norma dipende, in buona sostanza:

(i) dalla possibilità o meno di qualificare il rapporto tra la finanziaria e le società aderenti in termini di rapporto di finanziamento;

(ii) dalla situazione finanziaria della società beneficiaria dei trasferimenti in accredito;

(iii) dalla direzione dei trasferimenti di liquidità.

Sul primo punto si rinvia alle considerazioni già svolte, non senza richiamare l’orientamento di quella parte della dottrina che ritiene estranea la causa credendi ai flussi prodotti dal sistema accentrato di tesoreria diretti, piuttosto, a colmare esigenze transitorie di liquidità a livello di singole entità[35].

Si ritiene, nondimeno, che il credito risultante dal conto accentratore assolva una funzione di finanziamento rilevante, ai fini della riqualificazione in posizione postergata, ogni qualvolta i saldi positivi dei conti correnti delle società eterodirette siano utilizzati dalla finanziaria non quale forma di restituzione di precedenti trasferimenti a favore della società erogatrice, bensì per sopperire a esigenze strutturali di liquidità di altre società aderenti. In questi casi, i rimborsi effettuati alla finanziaria nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento della società finanziata non dovrebbero andare esenti da revoca ex art. 2467, comma 1, cod. civ.

Quanto alla determinazione della misura del credito oggetto di postergazione o delle somme da restituire alla massa in caso di rimborso ai sensi della norma appena citata, occorre tener conto dei massimali operativi convenzionalmente prestabiliti (v. nota 3) e, dunque, del diritto della società aderente di poter beneficiare, entro il limite della “linea di credito” aperta, delle risorse dalla stessa “restituite” al conto accentrato. L’importo del credito postergato o le somme da destinare alla massa potranno, dunque, essere determinate facendo applicazione delle regole sancite dall’art. 70, comma 3, l.f. per i “rapporti continuativi o reiterati” e, quindi, «per ammontare pari alla differenza tra la consistenza massima raggiunta dal saldo creditorio nel periodo di crisi della controllata affidata e l’importo residuo del saldo esistente alla data di apertura del concorso»[36].

La dottrina giunge, invece, a conclusioni diverse – sebbene non unanimi – con riferimento ai trasferimenti di liquidità up-stream, non espressamente disciplinati dall’art. 2497-quinquies cod. civ. Ci si chiede, quindi, se i flussi diretti dai conti correnti delle società soggette a direzione unitaria al conto accentrato per far fronte a esigenze di liquidità strutturali della capogruppo in crisi, e per effetto del potere di influenza da questa esercitato, siano comunque rilevanti ai fini della postergazione del credito e della revoca del rimborso eventualmente effettuato.La dottrina maggioritaria ritiene che, nella misura in cui questi flussi non costituiscano restituzione di precedenti sconfinamenti dei massimali convenuti, essi sono assimilabili a un finanziamento  che si sottrae alla previsione dell’art. 2497-quinquies cod. civ..

La ragione di tale esclusione è ravvisabile nell’intendimento del legislatore di tutelare i creditori esterni e i soci di minoranza delle società soggette a direzione unitaria, rendendo i creditori della capogruppo “strutturalmente subordinati” ai primi. Questa esigenza di tutela sarebbe frustrata là ove il finanziamentoup-stream della società sottoposta a direzione unitaria fosse postergato: in questo modo, infatti, si sottrarrebbero risorse al patrimonio della stessa a tutto favore dei creditori della capogruppo (e del socio di controllo), che beneficerebbero dell’eventuale superamento del rischio di insolvenza della loro debitrice, trasferendolo sui creditori esterni della società erogatrice. Si otterrebbe, così, un risultato opposto a quello perseguito[37].

In questi casi, pertanto, gli amministratori della società diretta e coordinata hanno l’onere di valutare il finanziamento alla luce della situazione finanziaria della beneficiaria, astenendosi dal darvi esecuzione qualora – in mancanza di una “compensazione” ravvisabile in un vantaggio specifico – possa pregiudicare la consistenza patrimoniale, se non l’esistenza stessa della società erogatrice. Qualora emergesse un rischio ragionevolmente prevedibile di non recuperabilità del credito, gli amministratori della società erogatrice andrebbero incontro all’azione di responsabilitàex art. 2497 cod. civ. esperibile dai creditori sociali e dai soci di minoranza della società diretta e coordinata. Legittimati passivi sarebbero, altresì, la capogruppo – per aver impartito una direttiva pregiudizievole o per non aver posto la società partecipata in condizione di valutare adeguatamente la situazione finanziaria -; i suoi organi di amministrazione e controllo, nonché l’eventuale socio di controllo della capogruppo, ove si accerti che abbia concorso a far assumere la scelta pregiudizievole[38].

A completamento di queste brevi note sul regime di postergazione dei finanziamenti infragruppo non può essere omesso il richiamo agli articoli 182-quater e 182-quinquies l.f., l’introduzione dei quali ha, di fatto, sostituito la regola della postergazione con quella della  prededuzione dei finanziamenti erogati al fine di favorire il superamento della crisi di impresa e la conservazione della continuità aziendale.

Così, abbandonando il disfavore per la violazione del principio di corretto finanziamento, il legislatore ha derogato alla disciplina codicistica prevedendo la prededucibilità, nei limiti dell’80% del loro ammontare, dei finanziamenti effettuati: (i) in esecuzione di un concordato preventivo ovvero di un accordo di ristrutturazionedei debiti omologato ai sensi dell'articolo 182-bis l.f. (art. 182-quater, comma 1, l.f.), ovvero  (ii)in funzione, della presentazione di una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti, a condizione che i finanziamenti siano previsti dal piano di cui all’art. 160 l.f., o dall'accordo di ristrutturazione, e purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento di accoglimento della domanda di ammissione al concordato ovvero l'accordo sia omologato (art. 182-quater, comma 2, l.f.).

La stessa norma, a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. n. 83/2012, ha esteso il regime della prededuzione – già previsto per le banche e gli intermediari finanziari – a tutti i creditori della società beneficiaria, siano essi i soci da cui provenga il finanziamento, o soggetti che esercitino attività di direzione e coordinamento in forza di un rapporto contrattuale, o per aver   acquisito la qualità di socio in virtù di un apporto di capitale di rischio, o, ancora, per effetto della conversione dei crediti precedentemente vantati verso la società finanziata occasionata dall’accordo di ristrutturazione o da un concordato preventivo.

Infine, l’art. 182-quinquies l.f. applica la prededuzione anche all’intero importo dei finanziamenti contratti dalla società in occasione della presentazione di una domanda di concordato o di omologazione di un accordo di ristrutturazione, sul presupposto dell’autorizzazione del tribunale, previa verifica del complessivo fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, da parte di un professionista che attesti la funzionalità di quei finanziamenti alla migliore soddisfazione dei creditori.

La deroga ai principi di corretto finanziamento, subordinata alla instaurazione di procedure di soluzione negoziata della crisi e a una corretta pianificazione del superamento della stessa, contribuisce, pertanto, a tracciare «una linea di demarcazione tra finanziamento lecito ed “abusivo” in situazioni di crisi, contribuendo altresì a delineare i doveri gestori, anche nel quadro dell’attività di direzione e coordinamento»[39].

Concludendo, si osserva che la riforma del diritto societario ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento di società suscettibile di favorire il ricorso alla tutela risarcitoria, che non a caso guarda all’operazione di finanziamento sotto il profilo dei vantaggi (compensativi) eventualmente arrecati alla società nell’ambito delle operazioni infragruppo.

Si assiste, così, a un ridimensionamento del ricorso all’azione revocatoria, conseguente anche alla riforma della legge fallimentare, con la riduzione del periodo sospetto e l’intensificazione delle misure di risanamento dell’impresa in crisi, che sottraggono al predetto rimedio le operazioni di finanziamento intragruppo effettuate nel contesto di piani di risanamento, di ristrutturazione e concordato preventivo, e conducono a privilegiare un diverso trattamento degli stessi finanziamenti.

5. Rimedi contrattuali e di governo societario

I rischi connessi all’esecuzione di accordi di cash pooling implicano la predisposizione di strumenti di tutela ultronei rispetto a quelli approntati dalle disposizioni relative ai finanziamenti infragruppo e, ricorrendone i presupposti, al rimedio risarcitorio di cui all’art. 2497 cod. civ.

Degli strumenti di natura contrattuale potranno dotarsi le parti nella definizione dei termini e delle condizioni della convenzione di tesoreria. Questi riguarderanno: i massimali operativi e le relative modalità di rimborso; la misura e le modalità di calcolo degli interessi: quelli passivi, che dovranno essere inferiori ai tassi applicati dal sistema bancario, e quelli attivi che, in caso di finanziamento up-stream, sarà opportuno, al contrario, rendere più remunerativi; la possibilità di recedere dal rapporto di tesoreria accentrata nel rispetto di un termine minimo di preavviso; l’esigibilità del saldo del conto corrente intersocietario senza limite di importo, garantita, a fine di ogni giornata, tramite affidamenti messi a disposizione della finanziaria dagli istituti di credito; il riconoscimento della facoltà per la società soggetta a direzione unitaria di richiedere finanziamenti anche a soggetti esterni al gruppo, eventualmente prevedendo un limite al suo indebitamento complessivo; la previsione del trasferimento non integrale della liquidità a favore del conto accentrato, in modo che le società aderenti possano sempre disporre di una parte per adempiere alle obbligazioni in scadenza; l’indicazione dello scopo comune di gruppo e dei vantaggi, per le singole società, derivanti dall’adesione al sistema accentrato di tesoreria.

Quanto ai rimedi di governance, sarà fondamentale che la capogruppo predisponga un adeguato sistema di circolazione delle informazioni infragruppo, predisponendo «un sistema di permanente verifica e controllo della situazione finanziaria e della meritevolezza di credito delle società aderenti» – ad esempio, prevedendo la costituzione di un comitato interno apposito per la gestione della tesoreria in seno all’organo amministrativo della finanziaria o della capogruppo, con compiti di monitoraggio della posizione finanziaria complessiva del gruppo[40].

È inoltre opportuno che ai fini dell’assunzione della delibera di adesione al sistema accentrato di tesoreria, gli amministratori siano autorizzati dall’assemblea.  

Infine, in forza dell’art. 2497-bis, comma 5 cod. civ., gli amministratori delle società aderenti al servizio sono chiamati a dar conto, nella relazione sulla gestione, dei rapporti intercorsi con la finanziaria, dell’effetto e dei risultati prodotti sull’esercizio dell’attività di impresa.



[1] Per un inquadramento sistematico della materia si veda, in primis, A. DACCÒ,L’accentramento della tesoreria nei gruppi di società, Giuffrè, 2002. Tra i contributi più recenti si segnalano: L. ARDIZZONE, I contratti di «cash pooling» infragruppo, in I contratti per l’impresa, Banca, mercati, società, a cura di G. GITTI, M. MAUGERI, M. NOTARI, II, Mulino, 2012, 369 ss.; M. MIOLA, Tesoreria accentrata nei gruppi di società e capitale sociale, in La struttura finanziaria e i bilanci delle società di capitali. Studi in onore di Giovanni E. Colombo, Giappichelli, 2011, 36 ss.

[2] La dottrina rileva la configurabilità di un collegamento funzionale volontario – ovverosia fondato sul programma economico unitario, concepito e perseguito dalle parti – tra la convenzione e i rapporti contrattuali successivi, sì che «le vicende di un negozio si ripercuotono sul rapporto nascente dall’altro, condizionandone la validità e l’esecuzione». In questi termini, A. DACCÒ, op. cit., p. 102-107.

[3] La convenzione di tesoreria prevederà, così, la durata del servizio – potendo questa essere anche indeterminata -, i massimali operativi, ovverosia l’ammontare massimo complessivo del credito, nonché «rispetto agli interessi passivi, la modalità di conteggio e la misura, che dovrà essere inferiore a quanto richiesto dal sistema bancario, salvo altrimenti porsi problemi in ordine alla responsabilità da direzione e coordinamento». Così, L. ARDIZZONE, op. cit., 371.

[4] L. ARDIZZONE, op. cit., 374. Sul punto, anche L. RUGGERI, Brevi note circa il cash pooling, Nuova Giur. Civ., 2011, 10202, in nota a sentenza Trib. Pistoia, 17 febbraio 2010, n. 87.

[5] Di contro, la finanziaria, può incorrere in situazioni di incapacità di adempiere là ove non sia in grado di sopperire tempestivamente alle esigenze di liquidità delle singole società del gruppo. Sul punto, A. DACCÓ, op. cit., p. 124 -126; L. ARDIZZONE, op. cit.

[6] Così, Comm. trib. reg. Firenze, 18 febbraio 2013, n. 14.

[7] A. DACCÓ,op. cit., p. 130 ss.

[8] Il passo, citato da L. ARDIZZONE, op. cit., è di M. MIOLA, op. cit., il quale a sua volta richiama, in nota 19, HANGEBRAUCK, Kapitalaufbringung, Kapitalerhaltung und Existenzschutz bei konzernweiten Cash-Pooling-Systemen, Frankfurt, 2008, «per un ampio riepilogo delle varie opinioni».

Si confronti anche quanto stabilisce, sul piano della disciplina del bilancio, il Principio Contabile OIC n. 14, §19, dell’agosto 2014, secondo cui la liquidità versata da ciascuna società partecipante al cash pooling nel conto corrente comune «rappresenta un credito verso la società che amministra il cash pooling stesso, mentre i prelevamenti dal conto corrente costituiscono un debito verso il medesimo soggetto».  

[9] Così, l’ordinanza della Suprema Corte, 23 giugno 2009, n. 14730, secondo la quale «la tenuta della cassa comune tra due o più imprese, cash pooling per gli anglisti, quali che siano le modalità contabili di tenuta, adempie all’evidente funzione di escludere o limitare l’accesso al credito bancario, finanziando l’impresa partecipante alla cassa comune con gli attivi di cassa dell’altra o delle altre imprese». La Corte giunge a questa conclusione in ragione della sostanziale coincidenza, sul piano finanziario, tra tale contratto di conto corrente e il «contratto di conto corrente bancario, che notoriamente è uno dei contratti attraverso i quali le banche finanziano le imprese». Alla stessa tesi aderisce, da ultimo, Cass., 10 aprile 2015, n. 7215.

[10] Comm. trib. reg. Firenze,cit.

[11] Le modalità operative proprie del sistema c.d. zero balance, unitamente alla qualificabilità o meno dei trasferimenti dei saldi ad esso sottesi quali prestiti di denaro, assumono rilevanza anche da un punto di vista fiscale.

Così, nel caso affrontato dalla Risoluzione n. 58/E del 27 febbraio 2002, l’Agenzia delle Entrate ha aderito alla tesi prospettata dalla società interpellante la quale, dopo aver qualificato il contratto di tesoreria accentrata come contratto di conto corrente non bancario di cui all’art. 1823 cod. civ., ritiene di non dovere assoggettare a ritenuta alla fonte, in quanto «esenti» a norma dell’art. 26-bis del d.p.r. n. 600/1973, gli interessi passivi corrisposti alla società capogruppo per le rimesse di disponibilità pecuniarie effettuate a proprio favore. L’Agenzia motiva precisando che «Le rimesse attive della consociata non comportano un onere restitutorio e la reciprocità delle rimesse nonché linesigibilità e lindisponibilità del saldo fino alla chiusura del conto concorrono a qualificare laccordo negoziale, evidenziando caratteristiche non riconducibili nel rapporto fra società capogruppo e società residente ad un prestito di denaro. Solo nel rispetto delle condizioni sopra indicate nelle concrete modalità di funzionamento e di operatività del sistema di cash pooling, gli interessi passivi corrisposti dalla società residente alla società capogruppo possono ricondursi nellambito applicativo dellart.26-bisdel DPR n.600 del 1973».

Per un commento sulla Risoluzione appena citata si veda L. NISCO, Note sui profili impositivi connessi al contratto di tesoreria internazionale accentrata, Dir. e Prat. Trib., 2003, 20587.

Sempre l’Agenzia delle Entrate, con successiva Circolare del 17 marzo 2005, n. 11/E, in materia di contrasto all’utilizzo fiscale della sottocapitalizzazione, nel richiamare la Risoluzione n. 58/E del 2002, ha rilevato che: «Ai fini dell'applicazione della thin capitalization rule, il contratto di zero balance cash pooling non rileva […] Ne consegue che ricorrendo tali elementi, lo zero balance cash pooling non potrà essere assimilato a un un’operazione di finanziamento infragruppo per cui allo stesso non si applicherà la norma di contrasto all’utilizzo fiscale della sottocapitalizzazione».

Da ultimo, la stessa Agenzia, con Circolare del 3 giugno 2015, n. 21/E, recante “Primi chiarimenti al decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116 – Maggiorazione dell’agevolazione ACE per le società quotate, trasformazione delle eccedenze IRES in credito d’imposta IRAP ed ulteriori chiarimenti sulla disciplina antielusiva speciale”, chiarisce che: «con riferimento alle somme movimentate infragruppo in base a contratti di cash pooling nella forma del c.d. zero balance system, si ritiene che non possa configurarsi unoperazione di finanziamento, ai sensi dellarticolo 10 del Decreto ACE. Ciò in quanto, le caratteristiche del contratto – che prevede lazzeramento giornaliero dei saldi attivi e passivi delle società del gruppo e il loro trasferimento automatico sul conto accentrato della capogruppo, senza obbligo di restituzione delle somme così trasferite e con maturazione degli interessi attivi o passivi esclusivamente su tale conto – non consentono leffettiva possibilità di disporre delle somme suddette al fine di compiere operazioni potenzialmente elusive».

[12] Nel senso di affermare l’equiparazione della moneta scritturale al mezzo normale di pagamento si sono espresse le Sezioni Unite, con sentenza del 18 dicembre 2007, n. 26617, che, nell’affrontare la questione dell’estinzione delle obbligazioni pecuniarie  mediante mezzi alternativi al pagamento per contante, rileva come: «Nella dottrina recente prevale la tesi che la regola, secondo la quale il denaro contante è lunico mezzo legale di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, va “scardinata” e va riconosciuta efficacia solutoria a mezzi alternativi di pagamento[…] In questo ambito si distingue fra moneta scritturale incentrata sulle scritturazioni bancarie, che riposa in definitiva sulla garanzia che offrono le banche, ed altri sistemi di pagamento, come la cambiale, precisandosi che leffetto satisfattorio si realizza con la creazione della disponibilità monetaria a favore del creditore. Lidea di fondo è la smaterializzazione del denaro con trasformazione del diritto reale sui pezzi monetari in diritto di credito ad una determinata somma di denaro». Queste considerazioni non sono prive di risvolti pratici, prospettandosi, in caso di fallimento della società ordinante, successivo al pagamento mediante accreditamento sul conto della beneficiaria, il solo rimedio della revocatoria ex art. 67, comma 2, l.f.

[13] A. DACCÒ,nel contributo più volte citato, mette in evidenza come nella procedura di netting multilaterale sarebbero individuabili due distinte fasi: la prima, «caratterizzata da una pluralità di compensazioni bilaterali, all’esito delle quali ogni società del gruppo risulta creditrice o debitrice nei confronti di ciascuna altra per una certa somma, rappresentante il saldo netto, appunto, di tutte le partite reciproche intercorrenti tra quella coppia di soggetti […] Una seconda fase ove i saldi bilaterali facenti capo a ogni coppia di soggetti vengono trasformati dalla finanziaria – nel ruolo di mandataria – in un unico saldo multilaterale per ciascuna società, rappresentante la posizione attiva o passiva di questa nei confronti di tutto il sistema», op. cit., p. 181 ss.

[14] I risvolti fiscali del notional cash pooling sono stati oggetto di disamina da parte dell’Agenzia delle Entrate che, con una prima Risoluzione del 8 ottobre 2003, n. 194/E, rispondeva al quesito sottopostole da una società appartenente a un gruppo multinazionale, firmatario di un contratto di notional cash pooling con un istituto di credito, diretto incaricato del servizio. Il contratto prevedeva, nello specifico, che ciascuna società partecipante all’accordo aprisse, presso il predetto istituto, un conto corrente sul quale sarebbero transitate le operazioni finanziarie attive e passive e maturati i relativi interessi. Gli interessi calcolati per ciascuna società sarebbero poi stati ricalcolati il terzo giorno lavorativo di ciascun mese, facendo riferimento al saldo globale compensato di tutte le società nei confronti della banca. In questo modo i singoli saldi sarebbero stati azzerati virtualmente e considerati come unico saldo del conto intercorrente tra la banca e il gruppo. La società chiedeva, quindi, di conoscere se gli interessi passivi eventualmente corrisposti dalla società alla banca potessero fruire del regime di non imponibilità di cui all’art. 26-bis del DPR 29 settembre 1973 n. 600. Riporta l’Agenzia che nello schema di contratto allegato all’istanza di interpello, il rapporto in questione veniva espressamente qualificato come “contratto di compensazione di interessi”. Dallo stesso risultava, inoltre, che «i conti tra le società del gruppo e la banca “possono evidenziare saldi a credito o a debito, a condizione che il saldo complessivo calcolato in dollari USA evidenzi in ogni momento una posizione pari a zero o a credito e che ciascun saldo a debito concesso sui conti possa essere giornalmente revocato”». Osservava, dunque, l’Agenzia, che «Il rapporto contrattuale “notional cash pooling” costituisce un sistema di compensazione degli interessi tra le società del gruppo. Tale compensazione consente alla società intestataria di conto corrente con la banca che aderisce al contratto di “notional cash pooling” di ottenere che il proprio conto risulti a debito, usufruendo nella sostanza di una forma di finanziamento, ancorché indiretta. A sostegno della ricostruzione prospettata nella fattispecie oggetto di interpello si segnala, peraltro, che lo schema di contratto esaminato contiene una espressa clausola la quale nel prevedere che “il cliente principale, presta senza condizioni e senza possibilità di revoca, garanzia a favore della banca per il pagamento da parte degli altri clienti di ogni e tutte le obbligazioni presenti e future e dei debiti nei confronti della banca emergenti da o in connessione con i conti” definisce i conti di cui trattasi “debiti garantiti”. Lo stesso schema contrattuale dispone, inoltre, per il pagamento dei debiti garantiti, la garanzia aggiuntiva di un pegno di primo grado e stabilisce che le clausole contrattuali rimangono in vita “fino a quando tutti i debiti garantiti non saranno totalmente pagati”».

Alla luce di queste considerazioni, l’Agenzia riteneva che le prestazioni oggetto del contratto in parola fossero sostanzialmente riconducibili ad un’operazione di prestito di denaro e, conseguentemente, soggetti alla ritenuta d’imposta prevista dall’art. 26, comma 5, del D.P.R. n. 600 del 1973, gli interessi passivi eventualmente corrisposti dalla società istante all’istituto bancario.

Le conclusioni tracciate dall’Agenzia delle Entrate nella succitata Risoluzione sono state poi ribadite con le successive Circolari del 17 marzo 2005, n. 11/E e del 21 aprile 2009, n.19/E.

[15] Sul punto si rileva che «la compensazione legale, quale modo di estinzione di debiti reciproci diversi dall’adempimento, non può configurarsi quale atto revocabile né ai sensi dell’art. 65 l.f., né ai sensi dell’art. 67 l.f., per molteplici argomentazioni tratte dalla natura stessa della compensazione legale e dalla disciplina per essa dettata nella legge fallimentare. In particolare, è stato sottolineato che se la legge concede (art. 56 l.f.) un mezzo di autodifesa e di preferenza al creditore-debitore del fallito e dispone l’operatività della compensazione anche successivamente alla dichiarazione di fallimento, non può dubitarsi neppure della operatività della compensazione legale prima del fallimento e della efficacia, di norma, della estinzione dei reciproci debiti-crediti verificatisi per mezzo di essa». Così, A. DACCÒ, op. cit., p.139. Diversamente, nel senso della revocabilità degli atti inerenti al conto corrente di gestione esistente tra le società del gruppo, si sono espressi MARINONI e KING, “Cash pooling” e revocabilità dei pagamenti infra-gruppo, in Dir. prat. società, 2003, p. 40.

[16] In questi termini, Cass., 2 luglio 1998, n. 6474, inGiust. civ., 1998, p. 2768; Cass., 21 ottobre 1982, n. 5488, in Fallimento, 1983, p. 584 s.; Cass., 27 ottobre 1977, n. 4630, in Foro it., 1977, I, c. 393. Parte della dottrina concorda con la soluzione e l’iter argomentativo svolto dal Supremo Collegio (PORTALE, Delegazione allo “scoperto” e revocatoria fallimentare, in Giust. civ., 1984, II, p. 456; TEDESCHI, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2001, p. 380), giungendo a chiarire come il termine “rimborso”, adottato dalla Suprema Corte, vada inteso in senso ampio: per identità di ratio, la regola giurisprudenziale deve trovare applicazione anche nel caso in cui la “rivalsa” venga attuata a mezzo di compensazione del credito (eventualmente) acquistato dal terzo verso il debitore in seguito al pagamento e un controcredito di quest’ultimo (RESCIO, Fallimento del finanziato delegante e revoca del pagamento del terzo, in Banca, borsa, tit. cred., 1985, II, p. 242; CATALOZZI, Azione revocatoria e adempimento del terzo, in Giust. civ., 1992, I, p. 2543).  

[17] A. DACCÒ,op. cit., p. 185 ss.

[18] Così, Cass., 29 maggio 2003, n. 8590, in Fallimento, 2004, p. 271; Cass., 12 maggio 1992, n. 5616, in Fallimento, 1992, p. 922.

[19] Cass., Sez. Un., 18 marzo 2010, n. 6538, le quali concludono precisando che: «pur in presenza del pagamento del debito di società collegate (ovvero del pagamento del debito del socio da parte della società partecipata, come nella fattispecie, o viceversa) può essere esclusa la gratuità del negozio, quando la società disponente abbia comunque realizzato un suo vantaggio economico: in quanto, ancorché manchi il corrispettivo immediato in termini di diretta sinallagmaticità, tuttavia può verificarsi, da parte dell’impresa che svolga la sua attività economica a monte, o a valle, di quella del disponente, l’acquisizione di un’utilità economica in rapporto di causalità mediata e indiretta con la prestazione eseguita; che tuttavia si traduca in un vantaggio patrimoniale concreto. Altrimenti il terzo, adempiendo a un debito non proprio, si procura comunque una diminuzione patrimoniale, costituente un nocumento, che restando perciò stesso estraneo all’esercizio dell’impresa, diviene come tale, immeritevole di tutela nell’ambito della disciplina dello statuto di questa; ed a maggior ragione al lume della disposizione revocatoria dell’art. 64 l. fall.». La pronuncia è pubblicata in Riv. dir. comm., 2012, II, p. 111, con nota di CARLIZZI, La revocatoria dell’adempimento del terzo nei gruppi societari: come l’altruità si scolora

Su quanto in esame si veda anche M. MIOLA, Finanziamenti intragruppo e tesoreria accentrata di gruppo, in ……..

[20] Nel silenzio della giurisprudenza sul tema specifico della revocatoria di rimesse bancarie connesse al cash pooling, si veda il contributo di S. BONFATTI, Novità in tema di contenzioso bancario e finanziario. La revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario, su studigiuridici.unibo.it.

[21] Com’è noto, la disciplina dell’azione revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente è stata introdotta nel nostro ordinamento con d.l. n. 35/2005, convertito con modificazioni dall’art. 1, l. 14 maggio 2005, n. 80, mediante la previsione degli artt. 67, comma 3, lett. b) e 70, comma 3, l.f. Nel regime previgente, la revoca delle rimesse bancarie veniva ricondotta alla disciplina della revoca dei pagamenti di crediti liquidi ed esigibili di cui all’art. 67, comma 2, l.f. (a sua volta riformato dall’intervento legislativo successivo che ha dimezzato il periodo sospetto). 

[22] In questo senso, da ultimo, Trib. Bergamo, 28 aprile 2014, (est. dott. Vitiello), su www.dirittobancario.it; Trib. Udine, 16 aprile 2011, su www.unijuris.it; Trib. Milano, 28 marzo 2008, inFall., 2008, 1213. L’orientamento giurisprudenziale perpetrato dalle pronunce appena richiamate, individua come revocabili le sole rimesse affluite su conto corrente scoperto – vale a dire su conto privo di affidamento e con saldo negativo o, se con affidamento, oltre il limite dello stesso – e non anche quelle su conto passivo. Solo le prime, infatti, andrebbero a ripianare esposizioni oltre il limite del fido concesso dalla banca al cliente, ovvero l’assenza di disponibilità da parte della banca, configurando, in capo a quest’ultima, un diritto liquido ed esigibile a pretendere le somme corrispondenti, in assenza di fido, all’intero saldo negativo del conto ovvero, in caso contrario, all’importo dello sconfinamento.

[23] Trib. Udine, 24 ottobre 2012 – 29 gennaio 2013 su www.unijuris.it; Trib. Ferrara, 14 maggio 2012; Trib. Bologna, 4 agosto 2011, su www.unijuris.it; Trib. Udine, 24 febbraio 2011, in Fall., 2011, 688; Trib. Milano, 25 maggio 2009, in Dir. banc., 2009, I, 447.

[24] In questi termini: Trib. Udine, 24 ottobre 2012 – 29 gennaio 2013, cit. Per una nota a commento della pronuncia citata, D. TOMMASINI, Sulle incertezze applicative della «nuova» azione revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente bancario, su www.dirittobancario.it. 

[25] «Per stabilire quale sia la soglia oltre la quale la restituzione alla banca possa dirsi consistente, deve […] riferirsi esclusivamente a parametri interni al rapporto (di conto corrente) in essere tra banca e correntista poi dichiarato fallito. Ne consegue un inevitabile spettro di criteri utilizzabili dal giudice, la cui discrezionalità si rivela inevitabilmente ampia. Tali parametri possono essere integrati dall’entità massima dell’esposizione debitoria del conto corrente nel semestre antecedente al fallimento, dall’entità media delle rimesse (ed eventualmente anche dei prelevamenti) sul conto, nel periodo sospetto o nel periodo immediatamente antecedente al semestre, dall’ammontare dell’esposizione debitoria nel momento in cui la rimessa della cui consistenza si tratta è stata effettuata, infine dall’importo massimo di cui possa essere chiesta la restituzione, così come individuato applicando il principio di cui all’art. 70, u. co. l. fall.». Così, Trib. Bergamo, 28 aprile 2014, cit..

[26] Secondo la citata pronuncia «ciò che conta […] non è l’ammontare della singola operazione, ma il risultato solutorio finale». Pertanto, la revocabilità delle rimesse secondo un criterio quantitativo in termini percentuali è soluzione inadeguata ad afferrare l’effettivo meccanismo di rientro dall’esposizione debitoria da parte della banca, in danno degli altri creditori, consegnando «all’arbitrio del singolo giudice la decisione su quale sia la soglia quantitativa “rilevante” con un margine di discrezionalità […]contrario a quello che era lo spirito della riforma, volta a consentire di individuare con ragionevole certezza per tutti gli operatori coinvolti la fenomenologia delle rimesse revocabili onde poter gestire la crisi delle imprese in maniera soddisfacente per il sistema economico».

[27] «Nell’interpretazione del significato dell’aggettivo durevole, quindi, va cercato un punto di equilibrio […]che sfocia nel concetto di stabilità nel tempo dell’effetto solutorio e si risolve nel ritenere che soltanto il versamento (con effetto riduttivo consistente) che non venga compensato da successivi prelevamenti […] abbia l’effetto di determinare la durevole riduzione dell’esposizione debitoria». Ancora, Trib. Bergamo, 28 aprile 2014, cit.

[28] Trib. Udine, 24 ottobre 2012 – 29 gennaio 2013, cit., secondo la quale: «le ragioni dell’esenzione introdotta dal legislatore vanno individuate nell’esigenza di assicurare una ordinaria attività dell’impresa con l’espletamento del servizio di cassa che è una delle specifiche funzioni del rapporto di conto corrente ordinario, per cui le variazioni in un senso e nell’altro legate alle diverse e specifiche esigenze di cassa succedutesi in un breve arco temporale non potranno considerarsi né consistenti, né durevoli, mentre saranno considerate revocabili le variazioni che siano andate ad alterare le fisiologiche movimentazioni del conto riducendo in maniera significativa l’esposizione in un arco temporale sufficientemente lungo e tale da aver alterato il ritmo abituale dei flussi finanziari legati alle esigenze di cassa del correntista. In tal senso anche una progressiva riduzione dell’esposizione debitoria che sia persistita in un arco sufficientemente ampio di tempo, pur con versamenti di modesto importo, ma che abbia portato ad una consistente riduzione dell’esposizione complessiva va considerata “consistente e durevole” dovendo essere valutata nel suo complesso, quando sia andata ad alterare il normale utilizzo del conto».

[29] Sin qui, cfr. S. BONFATTI, op. cit.;D. TOMMASINI, op. cit.

In giurisprudenza, cfr. Cass., 29 luglio 2014, n. 17195: «In tema di revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie in conto corrente bancario, per potersi escludere la revocabilità di rimesse affluite su un conto scoperto, in quanto dipendenti da operazioni bilanciate, è necessario il venir meno della funzione solutoria delle stesse, in virtù di accordi intercorsi tra il "solvens" e l'"accipiens", che le abbiano destinate a costituire la provvista di coeve o prossime operazioni di prelievo o di pagamenti mirati in favore di terzi, così da potersi escludere che la banca abbia beneficiato dell'operazione sia prima, all'atto della rimessa, sia dopo, all'atto del suo impiego». In senso conforme, Cass., 7 marzo 2008, n. 6190. In termini analoghi anche Cass., 21 maggio 2004, n. 9698, in Fall., 2006, p. 767.

[30] In questi termini le sentenze del Tribunale di Pistoia, 17 febbraio 2010, n. 87, cit., nonché  le successive del 22 luglio 2010, n. 576, del 19 ottobre 2010, n. 758 e del 21 dicembre 2010, n. 949. Non si può, tuttavia, non rilevare come la giurisprudenza italiana sul cash pooling sia praticamente assente.

[31] A. DACCÒ,op. cit., 255 ss.; L. ARDIZZONE, op. cit.

[32] Ferma restando la necessità di valutare la singola operazione, nel giudizio di pertinenza all’oggetto sociale, alla stregua di un più generale interesse economico, sociale o finanziario che può coincidere con l’”interesse di gruppo”, il perseguimento del quale può giustificare anche il sacrificio della società soggetta a direzione unitaria, a condizione, tuttavia, che questo trovi compensazione «in un vantaggio specifico suscettibile di essere stimato in base a precisi criteri di mercato». Così, A. DACCÒ,op. cit., 341.        

A proposito di rilevanza dell’interesse sociale, vale la pena richiamare, in questa sede, quanto dettato dal Regolamento mercati adottato dalla Consob con delibera n. 16191 del 29 ottobre 2007, dove, all’art. 37, dedicato alle Condizioni che inibiscono la quotazione di società controllate sottoposte allattività di direzione e coordinamento di altra società, si prevede, alla lettera c), l’adesione a «un rapporto di tesoreria accentrata, non rispondente allinteresse sociale». La norma prosegue, quindi, precisando che «La rispondenza allinteresse sociale è attestata dallorgano di amministrazione con dichiarazione analiticamente motivata e verificata dallorgano di controllo».  

[33] Si veda, sul punto, l’ordinanza resa dal Tribunale di Milano nel “caso Montedison”, nella quale si afferma, con riferimento a dei crediti in essere nell’ambito del gruppo, che «l’obbligo di bene amministrare include l’obbligo di impartire alle società controllate direttive rispondenti a criteri di diligenza e prudenza, concordando, con gli organi di queste, scelte imprenditoriali che non si convertano in fatti prevedibilmente causanti lesioni all’integrità del patrimonio della società». Trib. Milano 31 luglio 1993, in Gius, 1994, 104.

[34] Si vedano, sull’argomento, i contributi di: G. BALP, I finanziamenti infragruppo: direzione e coordinamento e postergazione, in Riv. Dir. Civ., 2012, 20329; M. MAUGERI, I finanziamenti “anomali” endogruppo, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 6, 2014, 726; L. BENEDETTI, La disciplina dei finanziamenti up-stream della società eterodiretta alla capogruppo in situazione di difficoltà finanziaria, in Riv. Società, fasc. 4, 2014, 747; M. MIOLA, op. cit.

[35] G. BALP, op. cit.

[36] M. MAUGERI, op. cit.

[37] Questa la tesi sostenuta, tra gli altri, da G. BALP e M. MAUGERI, op. cit. Di avviso contrario, L. BENEDETTI, op. cit.

[38] G. BALP,op. cit.

[39] M. MIOLA, Finanziamenti intragruppo e tesoreria accentrata di gruppo, op. cit.

[40] Sul punto, G. BALP, op. cit.;L. ARDIZZONE, op. cit.. In giurisprudenza: Tribunale di Forlì, 30 giugno 2008.

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