Con la sentenza n. 7/2017 (depositata l’11 gennaio 2017, udienza tenutasi il 22 novembre 2016) la Corte Costituzionale è intervenuta a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3 del decreto legge 95/2012 (conv. con modif. dalla legge 135/2012), c.d. “spending review”, nella parte in cui prevedeva che le somme derivanti dalle riduzioni di spesa effettuate da un Cassa di Previdenza (nel caso di specie la Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per i Dottori Commercialisti, CNPADC) debbano essere versate annualmente ad apposito capitolo del Bilancio dello Stato.
La questione affrontata dalla Corte ha una rilevanza che prescinde dal dato meramente tecnico e specialistico e che fornisce chiarimenti importanti per tutte le Casse di Previdenza privatizzate istituite con i decreti legislativi 509/1994 e 103/1996, ai sensi dei quali – lo si ricorda – gli enti di previdenza dei professionisti sono stati trasformati in associazioni o fondazioni di diritto privato con autonomia finanziaria e gestionale e generale sottoposizione alla normativa privatistica, ferma restando la rilevanza pubblicistica delle funzioni di previdenza ed assistenza svolte in favore dei propri iscritti.
La sentenza muove da un’ordinanza di rimessione (n. 208/2015) presentata dal Consiglio di Stato cui si erano rivolti la CNPADC, nonché in proprio due iscritti della stessa cassa, avverso la precedente sentenza del TAR Lazio n. 6103/2013. Il Consiglio di Stato, infatti, ha chiesto alla Corte Costituzionale di verificare se fossero conformi alla costituzione le previsioni della spending review che prevedono, a partire dal 2012, che tutti gli enti pubblici (territoriali e non) ed in generale tutti gli enti inclusi nell’elenco delle “Pubbliche Amministrazioni” (predisposto annualmente dall’ISTAT) debbano conseguire determinati risparmi di spesa stabiliti dalla legge, e che tali risparmi debbano essere annualmente riversati al Bilancio dello Stato. La norma contestata si inserisce nel quadro delle disposizioni urgenti predisposte dal Governo Monti allora in carica ed istituisce quindi una sorta di “prelievo” a carico delle amministrazioni pubbliche su basi continuative, inducendole ad adottare una politica di riduzione dei costi e delle spese per finanziare tale prelievo.
La questione di legittimità costituzionale è stata posta con riferimento non tanto all’annoso (e probabilmente ormai superato) dibattito sulla legittimità o meno dell’inclusione delle Casse di previdenza nell’elenco delle pubbliche amministrazioni predisposto dall’ISTAT, bensì riguardo alla stessa possibilità (atteso il dettato delle previsioni costituzionali di cui agli articoli 3, 38 e 97 della Costituzione) che una legge dello Stato possa disporre un “prelievo forzoso” continuativo e senza carattere di eccezionalità di somme che – nel caso delle Casse di Previdenza – sono versate (su basi obbligatorie) dai professionisti alla propria cassa di riferimento.
Ebbene la Corte, misconoscendo la rilevanza delle argomentazioni fornite dalla Presidenza del Consiglio (e per essa dall’Avvocatura dello Stato), ha riconosciuto, in estrema sintesi, che:
- Non è ragionevole (ai sensi del disposto dell’art. 3 della Costituzione) disporre una deroga all’ordinario regime di autonomia della Cassa sacrificandone gli interessi rispetto ad un “generico e macroeconomicamente esiguo impiego nel bilancio statale”. L’attività delle Casse, in particolare, prevede un vincolo funzionale tra contributi degli iscritti ed erogazione delle prestazioni previdenziali. Pertanto, se in astratto sarebbe anche possibile (in determinati casi) per lo Stato predisporre un prelievo eccezionale nei confronti di enti ed amministrazioni pubbliche, non lo è al contrario ipotizzare un contributo obbligatorio e “perenne” su enti che sono stati privatizzati e tramite i quali lo Stato ha inteso realizzare un sistema pensionistico su basi del tutto autofinanziate. Giova infatti ricordare – come la Corte ha correttamente precisato – che è la stessa legge istitutiva delle Casse di previdenza a chiarire come le Casse non possano ricevere contributi e finanziamenti di carattere pubblico e debbano riuscire ad autosostenersi finanziariamente.
- Ancora, la Corte ritiene legittima la scelta del legislatore di introdurre un obbligo di contenimento della spesa sulle amministrazioni pubbliche, ma non, al contrario, l’obbligo anche per le Casse di riversare tali somme al Bilancio dello Stato. Secondo il ragionamento dei giudici delle leggi, infatti, sarebbe contrario all’art. 97 della Costituzione sottrarre le risorse che la Cassa ha ricevuto dai propri iscritti per finalità “intrinsecamente” previdenziali ed assistenziali per destinarle in maniera generica ed indiscriminata allo Stato.
- Da ultimo, e per effetto dei corollari sopra citati, la Corte fornisce anche un’altra importante precisazione: i beni delle Casse appartengono agli iscritti e tale contribuzione da parte degli iscritti ha consentito di costruire un sistema previdenziale privatizzato che secondo la Corte è “meritevole di essere preservato” e che sarebbe invece scalfito dalla presenza dell’obbligo introdotto dalla norma di cui alla spending review. Il sistema privatistico delle Casse si è in sostanza dimostrato in grado di far fronte alle necessità dei propri iscritti, ed è alternativo a quello previsto per i dipendenti pubblici, che invece la Corte non esita a definire come foriero di deficienze strutturali quanto ai suoi meccanismi di finanziamento. Pertanto, sarebbe contrario ai principi di cui all’art. 38 della Costituzione una previsione che imponga che risorse di iscritti ad una Cassa siano riversate in via generale al Bilancio dello Stato, e quindi senza un collegamento funzionale diretto di tali somme rispetto ad esigenze pensionistiche o assistenziali degli stessi iscritti all’ente. Resta inteso che la CNPADC (così come tutte le Casse) potrà decidere di utilizzare le somme risparmiate applicando la spending review ad iniziative di assistenza o mutualità per i propri iscritti.