Il presente contributo, nel commentare la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 5796 del 24 febbraio 2023, analizza il tema dell’ammissibilità della richiesta di risarcimento del danno avanzata dal lavoratore ceduto nel contesto di una cessione di ramo d’azienda dichiarata illegittima.
1. Introduzione
Con la Sentenza n. 5796 del 24 febbraio 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito a un’interessante vicenda scaturente da una cessione di ramo d’azienda e incidente sui rapporti di lavoro dei dipendenti ceduti nell’eventualità in cui la cessione sia dichiarato illegittima.
La portata della Sentenza in commento deve ritenersi di assoluta importanza anche a fronte delle approfondite analisi condotte dai Giudici di legittimità.
Infatti, può anticiparsi che la pronuncia non è incentrata sulla tematica – ormai considerata comune – del trasferimento di ramo d’azienda e sulle relative sorti dei rapporti giuridici legate alla legittimità e/o illegittimità dello stesso, bensì sull’ammissibilità (e relative modalità di proposizione) di eventuali pretese risarcitorie da parte di dipendenti ceduti nel contesto di una cessione d’azienda giudicata illegittima.
E si noti bene che ogni valutazione circa l’eventuale ammissibilità di simili pretese è incentrata su di un ben determinato periodo temporale: i.e. il tempus antecedente alla pronuncia giudiziale di illegittimità del trasferimento d’azienda.
Non può non percepirsi, dunque, la complessità e la peculiarità dell’analisi giuridica che ha visto, di recente, l’impegno degli Ermellini.
Ebbene, come vedremo nel presente contributo, la Corte di Cassazione ha proposto le proprie determinazioni in seguito a un ampio iter argomentativo, ispirato sia ai principi più generali del nostro ordinamento sia a precedenti giurisprudenziali (anch’essi di legittimità, assurgibili a paradigmi analogici).
2. I fatti
Procedendo con ordine, la vicenda de qua vede, soltanto sullo sfondo, una cessione di ramo d’azienda avvenuta nel novembre 2004 e la relativa declaratoria di illegittimità con efficacia ex tunc e conseguente “ricostituzione” dei rapporti di lavoro (ceduti) in capo all’azienda cedente.
L’illegittimità della cessione di ramo è stata dichiarata dal Tribunale di Bari con sentenza del gennaio 2016.
La vicenda “giudiziaria” è poi proseguita – sotto ulteriori profili (risarcitori) – al cospetto delle Corti milanesi, evidentemente competenti territorialmente avendo riguardo alla sede dell’azienda cedente.
In merito, stando a quanto può dedursi dalla lettura della Sentenza in commento, il lavoratore avrebbe rivendicato in giudizio i propri diritti, suscettibili di quantificazione economica, a fronte di danni asseritamente subìti nel periodo intercorrente tra la data del trasferimento di ramo d’azienda impugnato e la data della pronuncia giudiziale di illegittimità di detta cessione di ramo d’azienda ad opera del Tribunale di Bari.
Ed infatti, la Corte di appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale della medesima sede, ha condannato l’azienda cedente al pagamento di una somma (pari a Euro 83.711,34) a favore di un dipendente (ceduto) a titolo di risarcimento del danno subìto nell’arco temporale decorrente dal novembre 2004 (epoca in cui il lavoratore era stato ceduto alla cessionaria per effetto della più volte menzionata cessione di ramo d’azienda) al gennaio 2016 (data della sentenza del Tribunale di Bari che aveva dichiarato, con efficacia ex tunc, l’illegittimità della cessione).
I Giudici d’appello hanno ritenuto che, “ricostituito con effetto ex tunc il rapporto di lavoro alle dipendenze della società cedente, è certamente ravvisabile un comportamento illegittimo della società cedente in caso di riscontrata differenza tra retribuzione percepita dalla società cessionaria – (in specie, trattamento ridotto per contratti di solidarietà e trattamento di cassa integrazione) – e retribuzione che sarebbe spettata in caso di mancata cessione del contratto, con conseguente insorgenza di una obbligazione di natura risarcitoria (trattandosi del periodo intercorrente tra la cessione e la sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo di azienda, a differenza dell’obbligazione di natura retributiva che sorge successivamente la suddetta sentenza di accertamento), a prescindere dalla messa in mora del lavoratore (che nel caso di specie è intervenuta successivamente alla sentenza del Tribunale di Bari)”.
Inoltre, sulla quantificazione del danno, la Corte ha aggiunto che “le inferiori somme percepite dal lavoratore (in luogo della retribuzione che avrebbe percepito dalla società cedente) non potevano essere detratte a titolo di aliunde perceptum, sia perchè di natura previdenziale sia in quanto ripetibili dagli istituti previdenziali”.
Sulla scorta di ciò, la medesima Corte ha riconosciuto al lavoratore un importo a titolo di danno la cui determinazione economica è “corrispondente al differenziale tra trattamento percepito a titolo di cassa integrazione guadagni, mobilità, contratti di solidarietà e trattamento retributivo erogabile dalla società cedente”, con esclusione di premi di risultato, buoni pasto e benefit la cui titolarità in capo al dipendente è stata ritenuta – dai Giudici – non provata “in assenza di una esposizione chiara e specifica” (anche alla luce di precise controdeduzioni offerte della società cedente).
A fronte di tale netta decisione, l’azienda cedente (soccombente in secondo grado di giudizio) ha proposto ricorso per cassazione. Il dipendente ha resistito con controricorso.
3. L’iter logico-argomentativo della Corte di Cassazione
Vista la complessità della vicenda giuridica in commento, può essere opportuno un breve (e chiarificatore) riepilogo.
La questione sottoposta alla Cassazione ha ad oggetto una richiesta di risarcimento danni (lamentati) da parte di un dipendente il cui rapporto di lavoro è stato trasferito ad altra società (cessionaria) a seguito di una cessione di ramo di azienda.
La richiesta risarcitoria, intervenuta a seguito della declaratoria giudiziale di illegittimità del suddetto trasferimento di ramo, è diretta all’azienda cedente (originario datore di lavoro) ed ha ad oggetto il pagamento di somme (risarcitorie) parametrate al differenziale tra quanto percepito dalla società cessionaria e quanto avrebbe potuto percepire in caso di continuità dell’originario contratto di lavoro (ove non vi fosse stato il trasferimento di ramo).
Fatto tale (doveroso) inciso riepilogativo, possiamo addentrarci nel percorso argomentativo proposto, a supporto della propria decisione, dalla Corte di Cassazione.
Le prime riflessioni dei Giudici di legittimità muovono da un (ormai) consolidato orientamento giurisprudenziale (culminato in una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite – n. 2990 del 2018) secondo cui, a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione di ramo d’azienda e conseguente ordine del giudice di ripristinare il rapporto di lavoro con il datore di lavoro cedente, il rapporto con il cessionario è ritenuto instaurato in via di mero fatto e il sinallagma contrattuale tra cedente e lavoratore ceduto riprende effettività, rivivendo, di talchè, tutti gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti (compreso obbligo in capo al datore di lavoro di corrispondere la retribuzione).
E, riprendendo testualmente la sentenza in commento (che a sua volta cita l’ulteriore giurisprudenza), “nel suddetto periodo, invero, <<il datore di lavoro è indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva>>; solo per tale successivo arco temporale, traendo spunto da Corte Cost. n. 303 del 2011 e <<al fine di superare gli stretti confini della ritenuta corrispondenza tra la continuità della prestazione e la debenza della relativa obbligazione retributiva>>, si è proceduto ad una <<interpretazione costituzionalmente orientata della normativa>> che ha indotto <<al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività>>, sicchè <<il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore>>”.
Pertanto, a parer dei Giudici di Cassazione, le Sezioni Unite hanno tenuto distinto il precedente arco temporale, intercorrente tra il passaggio alle dipendenze del datore di lavoro cessionario e l’accertamento giudiziale della illegittimità del trasferimento, rispetto al quale non può che continuare a operare il “principio, che si è andato consolidando nell’elaborazione della S.C., secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un’espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni”.
Attraverso tale attività interpretativa (e ricostruttiva) della giurisprudenza avvicendatasi nel tempo, i Giudici hanno potuto attribuire, forti del deciso sostegno nomofilattico, la natura risarcitoria alle somme eventualmente pretese dal lavoratore che siano relative a periodi antecedenti alla declaratoria di illegittimità di una vicenda traslativa (quale la cessione di ramo d’azienda).
Stante ciò, v’è certamente un ulteriore aspetto su cui si sono soffermati i Giudicanti che risulta fondamentale per una completa analisi della questione: i.e. la c.d. “messa a disposizione” delle energie lavorative in favore dell’originario datore di lavoro, da parte del dipendente (originariamente ceduto), in seguito alla declaratoria giudiziale di illegittimità della cessione di ramo d’azienda.
Ed infatti, in assenza di una simil formale offerta di energie lavorative (o, in senso strettamente civilistico, c.d. messa in mora), l’azienda cedente potrebbe opporre il proprio convincimento in relazione a un’ipotizzata volontà (espressa per facta concludentia) del lavoratore a proseguire il proprio rapporto di lavoro in capo alla cessionaria, nonostante la declaratoria di illegittimità del trasferimento.
In relazione a ciò, a parer dei Giudici, infatti, “per detto periodo – (quello antecedente alla declaratoria di illegittimità) – il rapporto di lavoro rimane quiescente fino alla declaratoria di inefficacia della cessione (cfr. Cass. n. 5998 del 2019, Cass. n. 35982 del 2021), mancando l’attualità delle reciproche obbligazioni delle parti. In seguito alla pronunzia giudiziale, la mancata ricezione della prestazione lavorativa nel periodo antecedente assurge a comportamento inadempiente del cedente nei confronti del lavoratore ceduto che può agire per il risarcimento del danno subito sempre che abbia preventivamente provveduto a costituire in mora il datore di lavoro, con la messa a disposizione delle energie lavorative ovvero mediante intimazione di ricevere la prestazione, in modo da rendere ingiustificato il rifiuto del cedente e suscettibile di risarcimento l’eventuale danno cagionato. Altrimenti il cedente potrebbe legittimamente confidare sul consenso del lavoratore alla cessione del contratto di lavoro e, inoltre, si creerebbe una ingiustificata aporia per cui il ceduto, dopo la declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento d’azienda, potrebbe ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza, sempre che abbia costituito in mora il cedente, mentre avrebbe diritto al risarcimento del danno per il periodo precedente a prescindere dalla messa a disposizione delle sue energie lavorative”.
E, nel caso di specie, parrebbe dedursi che non siano intervenute simili richieste (o, messe in mora) da parte del lavoratore.
Allargando le maglie dei propri ragionamenti, vista la complessità e – per certi versi – la novità della questione sottesa al giudizio di legittimità, nello sviluppo del proprio iter logico-argomentativo, la Cassazione è ulteriormente risalita a principi generali dell’ordinamento giuslavoristico muovendo da pronunce in tema di contratti a termine al fine di trarne spunto applicativo in via estensivo-analogica.
Ebbene, in base a principi di diritto (generali) accomunabili a quelli finora ripercorsi finora, giurisprudenza predominante ha ritenuto che, nei casi di sentenza accertativa di nullità del termine apposto a un contratto a tempo determinato, il lavoratore abbia diritto al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione maturata per il periodo precedente la declaratoria giudiziale (i c.d. intervalli “non lavorati”) solamente a seguito di messa in mora del datore di lavoro.
Invero, “trattandosi, anche in tali casi, di ricostruzione ex post del rapporto di lavoro, nel periodo precedente la declaratoria di nullità, non sussiste l’attualità del sinallagma contrattuale e il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla”.
V’è infatti giurisprudenza di legittimità che ha affermato che “nel caso di trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per effetto dell’illegittimità dell’apposizione dei termini, non sussiste, per gli intervalli “non lavorati” tra l’uno e l’altro rapporto, il diritto del lavoratore alla retribuzione, mancando una deroga al principio generale secondo cui la maturazione di tali diritti presuppone la prestazione lavorativa, e considerato che la suddetta riunificazione in un solo rapporto, operando ex post, non incide sulla mancanza di una effettiva prestazione negli spazi temporali tra i contratti a tempo determinato (Cass. nn. 8352 e 8366 del 2003; Cass. n. 20858 del 2005)”.
E ciò, a parer dei Giudici della sentenza in commento, fonderebbe le basi su insegnamenti della ben nota sentenza emessa dalla Cassazione riunita a Sezioni Unite (n. 14381/2002) secondo cui, in breve, “per il <<dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo>>, hanno escluso <<il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza (…) salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente>>”.
4. Conclusioni
Giunti a questo punto, è di indubbio rilievo il profondo sforzo ermeneutico svolto dalla Corte di Cassazione al fine di dirimere la presente vicenda.
Sforzo dato non solo dalla complessa analisi condotta, ma anche dalla novità della questione sottesa alla richiesta del lavoratore, ontologicamente risarcitoria, in relazione alla quale la cessione di ramo d’azienda (argomento ormai consueto) funge solo da sfondo.
In ogni caso, stante il breve excursus e tornando alle conclusioni cui è giunta la Cassazione, la vicenda in commento ha reso opportunità per emanare il seguente principio di diritto “il lavoratore ceduto, che vede giudizialmente ripristinato il rapporto di lavoro con il cedente, non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione del ramo di azienda e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della suddetta cessione e può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla, detratto l’eventuale aliunde perceptum, soltanto a partire dal momento in cui abbia provveduto a costituire in mora il datore di lavoro cedente ex articolo 1217 c.c.”.
A ben vedere, nel caso di specie, i Giudici di legittimità hanno rilevato che “l’offerta della prestazione – da parte del lavoratore – è intervenuta, pacificamente, in data successiva alla pronuncia di declaratoria della illegittimità della cessione del ramo di azienda (in specie, con missiva del marzo 2016)” e, inoltre, che “la Corte territoriale ha accertato, con valutazione di merito insindacabile in questa sede, che “nessuna valida messa in mora era contenuta nel ricorso introduttivo dell’originario giudizio di legittimità della cessione”; nessun diritto al risarcimento del danno e’, dunque, maturato a favore del lavoratore”.
In conclusione, la Cassazione ha accolto il primo motivo di ricorso principale (proposto dalla società cedente), assorbiti il secondo motivo di ricorso principale e il ricorso incidentale e, con medesimo provvedimento, ha cassato la sentenza impugnata, decidendo nel merito e rigettando la domanda proposta dal lavoratore nel ricorso introduttivo del giudizio.
La Corte ha però riconosciuto un’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti, data la novità della questione.