1. La successione dell’acquirente nei debiti aziendali relativi al ramo ceduto
Come noto, con il trasferimento del ramo d’azienda il cessionario acquista anche tutti i debiti ad esso relativi, purché risultino inequivocabilmente dai libri contabili obbligatori e purché si tratti di un complesso di beni di per sé idoneo a consentire l’inizio o la continuazione di una determinata attività d’impresa.
Il Codice detta una disciplina specifica per la cessione dell’intera azienda, ma nulla dispone per il caso in cui l’imprenditore alieni uno o più rami della stessa. Dal silenzio della legge, talune Corti di merito, nonché alcuni autori della dottrina, hanno tratto la conclusione che l’acquirente risponda in solido con il cedente dei debiti relativi a quella parte dell’azienda rimasta di proprietà del cedente, ove questi non abbia tenuto una contabilità distinta[1].
La sentenza in esame, invero già commentata da autorevole dottrina[2], rappresenta in taluni aspetti una novità giurisprudenziale, ponendosi in contrapposizione rispetto al sopra esposto orientamento, e offre lo spunto per affrontare ulteriori temi in materia di cessione di ramo d’azienda.
La Suprema Corte ha infatti evidenziato come la tesi enucleata dalle Corti di merito finirebbe per tutelare in maniera ingiustificata i creditori dell’impresa, in netto contrasto con la ratio delle norme previste in materia di cessione d’azienda e in particolare con l’art. 2560, cod. civ..
Come osservato dagli Ermellini, infatti, la disposizione in parola risponde alla necessità di salvaguardare due esigenze contrapposte: da un lato, si intende tutelare il creditore nel caso in cui venga trasferito il complesso (ovvero una parte) dei beni aziendali, posto che egli potrebbe vedere ridotte le proprie garanzie in seguito alla sostituzione di un importante bene del patrimonio del debitore con una somma di denaro, la cui volatilità metterebbe in pericolo la realizzazione dei crediti; dall’altro lato, si tutelerebbe“l’interesse economico collettivo alla facilità di circolazione dell’azienda”, che verrebbe messa a repentaglio qualora il cessionario non fosse nella posizione di conoscere con esattezza le passività cui sarebbe tenuto a rispondere solidalmente con il cedente al momento della sottoscrizione del contratto di cessione dell’azienda. Èinfatti evidente come, laddove si ritenesse che il cessionario debba rispondere di tutti i debiti aziendali, inclusi quelli non riferiti al complesso di beni venduti, si creerebbe una netta sproporzione tra i rischi e benefici derivanti dalla cessione, e l’imprenditore si guarderebbe bene dall’acquistare il ramo, con evidenti ripercussioni sulla circolazione dei beni e sul sistema economico in generale.
Ne deriva che l’acquirente risponderà unicamente dei debiti aziendali riferiti a quella parte dell’azienda da lui acquistata, indipendentemente dalla circostanza che l’alienante abbia tenuto o meno una contabilità distinta, e purché tali debiti risultino dalle scritture obbligatorie come attinenti all’azienda acquistata, senza sconfinare nel principio, non accolto dal legislatore, di responsabilità per debiti conosciuti o conoscibili dell’intero complesso aziendale.
Le difficoltà potrebbero invero sorgere esclusivamente in fase applicativa, come nel caso in cui l’identificazione del ramo aziendale avvenga solo nel momento in cui lo si scorpori al fine di trasferirlo, ove l’unica soluzione percorribile appare quella di individuare in concreto la genesi e allocazione dei debiti. Tale compito, da affidarsi presumibilmente all’attività di un esperto contabile, potrebbe risultare arduo, attesi gli evidenti margini di opinabilità che l’operazione comporta[3].
2. L’art. 2558, comma 1, cod. civ.: l’annosa e controversa questione dei contratti intuitus personae e personali. Quali differenze?
L’art. 2558, comma 1, cod. civ., stabilisce come regola generale che “l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa”.
La ratio della norma appare coerente con l’idea dell’azienda come universitas di beni, dato che i contratti a essa relativi si considerano facenti parte di quel complesso unitariamente inteso, ed è pertanto naturale che si trasferiscano con essa[4]. Si sottraggono alla regola del trasferimento automatico i beni che“abbiano carattere personale”.
È oggetto di ampia discussione, sia in dottrina che in giurisprudenza, il problema relativo all’individuazione dei contratti aventi “carattere personale” ai sensi dell’art. 2558 cod. civ., e, al riguardo, si riscontrano due orientamenti contrapposti.
Secondo una prima tesi, sostenuta da eminenti autori[5] nonché da alcuni tribunali di merito[6], i contratti personali sarebbero da identificarsi nei contratti intuitus personae, tra cui vanno annoverati l’associazione in partecipazione, per quel che riguarda la posizione dell’associante, la vendita con esclusiva con divieto di cessione dell’esclusiva, il mandato, l’appalto. Gli stessi autori che aderiscono a questo orientamento hanno peraltro sottolineato come, invero, occorrerebbe valutare di volta in volta le singole situazioni, dando rilievo all’infungibilità che in concreto ha (o ha assunto) l’attività personale dell’imprenditore[7].
Viceversa, altra dottrina ha osservato come non debbano intendersi ricompresi nei beni aventi carattere personale tutti quei beni che siano indistintamente legati all’identità del soggetto contraente[8]. Occorrerebbe, in altri termini, tenere ben separati i beni aventi carattere personale da quelli caratterizzati dal cosiddetto intuitus personae.
Ed invero, mentre nei contratti personali il terzo contraente ha concluso il contratto solo per le qualità dell’alienante (sicché la persona dell’alienante è stata considerata in senso assoluto come presupposto della volontà di costituzione del rapporto), nei contratti basati sull’intuitus personae la qualità e la posizione dell’alienante vengono presi in considerazione solo in senso relativo per la costituzione del rapporto, che si sarebbe comunque concluso con un altro contraente avente le medesime qualità dell’alienante. Nei contratti legati all’intuitus personae, non viene cioè in considerazione l’alternativa se concludere o meno il contratto, bensì l’alternativa se concluderlo con quella determinata persona o con un’altra. Al contrario, nei contratti personali ciò che rileva è l’identità dell’altro contraente in quanto tale, sicché le sue qualità finiscono per rappresentare la ragione che spinge/ha spinto l’altro contraente a sottoscrivere il negozio.
Alla luce di quanto sopra, rientrerebbero nella categoria dei contratti connotati dall’intuitus personae (e sarebbero come tali soggetti a cessione automatica), i contratti di assicurazione che la compagnia sottoscrive avuto sì riguardo alla persona dell’altro contraente, ma che la medesima avrebbe in ogni caso sottoscritto con un diverso cliente, laddove l’assicurato non avesse avuto le qualità richieste al momento della sottoscrizione del contratto[9]. Lo stesso discorso varrebbe per i contratti di appalto, nei quali il committente sottoscrive il negozio al fine di realizzare un’opera o un servizio, a prescindere dall’identità dell’appaltatore. Questa rileverà solo nell’ambito della scelta del contraente, ma non inficerà in alcun modo la realizzazione dell’opera o del servizio, che il committente affiderà in ogni caso a un appaltatore esperto.
Viceversa, il principio di intrasmissibilità applicabile ai contratti personali è giustificato dall’assenza di quell’immanenza dell’interesse all’affare nel patrimonio del soggetto che giustifica la successione nel contratto. In questi casi, peraltro, l’intrasmissibilità opererebbe nell’interesse del successore, ad esempio, del contraente a non essere vincolato da un contratto indipendente dalle esigenze di gestione del patrimonio del de cuius; o dell’acquirente dell’azienda a non essere obbligato da un contratto riflettente una valutazione di interessi personali dell’alienante e non riconducibile alle esigenze di gestione dell’impresa, come l’adesione dell’imprenditore ad associazioni di categoria, la partecipazione a comitati e così via[10]. Verrebbe peraltro da chiedersi in quale delle due categorie appena menzionate rientrerebbero talune fattispecie ricorrenti nella prassi commerciale. Si pensi all’ipotesi del raggruppamento temporaneo d’imprese, istituto sovente utilizzato dalle società che partecipano a gare d’appalto, che ben potrebbe rientrare tanto nella figura dei contratti personali quanto in quella dei contratti intuitus personae.
Da un lato, infatti, il raggruppamento temporaneo d’impresa presenta elementi tali da far ritenere infungibile l’identità del soggetto contraente, al punto che le altre società partecipanti al raggruppamento non lo avrebbero voluto costituire se non unitamente a, ed esclusivamente con, le imprese che inizialmente ne facevano parte.
Dall’altro lato, il raggruppamento temporaneo d’imprese presenta connotati tipicamente imprenditoriali, trattandosi dopotutto di una forma giuridica costituita al precipuo fine di realizzare un’attività di business, sicché il trasferimento automatico della partecipazione sembrerebbe scontato in vista di una cessione d’azienda. A parere di chi scrive, la collocazione da attribuire a queste figure che si trovano al limite tra la categoria dei contratti personali e di quelli intuitus personae andrebbe valutata caso per caso, a seconda della rilevanza che la partecipazione al raggruppamento assume rispetto all’esercizio dell’attività aziendale.
La tesi che ritiene debba operarsi una netta distinzione tra i due contratti è criticabile nella misura in cui riduce sensibilmente le ipotesi applicative dell’eccezione contenuta nell’art. 2558, comma 1, cod. civ., al punto da rendere la disposizione pressoché lettera morta, atteso che, se si escludono dal novero dei contratti personali quelli d’appalto, di assicurazione, di mandato “stipulati per l’esercizio dell’azienda”, sembrerebbe difficile individuare concretamente contratti sottoscritti per l’esercizio dell’attività imprenditoriale e riconducibili alla categoria in esame.
Al riguardo, è stato osservato come debbano ritenersi rapporti di natura personale un numero assai esiguo di contratti di impresa, tra cui rientrerebbero quelli d’opera intellettuale, sottoscritti per la “fiducia che si ripone in quel determinato professionista[11]”, benché la Suprema Corte abbia in passato escluso che sia caratterizzato da tale natura il contratto di prestazione d’opera professionale concluso dall’alienante con un avvocato cui lo stesso abbia conferito mandato alle liti in ordine a un giudizio di risarcimento dei danni, con la conseguenza che in tale contratto si verificherebbe la successione dell’acquirente dell’azienda[12]. In ogni caso, limitare ai soli contratti d’opera intellettuale l’applicazione della disciplina relativa ai contratti personali cui si riferisce l’art. 2558, comma 1, cod. civ., potrebbe sembrare riduttivo e confinato a casi di scuola.
Senonché, un simile orientamento appare maggiormente apprezzabile nell’ottica di garantire un’efficiente e facile circolazione della ricchezza, e, più in generale, di adeguare le previsioni del Codice del 1942 al contesto economico attuale, ove le compravendite di complessi aziendali rientrano oramai nella prassi ordinaria delle operazioni commerciali tra imprese. Più in particolare, è stato sottolineato come la ratio di una simile interpretazione dell’art. 2558, cod. civ., volta a garantire il trasferimento automatico di tutti i contratti stipulati per l’esercizio dell’attività imprenditoriale dal cedente al cessionario, risponda ad una duplice esigenza, l’una di matrice diversa rispetto all’altra, ma entrambe poste, in ultima analisi, a presidio del principio della facile e rapida circolazione dei beni. La prima, di natura privatistica, è volta a garantire all’acquirente la continuità nel funzionamento dell’organizzazione aziendale intesa come complesso dei rapporti giuridici necessari per l’espletamento dell’attività d’impresa. La seconda è invece di natura pubblicistica, risiede nella conservazione dell’avviamento e, in generale, delle organizzazioni imprenditoriali: in sostanza, senza il passaggio dei contratti inerenti all’esercizio dell’impresa, l’integrale trasferimento dell’azienda (con il suo avviamento) sarebbe impossibile[13]. Non solo. Il principio del trasferimento automatico dei contratti d’impresa sarebbe altresì posto a tutela dell’alienante, che vedrebbe così incrementato il valore della propria azienda. Ciò si desumerebbe, secondo autorevole dottrina[14], dal fatto che “il subingresso dell’acquirente nei contratti di impresa, se non può essere impedito dal contraente ceduto, può tuttavia essere escluso per patto intercorso fra l’alienante e l’acquirente: l’art. 2558, c.c., infatti, ammette che possa essere pattuito diversamente”.
Si potrebbe peraltro opinare che un’interpretazione così rigida dell’art. 2558 cod. civ. porterebbe a pregiudicare le ragioni del terzo contraente ceduto, atteso che questi sarebbe costretto a subire una modifica nell’identità del soggetto contraente, senza potervisi opporre.
Occorre tuttavia rammentare che al terzo contraente ceduto è comunque consentito recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, atteso che l’intuitus personae rappresenta per il terzo contraente una giusta causa di recesso dal contratto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2558, comma 2, cod. civ.[15].
Una simile interpretazione risulta del resto coerente con la normativa specifica prevista in materia di contratti. Si pensi all’art. 1918, commi 3 e 4, cod. civ., norma che disciplina l’alienazione della cosa assicurata: l’acquirente subentra nel contratto di assicurazione, ma l’assicuratore può recedere dal contratto, esattamente come previsto nel caso di trasferimento dell’azienda.
La stessa disposizione relativa alla giusta causa di recesso tutela peraltro il terzo contraente in altre circostanze, e precisamente in quelle nelle quali lo stesso si potrebbe ritrovare a seguito della cessione dell’azienda, con importanti ripercussioni anche sulla sfera giuridica dell’acquirente dell’azienda.
Si pensi all’ipotesi in cui il cedente si sia reso inadempiente a un’obbligazione contrattuale in un momento antecedente alla cessione dell’impresa. In questo caso è possibile che, se l’inadempimento sia stato di non scarsa importanza, il terzo contraente ceduto non abbia più interesse all’esecuzione della prestazione contrattuale da parte dell’acquirente dell’azienda e decida pertanto di recedere dal contratto nei tre mesi successivi alla notizia del trasferimento. Ove l’acquirente non abbia previsto adeguati meccanismi di tutela all’interno del contratto di trasferimento dell’azienda, egli si troverebbe pertanto costretto a subire le conseguenze negative dell’altrui inadempimento, con le evidenti ripercussioni che ciò potrebbe avere sul valore dell’azienda, specie nell’ipotesi in cui il contratto in questione sia rilevante per il business della società.
Al fine di scongiurare simili rischi, l’acquirente avrà tutto l’interesse ad includere nella documentazione contrattuale relativa alla cessione dell’azienda adeguate dichiarazioni e garanzie, in base alle quali il cedente statuisca di non avere mai commesso inadempimenti tali da legittimare alcun terzo contraente a recedere dai contratti in essere con la società.
In alternativa, l’acquirente potrebbe prevedere un meccanismo di indennizzo specifico che tuteli l’acquirente dall’ipotesi in cui il terzo contraente eserciti il proprio diritto di recesso nei tre mesi successivi al perfezionamento dell’operazione. Per i contratti di maggiore rilevanza, una ulteriore soluzione commerciale percorribile potrebbe essere quella di prevedere una rinuncia da parte del terzo contraente a esercitare il proprio diritto di recesso dal relativo contratto quale condizione sospensiva al perfezionamento dell’operazione.
Siffatti meccanismi forniscono adeguate protezioni in favore dell’acquirente, tutelandolo dal potenziale pregiudizio che questi potrebbe subire successivamente all’acquisto dell’azienda.
[1] Corte Appello di Trieste, 4 marzo 2011. In dottrina, v. M. PORZIO, La sede dell’impresa, Napoli, 1970, 245.
[2] G. Cottino, Divagazioni su cessione di ramo d’azienda, debiti e “eternità” del processo, in Giur. it., ottobre 2015, 2125, nota a Cass. Civ., 30 giugno 2015, n. 19319.
[3] Ibidem.
[4] G. Bonfante, G. Cottino, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino,I, Padova, 2001, 635.
[5] Ivi, 636. Cfr., altresì, G. Campobasso, Diritto commerciale, vol. I, Torino, 2003, 152.
[6] Trib. Rimini, 2 aprile 1998, in Rass. dir. fam., 1998, 1018.
[7] G. Bonfante, G. Cottino, op. cit., 636 ss..
[8] F. Galgano, Trattato di diritto civile, vol. 2, Padova, 2010, 351. A. Scialoja, G. Branca, Commentario del codice civile, Art. 2555-2642, Bologna, 1954, 56. G.U. Tedeschi, Le disposizioni generali sull’azienda, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. VIII, Torino, 1983, 46.
[9] Ibidem.
[10] F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., 352.
[11] F. Galgano, L’imprenditore, Bologna, 1995, 69.
[12] Cass. Civ., 25 luglio 1978, n. 3723, in Giur. it., 1978, 1, 1, 1129.
[13] P. Cilento, In tema di successione dell’affittuario nei contratti relativi all’esercizio dell’azienda, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, 311 ss.
[14] F. Galgano, Diritto civile e commerciale, III, Padova, 1990, 87 ss.
[15] F. Galgano, Trattato di diritto civile, cit., 352.