L’art. 67 1. fall., non facendo alcun riferimento alla sorte dei diritti di coloro che abbiano acquistato dal primo acquirente del debitore fallito, è inapplicabile agli atti di acquisto di tali subacquirenti, applicandosi in tale ipotesi il regime giuridico dell’azione revocatoria ordinaria con salvezza dei diritti acquistati a titolo oneroso da terzi di buona fede. In tal caso il curatore fallimentare che abbia convenuto in giudizio il creditore ipotecario dell’acquirente del bene alienato dal fallito è tenuto a dimostrare la malafede del predetto creditore, in qualità di terzo subacquirente, secondo le regole dell’onere della prova dell’azione revocatoria ordinaria: compete dunque al curatore dare la prova della suddetta malafede, da individuarsi nella consapevolezza, da parte del subacquirente, della circostanza che l’atto di acquisto intervenuto fra il suo dante causa ed il debitore fallito era revocabile ai sensi del cit. art. 67 1. fall.
La conoscenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore da parte del terzo contraente deve essere effettiva, e non meramente potenziale, sebbene la relativa dimostrazione si possa ben basare anche su elementi indiziari caratterizzati dagli ordinari requisiti della gravità, precisione e concordanza, in applicazione del disposto degli articoli 2727 e 2729 c.c., i quali conducano a ritenere che il terzo, facendo uso della sua normale prudenza ed avvedutezza, non possa non aver percepito i sintomi rivelatori dello stato di decozione del debitore.
Qualora il convenuto in revocatoria fallimentare sia dichiarato fallito nelle more del giudizio, le pronunce di pagamento o di restituzione, consequenziali alla dichiarazione d’inefficacia, competono al tribunale che ha dichiarato il fallimento del terzo, secondo le modalità stabilite per l’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi. La pronuncia di statuizioni dipendenti dall’accoglimento dell’azione revocatoria nei confronti della curatela del fallito è quindi inibita al giudice che abbia pronunciato su detta azione, dovendosi attuare solo in sede di formazione dello stato passivo avanti al tribunale che ha dichiarato il fallimento.
Non costituiscano prove sufficienti della conoscenza dello stato di insolvenza (scientia decoctionis): i) l’esistenza di procedure esecutive mobiliari a carico del debitore, non essendo dette procedure soggette a forme di pubblicità, a differenza di quanto è previsto per quelle immobiliari; ii) la circostanza che sul bene oggetto dell’iscrizione ipotecaria gravassero un’altra ipoteca giudiziale e un pignoramento immobiliare, poiché i relativi debiti erano stati oggetto di accollo nel quadro della compravendita; iii) l’evasione contributiva; iv) la proposta di concordato stragiudiziale; v) una supposta decozione della società fallita; vi) l’appartenenza della società fallita e dell’acquirente allo stesso gruppo societario; vii) l’accensione dell’ipoteca sull’immobile ormai passato di proprietà a fronte della trasformazione del credito della banca da chirografo a privilegiato, laddove giustificabile alla luce dell’entità del finanziamento erogato.
Nel caso di specie la società fallita aveva venduto l’unico immobile di sua proprietà ad altra società appartenente al medesimo gruppo, la quale aveva stipulato un contratto di mutuo fondiario con iscrizione ipotecaria di terzo grado sull’immobile in questione a favore della banca mutuante. Il fallimento, ricorrente in Cassazione, rilevava come entrambi i contratti fossero finalizzati a frodare le ragioni dei creditori della società, la quale versava in stato di insolvenza. Per quanto riguarda la posizione della banca, questa, essendo creditrice della società poi fallita, avrebbe visto così di fatto trasformato in ipotecario il proprio credito grazie alla garanzia accesa sull’immobile della fallita.