Nel caso in esame, due creditori chiedono che venga dichiarata la simulazione assoluta di un atto di cessione della partecipazione pari al 99% del capitale sociale di una S.r.l. dalla madre Mevia al figlio convivente Caio, già titolare della restante parte del capitale. L’atto dispositivo era stato stipulato e trascritto in un periodo successivo, ancorché prossimo alla notifica del titolo esecutivo e del precetto, rispetto a cui Caio era terzo.
I creditori domandavano l’iscrizione nel Registro delle Imprese di un pignoramento sulle quote anche contro Caio, ma l’Ufficio del Registro non compiva la formalità obiettando che il trasferimento era a titolo oneroso (con esclusione dell’applicabilità dell’invocato art. 2929-bis c.c.) e che, comunque, il pignoramento non era stato eseguito nei confronti del figlio acquirente.
Al Tribunale meneghino, ebbene, veniva chiesto di decidere sulla sussistenza della simulazione assoluta dell’atto di cessione sulla base, giusta la posizione di terzi rivestita dai creditori, del meccanismo presuntivo che richiede al Giudice la verifica dell’efficacia sintomatica tanto dei singoli fatti noti, quanto dell’immagine globale che essi tratteggiano (Cass. Civ. n. 6907 del 2019; Cass. n. 24696 del 2018; Cass. Civ. n. 22801 del 2014; Cass. Civ. n. 9465 del 2011; Cass. Civ. n. 11372 del 2005).
La pronuncia riteneva sussistente la simulazione assoluta e, dunque, la cessione in esame era viziata, secondo l’impostazione eletta dalla sentenza, da nullità; e ciò sulla base di innumerevoli circostanze, il cui esame costituisce il vero cuore motivazionale della decisione. Ed, in particolare, il Tribunale ha valorizzato nel maturare il proprio convincimento: (i) la lieve posteriorità dell’atto di cessione alla notifica del titolo esecutivo e del precetto; (ii) il legame di stretta parentela tra acquirente e alienante; (iii) il rapporto di convivenza che lega i due debitori (madre e padre del cessionario) con il figlio Caio; (iv) l’irrisorio prezzo di cessione (inferiore al valore nominale delle quote medesime); (v) l’omessa prova dell’avvenuto pagamento del prezzo; (vi) l’omessa iscrizione dell’identità del socio unico (24705 c.c.) e l’omesso versamento integrale dei conferimenti (2464u.c. c.c.), con la conseguente assunzione di responsabilità personale illimitata; (vii) l’assenza in capo a Caio di ogni ruolo gestorio (l’amministratore unico era ancora la cedente); (viii) l’effetto “spoliativo” dell’unico reale cespite del patrimonio della debitrice Mevia, che risultava dunque sostanzialmente nullatenente.
Dopo la disamina di tali circostanze, il Tribunale considerava anche la genesi, nelle more del giudizio d’appello, della società, avente nella medesima sede, il medesimo personale e la medesima attività prima condotta in forma di impresa individuale dal padre di Caio. Costui, in particolare, terminava la propria ventennale attività, senza alcuna formalità al Registro delle Imprese, e nel medesimo luogo sorgeva l’attività della società, i cui soci erano il figlio e la moglie dell’imprenditore originario.
Il Giudice milanese isola alcuni fatti costantemente interpretati come prova di simulazione – segnatamente la mancanza della prova del pagamento, i rapporti di parentela e convivenza, l’intento fraudolento di sottrarre le quote alla garanzia del credito – i quali, unitamente alle ulteriori circostanze ritenute gravi, precise e concordanti, lo conducono a ritenere che l’unica finalità del negozio fosse evitare, con la simulata cessione, l’aggressione al patrimonio di Mevia, dal che consegue, da un lato, la nullità dell’atto “spoliativo”, dall’altro la costante permanenza delle quote nella sfera giuridica del simulato alienante.
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