Con la risposta ad interpello n. 209/2024, l’Agenzia delle Entrate si è confrontata con il tema della natura reddituale del carried interest, svolgendo una disamina dei presupposti che possono condurre all’applicazione del meccanismo presuntivo descritto dall’art. 60, D.L. n. 50/2017.
Disposizione quest’ultima che comporta l’automatica assimilazione dei proventi “derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio percepiti da dipendenti e amministratori di tali società, enti od organismi di investimento collettivo del risparmio ovvero di soggetti ad essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati” ai redditi di natura finanziaria, al ricorrere congiunto dei requisiti prescritti segnatamente lettere a), b) e c) del suo primo comma.
Si ricorda che per carried interest s’intende quella particolare forma di remunerazione o extra-proventi percepiti da amministratori e/o dipendenti di società, enti o società di gestione dei fondi d’investimento, che deriva dalla detenzione di strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati.
In estrema sintesi, viene richiesto:
- un impegno di investimento pari ad almeno l’1% dell’investimento complessivo effettuato dall’OICR o del patrimonio netto nel caso di società o enti
- la postergazione della maturazione dei proventi al momento in cui tutti i soci o partecipanti all’OICR abbiano recuperato un ammontare pari al capitale investito
- la detenzione dei titoli da parte di dipendenti o amministratori per un periodo non inferiore a cinque anni (o, se precedente al decorso di tale periodo quinquennale, fino alla data di cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione).
Nella vicenda in esame, il quesito si poneva in relazione ai titoli partecipativi derivanti da strumenti finanziari ibridi sottoscritti dal manager della società Istante.
Più nel dettaglio, la contribuente rappresentava che l’emissione e la contestuale sottoscrizione di detti strumenti partecipativi si inserivano nel quadro del contratto di lavoro stipulato con il manager, tali da consentirgli l’accesso ad un extra rendimento in aggiunta alla retribuzione già riconosciuta per l’attività manageriale prestata.
In questa prospettiva, si precisava che gli strumenti finanziari in questione potevano qualificarsi quali strumenti rappresentativi di capitale, giacché non prevedevano alcun obbligo di restituzione del capitale investito.
Pertanto, in considerazione del programma di co-investimento, l’Istante riteneva che i proventi da esso generati costituissero reddito di natura finanziaria e non già reddito di lavoro dipendente, pur non ricorrendo sub specie tutti i presupposti applicativi sanciti dall’art. 60 cit.
Ferme tali premesse, l’Amministrazione finanziaria ha condiviso l’impostazione prospettata dalla contribuente.
Anzitutto, richiamando alcuni documenti di prassi, l’Agenzia ha evidenziato che la previsione in esame è tesa a garantire un allineamento fra i manager e gli altri investitori in termini di interesse alla remunerazione dell’investimento e di rischio di perdita di capitale.
In tale contingenza, la carenza di uno o più requisiti stabiliti dall’ art. 60, comma 1, non determinerebbe l’automatica qualificazione dei cespiti come redditi di lavoro dipendente, postulando invece lo svolgimento di un’analisi volta ad accertare, caso per caso, l’idoneità dell’investimento a soddisfare la ratio dell’art. 60 cit.
Rileverebbero, a tal fine, indici sintomatici quali l’entità economica sottoscritta dal manager (che deve essere valutata anche in rapporto al livello retributivo); la circostanza che il manager percepisca una retribuzione annua fissa, in linea agli standard di mercato, insieme ad una retribuzione variabile, nonché a numerosi benefits; l’esposizione del manager al rischio finanziario.