Nell’articolo apparso il 18 marzo u.s. su Repubblica, dal titolo “Spaccatura nella maggioranza: i senatori del Pd contro la riforma delle Bcc”, vengono rappresentate le rimostranze di esponenti del PD che riflettono alcuni equivoci interpretativi del D.L. n. 18/2016. In particolare, sono stati rappresentati dubbi sulla libera ammissione della way out delle banche di credito cooperativo dalla categoria, con l’ovvia conseguenza di dare un indebito sostegno alla tesi che vorrebbe imporre l’adesione delle banche in parola al «gruppo cooperativo unico», ipotizzato da Federcasse col supporto della Banca d’Italia.
L’orientamento favorevole ad introdurre nella ‘riforma delle Bcc’ la way out è emerso già in epoca antecedente all’emanazione del D.L. e, precisamente, in un convegno organizzato (nel mese di febbraio u.s. presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma) per analizzare, sotto angolazioni variegate, la problematica concernente la mutazione morfologica della categoria.
Emerse, nell’occasione, un concorde assenso dei relatori nel ravvisare la presenza di più gruppi cooperativi (macroregionali o regionali) necessaria al fine di conservare la specificità che qualifica tale tipologia bancaria. Più in particolare, venne sottolineato il legame delle Bcc col territorio e la loro funzione strategica nel finanziamento alle imprese di piccole e medie dimensioni; ciò in linea con le più recenti indicazioni del progetto europeo (dallo Small Business Act al più recente Action Plan per la Capital Markets Union, capitoli 2 e 5) che ascrive peculiare rilievo alle PMI e, quindi, alle banche cooperative (le quali, all’interno del settore creditizio, identificano i soggetti abilitati maggiormente idonei per la loro dimensione a sostenere finanziariamente dette imprese).
In tale premessa, ritengo che si debba guardare con favore la way out delle banche di credito cooperativo; se del caso preceduta da aggregazioni tra più Bcc che intendano, in tal modo, dar vita ad un’entità societaria di rilevanti dimensioni, dalla quale possa poi essere scorporata un’azienda bancaria da conferire in una spa esistente o di nuova costituzione.
Tale lettura della way out deve ritenersi pienamente conforme alla conservazione del metodo gestionale cooperativo (la cd. gestione democratica, come di recente è stato evidenziato nell’Audizione parlamentare tenuta dal prof. Capriglione il primo marzo u.s.). Ciò in quanto consente di ipotizzare la costituzione di un gruppo nel quale la holding, per un verso, è controllata da una società cooperativa (originata dalla fusione tra due o più Bcc), per altro, è legata con un contratto di adesione ad una serie di altre banche di credito cooperativo che a tale gruppo vogliono aggregarsi. E’ evidente come in presenza di una costruzione siffatta non trovi riscontro l’affermazione sostenuta nell’articolo di stampa sopra richiamato secondo cui la way out darebbe luogo ad una sorta di riparto tra i soci della banca cooperativa delle cd. riserve indivisibili. Ed invero, gli asset patrimoniali della spa bancaria capogruppo restano sempre riconducibili, come si è sopra sottolineato, alla Bcc dalla quale è stata scorporata l’azienda creditizia e, dunque, permangono in un contesto di assoluta pertinenza cooperativa.
A ben considerare, le difficoltà da più parti rappresentate con riguardo alla realizzazione di ipotesi di way out sembrano finalizzate all’intento di sostenere la soluzione del gruppo unico patrocinata da Federcasse. Per vero, non si tiene in considerazione il fatto che – come ebbi a sottolineare nel citato Convegno svolto presso la LUISS – la capogruppo perseguirà un interesse di gruppo che si sovrappone a quello delle piccole Bcc che rischiano di diventare meri erogatori di servizi con progressivo abbandono della loro strategica funzione di supporto delle economie locali. Ciò, prescindendo dalla significativa riduzione della capacità d’intervento in sede locale delle Bcc che hanno aderito alla spa, il cui ruolo evidentemente si compendia nello svolgimento di un’attività di mera esecuzione delle direttive impartite dalla capogruppo. In tal senso mi sono già espressa anche in un’intervista al quotidiano spagnolo El Pais rilasciata alcuni giorni fa, puntualizzando i limiti di un intervento gestionale di una holding allocata a centinaia di km di distanza dalla gran parte delle piccole banche cooperative destinatarie dei suoi input strategici (e, dunque, poco attenta alle istanze delle economie zonali in cui le Bcc operano).
Da ultimo, voglio far cenno della questione relativa alla possibile predeterminazione di una data cui far riferimento per la identificazione della soglia di trasformabilità.
Siamo in presenza di un pretestuoso tentativo volto ad impedire la way out o, più precisamente, la realizzazione di una pluralità di gruppi secondo le modalità in precedenza puntualizzate. Esso si fonda sulla consapevolezza che un elevato ammontare del patrimonio netto della holding rende nei fatti molto difficile il conseguimento del menzionato obiettivo qualora la soglia della way out debba essere identificata con riguardo ad una data antecedente all’entrata in vigore della legge di conversione; ne deriverebbe, infatti, un ostacolo alla possibilità di aggregazione tra più BCC e, quindi, alla fase procedimentale (scorporo dal loro insieme di un’azienda di dimensioni adeguate a quelle indicate nel decreto) cui si vuole dar vita.