In materia tributaria, la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento a prevedere tale facoltà, a condizione che la stessa non si traduca in un uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere al solo fine di ottenere un vantaggio fiscale.
La Corte di Cassazione, con il principio espresso nella sentenza in esame, ha voluto dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale maggioritario consolidatosi in materia (ex plurimis: Cass., nn. 30404/2018, 5090/2017, 17955/2013, 1372/2011).
Nella fattispecie in questione, un contribuente impugnava in primo grado un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2003, con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva accertato una maggiore plusvalenza derivante da una cessione di partecipazione societaria, sul presupposto che l’operazione integrasse una operazione elusiva ex art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.
La verifica traeva origine dalla alienazione, nel 2002, da parte del contribuente e del coniuge, delle quote di partecipazione in una società a responsabilità limitata ad una società lussemburghese; quest’ultima, alcuni mesi dopo, rivendeva tali quote ad una S.p.A., società italiana di cui il contribuente deteneva il 90 per cento delle quote, ad un prezzo notevolmente superiore. Quest’ultima società rivendeva nuovamente le menzionate partecipazione per un corrispettivo esiguo, registrando una minusvalenza deducibile dal reddito di impresa.
Secondo la ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria, con tale operazione, era stata realizzata una plusvalenza da cessione che, essendo stata imputata alla società lussemburghese, era stata sottratta alla tassazione nel territorio italiano; alla plusvalenza non assoggettata ad imposizione si aggiungeva l’ingente minusvalenza dedotta dall’acquirente italiano intermedio, direttamente riconducibile agli originari alienanti.
A seguito del rigetto del ricorso del contribuente, lo stesso ricorreva infruttuosamente in appello, lamentando come ad avere incassato la plusvalenza fosse stato il soggetto lussemburghese. Nello specifico, però, la Commissione regionale sosteneva che la contestata elusione fiscale si fosse verificata.
Ricorreva quindi il contribuente per la cassazione della sentenza della CTR, sviluppando numerosi motivi di ricorso.
Per quanto di interesse, il ricorrente lamentava, sia sotto il profilo di omessa pronuncia che di violazione e falsa applicazione dell’articolo 37-bis (vigente ratione temporis) del d.P.R. 29 settembre 1973 n.600, il fatto che il giudice di appello avesse applicato la disposizione antielusiva pur in difetto dei suoi presupposti. Il ricorrente, infatti, ribadiva che l’operazione riguardava soggetti terzi, e che pertanto non aveva conseguito direttamente alcun vantaggio fiscale.
La Corte non avrebbe spiegato l’imputabilità diretta al contribuente della plusvalenza; né avrebbe giustificato l’assenza di valide ragioni economiche dell’operazione, salvo limitarsi a raffrontare gli importi tra la prima e la seconda cessione.
Il Collegio di Legittimità adito con la pronuncia in commento rigettava le menzionate doglianze del ricorrente sulla base della seguente analisi interpretativa.
A parere della Suprema Corte, si considerano aventi carattere abusivo quelle operazioni che, pur formalmente rispettose del diritto interno o comunitario, sono realizzate allo scopo di ottenere benefici fiscali contrastanti con la ratio delle norme che introducono il tributo o prevedono esenzioni o agevolazioni, con la conseguenza che il carattere abusivo è escluso solo da valide ragioni extra fiscali.
Sussiste un principio generale antielusivo sia per quanto concerne i tributi armonizzati (ricavabile anzitutto dalla causa C-255 Halifax e poi consolidatosi nei casi 3M Italia, Part Service) sia all’interno del nostro ordinamento, derivante, prima ancora che dall’esistenza di una specifica disposizione di legge in tal senso (oggi incardinata dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000 n. 212), dall’applicazione dell’articolo 53 della Costituzione (Cfr. Cass. SS. UU. 30057/2008).
Nello specifico, i giudici di Legittimità hanno ritenuto che un’operazione economica possa integrare gli estremi del comportamento abusivo qualora ponga, quale elemento predominante della transazione, lo scopo di ottenere vantaggi fiscali.
Di conseguenza, il divieto di comportamenti abusivi non rileva se quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta.
In presenza di una fattispecie elusiva, il negozio posto in essere risulterà inopponibile all’Amministrazione finanziaria, relativamente al vantaggio fiscale indebito di cui il contribuente ha beneficiato (Cfr. Cass. 3938/2014).
Inoltre, con riferimento all’onere della prova, occorro specificare che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo al fine di raggiungere quel risultato fiscale. In altri termini, spetta al Fisco l’onere di spiegare perché la forma giuridica impiegata abbia carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa; diversamente, ricade sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni strutturate in quel modo.
Dovrà poi indagarsi se la soluzione alternativa fornita dall’Amministrazione finanziaria per la realizzazione dell’operazione sia pienamente fungibile con quella adoperata dai contribuenti (Cfr. Cass. 5155/2016, Cass. 4604/2014).
Tale regime – che nell’ordinamento comunitario è imposto dal principio di proporzionalità – costituisce diretta applicazione dei principi di libertà d’impresa e di iniziativa economica (art. 42 Cost.), oltre che del principio di piena tutela giurisdizionale del contribuente (art. 24 Cost.).
L’applicazione di tali principi impone, dunque, di trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto nell’ambito delle attività di impresa.
Alla luce di ciò, il carattere abusivo deve escludersi quando sia individuabile una compresenza non marginale di ragioni extrafiscali, che non necessariamente si identificano in una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente.
Pertanto, in tema di prova, l’attenzione deve essere incentrata sulle modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché sulla loro mancata conformità a una normale logica di mercato.
Il giudice di appello, a giudizio della Cassazione, ha fatto buon governo dei menzionati principi, rilevando l’interposizione del soggetto lussemburghese, che ha consentito il mancato assoggettamento in Italia della plusvalenza, e l’ulteriore vantaggio fiscale indebito derivante dalla deduzione della minusvalenza all’atto della ulteriore rivendita delle partecipazioni, senza che il contribuente abbia dimostrato valide ragioni extrafiscali che giustificassero la mancata vendita diretta agli acquirenti residenti nello stato italiano.