La Suprema Corte rigetta il ricorso promosso da una banca, che aveva tempo addietro chiesto l’ammissione allo stato passivo fallimentare di una società garante – mediante fideiussione ed ipoteca – di un debito del proprio socio (risultato poi controllante di fatto o “tiranno”) contratto con lo stesso istituto di credito.
In primo ed in secondo grado, la domanda della banca è stata respinta, soprattutto in considerazione del fatto che la fideiussione prestata dalla società – nella persona della figlia del socio debitore – doveva considerarsi atto in palese conflitto d’interessi ed estraneo all’oggetto sociale: in particolare, tale estraneità risultava opponibile alla banca (cfr. art. 2384 bis c.c., attualmente non più vigente), giudicata in mala fede per conoscibilità della medesima mediante l’esame dell’atto costitutivo e dello statuto.
Nel ricorso per cassazione l’istituto di credito ha domandato l’annullamento della pronuncia di appello sulla base, essenzialmente, di tre motivi inerenti alla violazione e falsa applicazione dell’art. 2384 bis c.c. e al vizio di motivazione sulla ritenuta mala fede della banca. I giudici di legittimità hanno respinto tutte le doglianze della banca ricorrente: particolare risalto è stato dato sia alla valutazione (astratta e concreta) dell’oggetto sociale come risultante dall’atto costitutivo e dallo statuto, sia all’asserito interesse sociale al buon fine dell’operazione creditizia, in quanto tesa al rifinanziamento del gruppo per intraprendere nuove attività. Precisa la Corte che non è stata fornita in giudizio da parte del ricorrente alcuna prova adeguata al fine di sostenere le proprie tesi difensive: non essendo in presenza di rapporti infragruppo, ma tra socio e società, la banca avrebbe, quindi, dovuto rendersi conto dell’estraneità all’oggetto sociale di operazioni che impegnassero il patrimonio sociale «per finanziare o pagare debiti del singolo socio».
Non risulta, alla luce delle precedenti considerazioni, fondata neppure la doglianza riguardante il vizio di motivazione nel giudizio di mala fede, poiché – al di fuori del problema della necessità di un quid pluris oltre alla conoscibilità dell’estraneità all’oggetto sociale (si veda, in proposito, Cass. 25296/2013), dato dalla “consapevolezza” dell’estraneità (Cass. 23174/2006) o della potenziale dannosità dell’atto (Cass. 7293/2009) – l’istituto di credito non poteva in alcun modo essere considerato in buona fede, tenuto conto dell’«anomalia» delle operazioni sopra citate.