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Considerazioni sulla legittimità fiscale delle operazioni di acquisto di azioni proprie previamente rivalutate

23 Febbraio 2021

Irene Pellecchia, counsel, Luca Bazzoni, senior associate, Chiomenti

1. Premessa

Con la Sentenza del 4 gennaio 2021, n. 30 (la “Sentenza 30/2021”) la Commissione Tributaria Regionale del Veneto ha negato che un’operazione di acquisto di azioni proprie, previamente rivalutate dal socio cedente, costituisca una condotta abusiva ai sensi dell’art. 10-bis della Legge 27 luglio 2000, n. 212 (“L. 212/2020”)[1], e del pro tempore vigente art. 37 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, annullando così le contestazioni mosse dall’Agenzia delle entrate, secondo cui la sequenza negoziale prescelta dal contribuente avrebbe avuto il solo fine di evitare l’assoggettamento al più gravoso regime impositivo dei redditi di capitale.

Nel caso oggetto della Sentenza 30/2021, il socio di maggioranza di una holding di partecipazioni si avvaleva della facoltà, ai sensi degli artt. 5 e 7 della L. 28 dicembre 2001, n. 448, di rivalutare le partecipazioni detenute. Successivamente, la holding procedeva all’acquisto di azioni proprie per un importo pari a circa il 14% delle azioni detenute dal socio di maggioranza (rimasto tale anche ad esito dell’operazione) e, da ultimo, veniva incorporata in un’altra società.

L’Agenzia delle entrate contestava la natura abusiva della sequenza negoziale posta in essere dal contribuente, nell’assunto che la stessa costituisse un’operazione di leveraged cash out, ossia un’operazione di compravendita di partecipazioni realizzata, in ultima istanza, attingendo alle riserve di utili della società emittente.

Nello specifico, l’Agenzia delle entrate riteneva che il contribuente, mediante la modalità prescelta, avesse conseguito un indebito vantaggio fiscale rispetto al caso in cui avesse fatto ricorso ad ipotesi ritenute più fisiologiche, quali il recesso o la distribuzione di dividendi da parte della società. Secondo le argomentazioni dell’Ufficio, infatti, la rivalutazione delle partecipazioni e la loro successiva cessione sarebbe stata realizzata al solo scopo di evitare di assoggettare a tassazione somme che, altrimenti, sarebbero state soggette ad un maggior onere impositivo[2].

In altri termini, ad avviso dell’Agenzia delle entrate, per effetto della rivalutazione del valore fiscale delle partecipazioni cedute, il socio controllante avrebbe conseguito un vantaggio fiscale indebito, realizzando un reddito diverso nullo, a fronte di un reddito di capitale (imponibile secondo le ordinarie aliquote progressive IRPEF), che avrebbe conseguito qualora il relativo disinvestimento fosse stato posto in essere attraverso una “figura negoziale tipica”.

Sia la Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, sia la Commissione Tributaria Regionale del Veneto (che ha reso la sentenza in rassegna), hanno respinto le contestazioni dell’Ufficio.

2. La Sentenza 30/2021 e il panorama giurisprudenziale di riferimento

Con la Sentenza 30/2021, la Commissione Tributaria Regionale del Veneto, una volta appurata la conformità della condotta del contribuente agli ordinari strumenti messi a diposizione dall’ordinamento tributario, ha confermato la legittimità dell’operazione contestata, in ragione del generale principio secondo il quale gli ordinamenti tributari consentono “di regolare i propri affari nel modo fiscalmente meno oneroso”.

In specie, secondo i Giudici, sebbene la scelta effettuata dal contribuente abbia indubbiamente comportato un risparmio d’imposta, quest’ultimo non può considerarsi né illecito né indebito, in quanto non deriva dall’aggiramento di una disposizione normativa (requisito necessario dell’abuso del diritto), bensì dall’applicazione di un’opzione perfettamente lecita, messa a disposizione dal legislatore fiscale e posta dallo stesso “su un piano di pari dignità” con le altre alternative[3].

La Commissione Tributaria Regionale del Veneto ha inoltre rilevato che, nel caso di specie, sussistevano valide ragioni economiche in quanto le operazioni alternative individuate dall’Ufficio (i.e., la distribuzione di dividendi o il recesso del socio)[4] non avrebbero comportato alcun vantaggio né per il socio, né per la società, ma, al contrario, solamente un maleficio costituito dal maggior onere tributario. Peraltro, come evidenziato dai giudici di merito, la distribuzione degli utili non sarebbe stata economicamente preferibile all’acquisto delle azioni proprie, in quanto, comportando l’obbligo di distribuzione dell’utile a tutti i soci, avrebbe arrecato un pregiudizio alla situazione finanziaria della società, con conseguente contrazione della liquidità disponibile.

La Sentenza 30/2021 conferma quindi che l’operazione di acquisto di azioni proprie non può considerarsi un’operazione che “dissimula” la distribuzione di dividendi o un recesso tipico del socio, in quanto si tratta di operazioni tra loro intrinsecamente differenti.

La distribuzione di dividendi, infatti, richiede necessariamente l’utilizzo di una riserva di utili, cosa che potrebbe non verificarsi in caso di acquisto di azioni proprie[5]. Inoltre, come condivisibilmente argomentato dalla Sentenza 30/2021, possono esservi ragioni organizzative e finanziarie che spingono la società a non deliberare una distribuzione di utili a tutti i soci, ritenendo invece preferibile acquistare le azioni di un singolo socio che intende procedere a un disinvestimento.

Il recesso tipico ex art. 2437 c.c., invece, oltre a poter essere esercitato solo in presenza di presupposti specifici e tassativamente stabiliti dalla legge o convenzionalmente dalla società, presuppone l’annullamento delle azioni oggetto di rimborso a favore del socio uscente. L’acquisto di azioni proprie, al contrario, non è generalmente seguito dalla riduzione del capitale sociale[6].

La pronuncia si inserisce peraltro nell’alveo di un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di merito, volta a riconoscere la legittimità delle operazioni di rivalutazione delle partecipazioni seguite dall’acquisto di azioni proprie da parte della società emittente e ad escludere la riqualificazione delle stesse in ipotesi di recesso tipico ex art. 2437 c.c..

A tale proposito, giova infatti rilevare che la giurisprudenza di merito aveva già riconosciuto che l’acquisto di azioni proprie non può essere considerata un’operazione civilisticamente alternativa al recesso, in quanto, mentre, ai sensi dell’art. 2437 c.c., il recesso è una facoltà che il socio ha il diritto di esercitare unilateralmente, alle sole condizioni tipizzate dal legislatore, ovvero, stabilite pattiziamente nell’atto costitutivo, l’acquisto di azioni proprie costituisce un negozio di natura privatistica (in specie, una compravendita) tra due soggetti distinti (cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza, sent. 12 ottobre 2017, n. 69).

Pertanto, quantomeno con riferimento ai casi in cui il diritto di recesso non può essere esercitato ai sensi delle norme codicistiche, nessuna contestazione abusiva potrebbe essere legittimamente sollevata in proposito dall’Agenzia delle entrate[7].

Il principio secondo cui l’acquisto di azioni proprie e il recesso del socio rappresentano due fattispecie ben distinte sia ai fini civilistici sia fiscali trova risconto anche in ulteriori pronunce giurisprudenziali che negano la possibilità di accomunare fiscalmente due discipline aventi presupposti e finalità differenti[8].

Sulla base di tale orientamento giurisprudenziale, pertanto, l’art. 47, comma 7, TUIR dovrebbe trovare applicazione solo nelle ipotesi in cui l’acquisto di azioni proprie si inserisca quale atto propedeutico, in una sequenza procedimentale unica e pressoché contestuale, alla riduzione del capitale sociale (i.e., le operazioni di recesso conformi all’art. 2437 c.c.). Al contrario, tale disposizione normativa non può trovare applicazione quando l’acquisto di azioni proprie non costituisce parte di un’operazione unitaria volta alla riduzione del capitale sociale, ovvero all’annullamento delle azioni acquistate.

Tale conclusione appare peraltro coerente con i chiarimenti forniti dalla stessa Agenzia delle entrate nella Circolare n. 26/E del 16 giugno 2004, ove è stato precisato che “l’art. 47, comma 7, del Tuir fa riferimento al recesso tipico che comporta l’annullamento delle azioni o quote”.

Invero, proprio con riferimento all’applicabilità della disciplina della rivalutazione delle partecipazioni, il Comitato Consultivo per l’applicazione delle norme antielusive aveva chiarito che “Detta rivalutazione non può essere giudicata elusiva, in quanto si concreta nell’applicazione di una specifica norma di legge, di carattere agevolativo, per cui il pagamento di un carico tributario inferiore a quello che risulterebbe dall’applicazione del regime ordinario non può essere considerato elusivo”[9].

Più recentemente, nell’ambito di una sequenza negoziale analoga a quella oggetto della Sentenza 30/2021, la Commissione Tributaria Provinciale di Padova (sent. 20 febbraio 2020, n. 58), escludendo che la cessione di azioni proprie, previamente rivalutate dai soci cedenti, possa integrare i presupposti dell’abuso del diritto, aveva inoltre affermato che, in ossequio all’art. 10-bis, comma 4 della L. 212/2020, è sufficiente che il contribuente scelga tra una delle opzioni poste sullo stesso piano dal legislatore fiscale per non incorrere in contestazioni abusive, non essendo invece necessario che lo stesso consegua parimenti un vantaggio economico o organizzativo, “che pertanto non deve essere investigato dal giudice adito”[10][11].

A parere di chi scrive, la diversità tra le operazioni di acquisto di azioni proprie e recesso tipico troverebbe conferma anche sulla base di un’interpretazione sistematica, che muova dall’esame di diverse disposizioni.

In particolare, in tale prospettiva, si rileva che con riferimento alla disciplina dell’Aiuto alla Crescita Economica (“ACE”), l’art. 5, comma 4 del D.M. 3 agosto 2017, stabilisce, come meglio chiarito nella relativa relazione illustrativa, che, sebbene tutte le acquisizioni di azioni proprie determinino una riduzione del patrimonio netto della società emittente, solamente quelle realizzate nell’ambito di una riduzione del capitale sociale acquisiscono un’efficacia definitiva ai fini della determinazione della connessa agevolazione fiscale.

Del medesimo tenore risultano anche le disposizioni recate in materia dell’Imposta sulle transazioni finanziarie, dove l’art. 15, comma 1, lett. d), del D.M. 21 febbraio 2013 esclude gli acquisti di azioni proprie dall’ambito di applicazione di tale imposta “solo se finalizzato all’annullamento delle stesse. Qualora l’annullamento sia deliberato successivamente all’acquisto di azioni proprie, l’acquisto è soggetto ad imposta, in quanto, al momento in cui è stato realizzato, non era finalizzato all’annullamento delle azioni”.

Anche in base alle citate disposizioni normative, quindi, l’acquisto di azioni proprie è trattato come un’operazione economica del tutto autonoma, salvo che – in linea con i chiarimenti forniti con la Circolare n. 26/E del 16 giugno 2004 – non sia effettivamente propedeutica e pressoché contestuale ad una riduzione del capitale sociale. A parere di chi scrive, infatti, solo in tale ultima ipotesi il vantaggio fiscale connesso con la rivalutazione potrebbe risultare indebito, posto che l’annullamento delle azioni del socio recedente comporta la definitiva risoluzione del vincolo negoziale tra società e socio e per l’effetto verrebbe tradita la ratio sottostante alla norma agevolativa che, come noto, risiede nella volontà del legislatore di favorire la circolazione delle partecipazioni societarie e non nel loro annullamento[12].

Occorre difatti chiarire che in caso di acquisto di azioni proprie a cui non segue il relativo annullamento, il diritto di voto è per espressa previsione normativa (solo) sospeso (art. 2357-ter, comma 2, c.c.) e la riduzione del patrimonio ad esse connesso non è definitivo, potendosi “ripristinare” laddove le azioni proprie vengano successivamente cedute ad altri soci o a terzi. Inoltre, nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie in portafoglio rilevano sia ai fini del quorum costitutivo, sia deliberativo[13]. Di conseguenza, le azioni proprie acquistate e non annullate continuano civilisticamente ad esistere e possono peraltro dare origine anche in futuro a vicende fiscalmente rilevanti. Non pare quindi possibile assimilare dette operazioni ad un recesso tipico che, al contrario, determina necessariamente l’estinzione della partecipazione precedentemente rivalutata.

3. Conclusioni

La Sentenza 30/2021, pur ponendosi nel solco già tracciato dalla giurisprudenza di merito, ha il pregio di dare concreta attuazione all’art. 10-bis, comma 4 della L. 212/2000, nella parte in cui sancisce il principio di libertà di scelta del contribuente tra i diversi regimi opzionali offerti dalla legge, seppur comportanti carichi fiscali diversi.

Laddove, infatti, come sancito dai giudici della Commissione Tributaria Regionale del Veneto, il contribuente si limiti a scegliere tra le diverse opzioni previste dalla legge, non si configura alcun aggiramento o non corretta applicazione di disposizioni normative o di principi dell’ordinamento e, pertanto, nessuna condotta abusiva può considerarsi realizzata. È lo stesso legislatore, infatti, a “porre su un piano di pari dignità” diverse alternative, rimettendo al contribuente la libertà di scegliere quella a lui più favorevole.

Occorre anzi osservare come, nella sentenza in commento, i giudici ritengano tale operazione giustificata anche sotto un profilo economico proprio per il fatto che le operazioni alternative individuate dall’Ufficio avrebbero avuto quale unica conseguenza quella di determinare un aggravio impositivo e come i giudici abbiano implicitamente affermato che le operazioni di acquisto di azioni proprie, previamente rivalutate, sono perfettamente legittime anche qualora – come nel caso in esame – non vi sia un effettivo disinvestimento o un cambio di controllo[14].

La Sentenza 30/2021 pare, pertanto, rappresentare un segno di evoluzione in direzione del riconoscimento di tale principio e della piena legittimità delle operazioni di acquisto di azioni proprie.

 

[1] Come noto, ai sensi dell’art. 10-bis, comma 1, della L. 212/2020, affinché un’operazione possa essere considerata abusiva è necessario che l’Amministrazione finanziaria dimostri la sussistenza, congiuntamente, dei seguenti presupposti: (i) la realizzazione di “(…vantaggi fiscali indebiti”, ossia, in contrasto con “le finalità delle norme fiscali o con principi dell’ordinamento tributario”; (ii) l’assenza di “sostanza economica” delle operazioni realizzate; e (iii) la mancanza di “valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale”. La circostanza che si realizzi un vantaggio fiscale, pertanto, non può essere in quanto tale un elemento sufficiente a rendere legittima una contestazione da parte dell’Amministrazione finanziaria (cfr. Relazione illustrativa al D. Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, norma con la quale è stato introdotto l’art. 10-bis all’interno della L. 212/2000).

[2] Invero, la rivalutazione delle partecipazioni rileva ai soli fini della determinazione dei redditi diversi, mentre il valore “rideterminato” non può essere utilizzato ai fini della determinazione dei redditi di capitale, quali i proventi derivanti dal rimborso di partecipazioni a seguito di recesso o esclusione del socio o della liquidazione della società (cfr. Circolari n. 12/E del 31 gennaio 2002 e n. 10/E del 16 marzo 2005).

[3] La giurisprudenza di legittimità è peraltro pacifica nel ritenere che contestare il diritto di scelta tra diverse soluzioni implicherebbe una sindacabilità delle scelte imprenditoriali, con contestuale violazione del principio di libertà delle iniziative economiche costituzionalmente garantito (Cass., sent. 6 dicembre 2018, n. 31613).

[4] La CTR Veneto non fornisce tuttavia alcuna considerazione in merito alla non corretta equiparazione tra l’acquisto di azioni proprie e il recesso parziale del socio; l’infondatezza di una tale equiparazione risulta in ogni caso confermata dalla precedente giurisprudenza di merito in materia (vd. infra).

[5] Peraltro, è importante rilevare che recentemente la Corte di Cassazione ha sancito che non configura abuso del diritto un’operazione caratterizzata dalla cessione di partecipazioni rivalutate, il cui corrispettivo veniva versato al socio cedente attraverso risorse derivanti da utili della società ceduta, la cui distribuzione (già deliberata) avveniva poco giorni dopo la cessione delle partecipazioni stesse (Cass., ord. 6 novembre 2020, n. 24839).

[6] Secondo autorevole dottrina, (cfr. (a cura di) G. Maisto, La tassazione dei dividendi intersocietari, 2011, Giuffrè, pag. 112 ss. e D. Stevanato, “Le “ragioni economiche” nel dividend washing e l’indagine sulla “causa concreta” del negozio: spunti per un approfondimento”, in Rassegna Tributaria, n. 1/2006, pag. 309 ss.) l’eventuale breve lasso temporale intercorso tra l’acquisto delle azioni proprie e l’eventuale annullamento delle stesse potrebbe, tuttavia, indurre l’Agenzia delle entrate a ritenere che tali operazioni siano collegate e preordinate a mascherare un’operazione di recesso tipico e, pertanto, essere considerate abusive.

[7] Nello stesso senso, P. Formica – C. Guarnaccia, “Acquisto di azioni proprie preceduto da rivalutazioni: non c’è abuso del diritto” in Corriere Tributario, n. 2/2021, pag. 184 ss..

[8] Cfr. CTR Piemonte 17 ottobre 2017, n. 1463, secondo cui è “indubbio che il recesso del socio e la compravendita di azioni proprie hanno una specifica disciplina e differenti caratteristiche e finalità. Non appare dunque fondata quanto alla disciplina fiscale, in assenza di una normativa ad hoc, una loro assimilazione ed una loro completa e scontata equivalenza”. Nello stesso senso, CTP Napoli 13 marzo 2014, n. 6551, la quale precisa che “per aversi recesso tipico, l’annullamento delle azioni che faccia seguito all’acquisto da parte della società debba configurarsi come atto di una sequenza procedimentale unica”.

[9] Cfr. Parere 20 ottobre 2003, n. 16.

[10] Una considerazione analoga è stata espressa anche da Assonime nella circolare 18 dicembre 2018, n. 27, secondo cui “Se dunque, l’operazione è conforme al regime agevolativo invocato, nel senso che non ne viola i presupposti, l’operazione deve ritenersi non abusiva; e ciò senza ricercare altre particolari ragioni economiche extrafiscali che la giustifichino, in base ad un ipotetico modello di confronto. In sostanza, anche l’aver scelto (per raggiungere un determinato obiettivo) una specifica operazione o una pluralità di operazioni in luogo di altre solo per ottenere un risparmio d’imposta o, comunque, per non incorrere negli oneri fiscali che le altre alternative avrebbero presentato, è di per sé una giustificazione sufficiente a legittimare la scelta del contribuente purché non risultino “violati” i principi dell’ordinamento fiscale e la ratio del regime fiscale di cui viene fatta applicazione”.

[11] In tal senso, cfr. CTP di Padova, sent. 22 febbraio 2019, n. 48, (con la quale è stato affermato che “qual volta il contribuente adotta soluzioni legittime alle quali l’ordinamento fiscale riconosce un minor carico fiscale, dette soluzioni non possono essere censurate come abuso del diritto. L’art. 10/bis, infatti, al comma 4 dice espressamente che resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”). Idem, CTP di Treviso, sent. 11 aprile 2018, n. 144 e, id., sent. 19 marzo 2019, n. 72. In dottrina, cfr. M. Antonini – E. Pavesi, “Rivalutazione delle partecipazioni e riorganizzazioni societarie: perplessità sulle interpretazioni dell’Agenzia”, in il fisco, n. 38/2019, pag. 3607 ss.

[12] Cfr., tra i tanti, C. Bonazza – R. Cordeiro Guerra, “Rivalutazione delle partecipazioni e successiva cessione delle quote: la Cassazione conferma la legittimità del risparmio d’imposta nei casi di corrispettivo pagato con dividendi provenienti dalla società ceduta”, in Rivista di Diritto Tributario, supplemento online, 11dicembre 2020; L. Rossi – M. Ampolilla – A. Tardini, “La rivalutazione delle partecipazioni nelle operazioni di LBO sotto la lente dell’abuso del diritto”, in Bollettino tributario n. 3/2021, pag. 166 ss.

[13] Cfr. Risposta n. 135 del 20 maggio 2020.

[14] Sul punto, si segnala che in recenti documenti di prassi dell’Agenzia delle entrate, infatti, in caso di operazioni di leveraged cash out , il vantaggio fiscale conseguito deve considerarsi indebito, e le operazioni poste in essere devono essere considerate prive di sostanza economica, nei casi in cui il socio cedente mantenga una partecipazione di controllo o particolari poteri nella società target (cfr. Principio di diritto n. 20 del 23 luglio 2019; Risposta n. 89 del 8 febbraio 2021). Al contrario, in caso di cessione delle partecipazioni rivalutate ad altri soggetti (siano essi altri soci o soggetti terzi) che comporti un effettivo disinvestimento o comunque determini una modifica dei rapporti di controllo, non può essere contestato alcun vantaggio fiscale indebito, in quanto, verificandosi una chiara modifica della posizione giuridica dei soggetti coinvolti, tale condotta “appare operazione fisiologica per la fuoriuscita definitiva dalla compagine sociale” (Risposte n. 242 del 5 agosto 2020 e n. 4 del 5 gennaio 2021). Tale principio pare peraltro costituire un criterio già condiviso a livello sistematico dall’Agenzia delle entrate a partire dalla Circolare n. 6/E del 30 marzo 2016, laddove ritiene che le operazioni di leveraged buy-out possano considerarsi pienamente legittime se consentono, in linea con l’articolo 2501-bis c.c., un effettivo cambio di controllo e l’ingresso di nuovi soggetti nella compagine sociale, con l’effetto che le stesse, pertanto, non possano essere considerate operazioni meramente circolari.

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