“Non vi è conversazione più noiosa di quella in cui tutti concordano”,
M. de Montaigne.
“Non vi è consiglio di amministrazione più inefficace di quello in cui tutti concordano”, parafrasano i professori Piergaetano Marchetti, Gianfranco Siciliano e Marco Ventoruzzo, docenti nell’Università Bocconi ed autori del recentissimo paper in oggetto, che si ripubblica in allegato.
Lo studio compiuto evidenzia come, in una più ampia prospettiva – pensando cioè ai Commonsense Principles of Corporate Governance ed al proxy access, negli States, come pure alla Mitbestimmung, in Germania – risulti di importanza sempre crescente la nomina di amministratori capaci di farsi portatori, all’interno del Board, delle istanze dei differenti stakeholders, nonché di contribuire ad una efficace discussione e proficua dialettica in virtù del loro eterogeneo background tanto in termini di formazione quanto di attività professionale.
Di qui, a dispetto della difficoltà di individuazione dei dati inerenti alle decisioni endoconsiliari, l’interesse preminente di compiere una valutazione empirica circa il dissenso manifestato in detti organi, mediante voti contrari rispetto a quelli della maggioranza, ovvero mediante dimissioni in contrasto con la gestione sociale. Ebbene, proprio dalla ricerca, dal reperimento, dalle rilevazioni ed analisi condotte in detto studio, unico nel nostro Paese, si evince che i consiglieri maggiormente dissenzienti sono espressione delle minoranze, degli investitori istituzionali. Non solo: si osserva che il dissenso è pratica sempre più frequente proprio dal 2011, anno in cui il numero di amministratori scelti dalle minoranze ha visto un deciso incremento, grazie all’introduzione del voto di lista.
Anzitutto, con riferimento alla “vexata quaestio” della coincidenza delle figure di Presidente e CEO, l’analisi empirica registra un dissenso meno ampio quando detta coincidenza non si verifica. Venendo, poi, alla correlazione rispetto a precise, selezionate variabili, diversamente da altri scritti riferiti ad altri contesti nazionali, si rileva che essa non è rinvenibile in relazione ad età, education, genere o dimensioni complessive del Board. Essa è, invece, rinvenibile e positiva rispetto alla remunerazione di ciascuno e negativa rispetto al numero di incarichi che tali amministratori ottengono. In altre parole, gli amministratori dissenzienti ottengono compensi superiori, ma impegnano le proprie energie in un numero minore di società.
Per quanto concerne i temi oggetto di opposizione da parte dei dissenting directors, essi fanno sentire la propria voce soprattutto quando le performance sociali non sono positive e rispetto ad operazioni quali finanziamenti ed informativa societaria, fusioni ed operazioni con parti correlate.
E pure il mercato riflette le dinamiche del consiglio, dato che si rinviene una variazione del prezzo delle azioni della società in cui detto fenomeno si registra, perlomeno in un orizzonte short term.
L’indagine si caratterizza dunque per profondità e vastità: non si limita, infatti, a considerare i soli amministratori indipendenti, ma si estende anche ai non indipendenti, così suggerendo un interessante confronto tra essi.
In conclusione, gli autori sollevano due questioni di portata sistematica.
La prima: l’opportunità di incrementare la tracciabilità dell’iter decisionale interno alle riunioni del Board e di suggerire una disclosure nella Relazione sul governo societario ex art. 123-bis t.u.f. circa le modalità di formazione della maggioranza e le ragioni di voti contrari e dimissioni, così dettagliando la vaghissima (benché largamente utilizzata) locuzione “ragioni personali”.
La seconda: il legame, fortissimo, rilevato tra il dissenso e la disciplina della responsabilità, soprattutto in un contesto in cui la business judgement rule e le sanzioni amministrative delle Autorità di Vigilanza assumono un ruolo che potrebbe sinanco incidere sulla maggiore o minore propensione all’assunzione di rischi che conseguono alle decisioni sociali.