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Giurisprudenza

Conto corrente collegato alla società: il socio danneggiato deve esercitare l’azione sociale di responsabilità

9 Luglio 2013

Avv. Leonardo Serra

Corte d’Appello di Napoli, 21 novembre 2012

Nel caso di un contratto di conto corrente cointestato ai soci amministratori di una società in nome collettivo collegato all’attività d’impresa gestita in comune, il socio che si ritiene leso dai comportamenti illegittimi tenuti dall’altro socio per operazioni bancarie effettuate in conto corrente non può esperire l’azione di rendiconto ex art. 2261 c.c., ma deve esercitare l’azione di responsabilità prevista dal combinato disposto ex art. 2043 c.c. e dall’art. 2395 c.c..

Fatto

Sono questi i principi sanciti nella sentenza n. 5299 del 21 novembre 2012 pronunciata dalla Corte d’Appello di Napoli in una vicenda che trae origine da una controversia insorta tra due fratelli, soci di due società in nome collettivo e contitolari di un conto corrente bancario a firme disgiunte su cui confluivano i risparmi ed i proventi dell’attività d’impresa gestita in comune. Uno dei soci si doleva del fatto che l’altro aveva effettuato, a sua insaputa, una serie di operazioni in conto corrente che si erano tradotti in prelevamenti, emissione di assegni ed un investimento in un titolo.

Il socio chiamava pertanto in giudizio avanti al Tribunale di Napoli l’altro per vederlo condannare al pagamento di metà delle somme corrispondenti ai prelievi effettuati in conto corrente, nonché il 50% del valore del titolo oggetto dell’investimento. Nel costituirsi in giudizio, l’altro socio eccepiva di gestire insieme al fratello un’attività d’impresa svolta in forma societaria e che gli importi depositati sul conto corrente erano stati utilizzati proprio per far fronte alle spese derivanti dall’esercizio dell’attività.

Il Tribunale di Napoli respingeva le domande formulate dal socio che proponeva dunque appello, lamentando il fatto che il giudice del primo grado non aveva considerato che sul conto corrente erano confluiti non solo i proventi dell’attività gestita in comune dai fratelli, ma anche i risparmi delle rispettive famiglie. L’appellante eccepiva inoltre che l’altro socio non aveva provato o chiesto di provare l’utilizzo effettivo delle somme prelevate, essendosi limitato ad affermare che si trattava di somme necessarie per l’attività. L’altro socio avrebbe dunque dovuto provare l’utilizzo specifico delle somme prelevate dal conto corrente che l’appellante riteneva essere state impiegate per il soddisfacimento degli scopi personali dell’appellato. Per l’appellante non solo doveva pertanto ritenersi legittima l’istanza circa il rendiconto delle operazioni effettuate dall’altro socio, ma il Tribunale di Napoli aveva errato nell’invertire l’onere della prova, omettendo di considerare che era il convenuto odierno appellato a dover dimostrare l’utilizzo di dette somme per scopi inerenti l’esercizio dell’attività d’impresa. Si costituiva in giudizio l’appellato, il quale eccepiva, in via preliminare, il fatto che l’appellante aveva introdotto deduzioni nuove e pertanto inammissibili riguardanti l’asserita confluenza sul conto corrente dei risparmi dei soci e delle loro famiglie. L’appellato replicava, in ogni caso, nel merito, evidenziando che il conto corrente era intestato ad entrambi i soci e veniva utilizzato per le operazioni delle due società in nome collettivo gestite dai fratelli. I movimenti effettuati in conto corrente erano dunque collegati allo svolgimento dell’attività d’impresa che veniva gestita attraverso una società di fatto o attraverso gli schemi societari delle due società in nome collettivo. Per effetto di detto collegamento, l’appellato eccepiva non solo che l’appellante avrebbe avuto al massimo diritto alla metà degli utili realizzati dalla società al netto dei costi d’esercizio, ma il ricorrente avrebbe dovuto altresì esercitare le azioni a sua difesa previste nell’ambito del diritto societario, donde concludeva per il rigetto della domanda.

La Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’impugnazione proposta dal socio, qualificando, in via preliminare, come deduzione nuova vietata ex art. 354 c.p.c. e pertanto inammissibile oltre che contraddittoria e sfornita di prova la circostanza per cui l’appellante aveva contestato il fatto della confluenza sul conto corrente oltre che dei proventi dell’attività imprenditoriale svolta in comune anche i risparmi delle rispettive famiglie.

Inammissibilità dell’azione di rendiconto ex art. 2261 c.c.

Entrando nel merito della questione, la Corte d’Appello di Napoli ha rilevato che l’attore odierno appellante non aveva esperito in corso di causa alcuna azione di rendiconto ex art. 2261 c.c.

Per effetto del rinvio operato dall’art. 2293 c.c. la disciplina prevista in materia di controllo dei soci fissata dall’art. 2261 c.c. per la società semplice trova applicazione alla società in nome collettivo. L’art. 2261 c.c. garantisce, come noto, ai soci che non partecipano all’amministrazione della società il diritto di avere dagli amministratori notizie in merito allo svolgimento degli affari sociali, consultare i documenti relativi all’amministrazione ed ottenere il rendiconto quando gli affari per cui fu costituita la società sono stati eseguiti.

La Corte di Appello di Napoli ha riscontrato che l’attore odierno appellante non aveva formulato nell’atto introduttivo del primo grado di giudizio alcun riferimento all’esercizio dell’azione di rendiconto ex art. 2261 c.c., in quanto lo stesso si era limitato a chiedere la condanna al pagamento della metà dei prelievi effettuati sul conto corrente e del valore del titolo collegato allo stesso conto corrente. La Corte d’Appello di Napoli ha dato atto del fatto che l’appellante aveva indicato nella premessa dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado la richiesta di dare conto delle operazioni effettuate in conto corrente dall’appellato. È purtuttavia vero che l’istanza, così formulata, doveva essere interpretata come una mera richiesta di giustificazione del compimento delle operazioni dirette all’appropriazione illegittima delle somme di denaro spettanti all’appellante.

Per sostenere le proprie conclusioni, la Corte d’Appello di Napoli ha richiamato la funzione tecnica del rendiconto. Pur non essendo un vero e proprio bilancio, il rendiconto è quantomeno un prospetto contabile delle operazioni attive e passive di una società, sia essa di fatto o regolare, relativo all’esercizio annuale. La Corte d’Appello di Napoli ha pertanto osservato che il rendiconto non poteva essere considerato alla stregua di una semplice richiesta di giustificazione di una serie di operazioni soltanto passive effettuate, nel caso di specie, dall’amministratore e socio di fatto della società.

La Corte d’Appello di Napoli ha rammentato inoltre che il diritto al rendiconto è un diritto individuale che può essere azionato, in via esclusiva o in via strumentale, soltanto dal socio non amministratore e non può dunque essere esercitato dal socio amministratore, neppure nel caso in cui quest’ultimo si sia disinteressato dell’amministrazione della società. Nel caso di specie, l’attore odierno appellante aveva dichiarato in sede di interrogatorio libero di essere amministratore unico di una delle società per la cui gestione operativa veniva utilizzato il conto corrente cointestato, con conseguente impossibilità di ricorrere allo strumento del rendiconto. La Corte d’Appello ha comunque evidenziato che in una società di fatto costituita da due soci entrambi amministratori, come quella oggetto del caso in esame, un socio non ha nei confronti dell’altro il diritto al rendiconto, perché può soltanto proporre, quando ne ricorrano i presupposti, l’azione di responsabilità prevista dall’art. 2043 c.c. e dall’art. 2395 c.c..

Azione risarcitoria del socio ed onere della prova

La Corte d’Appello è passata poi ad analizzare i motivi di gravame sollevati dall’appellante riguardanti il regime dell’onere della prova applicato dal giudice del primo grado di giudizio.

Nella prospettazione dell’appellante era infatti il convenuto odierno appellato a dover fornire la prova di aver utilizzato le somme prelevate dal conto corrente cointestato per fini collegati allo svolgimento dell’attività d’impresa e non per scopi personali. La Corte d’Appello ha però respinto tale assunto che sarebbe stato fondato soltanto se le operazioni effettuate sul conto corrente avessero interessato un conto corrente di deposito dei risparmi, per un importo equivalente, di due persone fisiche, aventi quindi ciascuno il diritto alla metà del saldo attivo. La fattispecie in esame ha invece riguardato un conto corrente che fungeva da strumento operativo posto al servizio di un’attività di impresa svolta in forma societaria, la cui operatività presupponeva continui prelievi di denaro per il pagamento dei creditori sociali. La Corte d’Appello ha ritenuto, anche in detto contesto, che l’appellante avrebbe dovuto esercitare le azioni risarcitorie riservate al socio, su cui peraltro incombe l’onere della prova, che ritiene leso il proprio patrimonio personale per effetto del comportamento illecito tenuto dall’altro socio che avrebbe operato per conseguire un arricchimento personale.

La Corte d’Appello richiama, anche in detto contesto, la giurisprudenza di legittimità riguardante il rapporto tra il disposto ex art. 2260 c.c. e gli artt. 2395 c.c. ed art. 2043 c.c. Nell’ambito della disciplina dettata in materia di società di persone, l’art. 2260 c.c. riconosce alla compagine sociale di essere un ente munito di autonoma soggettività che ha a facoltà di agire nei confronti degli amministratori per ottenere il ristoro del danno subito a causa dell’inadempimento di questi ultimi rispetto ai doveri fissati dalla legge e dal contratto sociale. La previsione ex art. 2260 c.c. non esclude tuttavia che ciascun socio possa pretendere il ristoro del pregiudizio subito a causa del comportamento doloso o colposo tenuto dagli amministratori, in ragione di un’applicazione analogica ed in forza del disposto ex art. 2395 c.c. nonché dei principi generali sanciti dall’art. 2043 c.c.


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