Con Sentenza n. 1597 del 15 febbraio 2023, il Consiglio di Stato si è espresso sulla presunzione di vessatorietà di clausole contrattuali di contratti business to business (Contratti B2B).
In particolare, evidenzia il Consiglio di Stato, se il ragionamento presuntivo non rispetta i criteri di gravità e concordanza, non è raggiunta la prova per presunzione semplice del fatto ignoto e non è possibile l’inversione dell’onere della prova a carico del soggetto sanzionato riguardo all’effettiva negoziazione di una clausola di reso.
L’inversione dell’onere della prova, stabilita dall’articolo 34, comma 5 del Codice del Consumo, si applica solo alle relazioni tra impresa e consumatore e non, come nel caso in esame, tra imprese (contratti B2B).
Nei contratti B2B (business to business), ovvero tra operatori commerciali, non si applica la presunzione di vessatorietà della clausola, prevista legalmente solo per i contratti tra professionisti e consumatori (B2C).
La regola che impone al professionista di dimostrare che la clausola è stata oggetto di trattativa specifica vale solo se la controparte è un consumatore e non può essere estesa ai rapporti tra professionisti o alle relazioni asimmetriche tra imprese di terzo contratto.
In questo caso specifico, il Collegio non ha riscontrato i due elementi necessari per l’applicazione della presunzione: la gravità, ovvero la capacità dimostrativa della presunzione in termini di solidità dell’inferenza deduttiva; e la concordanza, ovvero l’armonia del risultato del ragionamento presuntivo con le prove emerse dall’istruttoria.
Infatti, in base alle evidenze documentali non è emersa univocità riguardo all’applicazione della clausola di reso.