Con ordinanza collegiale ex art. 669 terdecies del 12-13 aprile 2012, il Tribunale di Orvieto ha rigettato il reclamo presentato da un istituto di credito avverso provvedimento emesso ex art. 700 c.p.c. su ricorso del Comune di Orvieto. Con l’ordinanza confermata, il Tribunale di prime cure aveva sospeso l’efficacia inter partes di contratti Interest Rate Swap stipulati tra la banca ed il Comune, rilevandone la radicale nullità e accogliendo così le tesi dell’ente ricorrente.
Il Comune di Orvieto è pertanto il primo ente locale ad aver ottenuto un’ordinanza cautelare sospensiva dell’efficacia di contratti derivati per ragioni di radicale nullità.
La pronuncia si segnala però non solo per le caratteristiche soggettive dello stipulante (un Ente territoriale e non un privato, con le importanti conseguenze sulla disciplina applicabile che si svolgeranno infra), ma anche perché, seppur nei limiti del procedimento cautelare, il Tribunale ha costruito una motivazione piuttosto articolata, a tratti innovativa e per certi aspetti inedita, che può spingere ad alcune riflessioni.
I. Il procedimento ex art. 700 e il reclamo
Con ordinanza del 21 ottobre 2011 il Tribunale di Orvieto aveva accolto le doglianze del Comune sia sotto il profilo del fumus boni iuris che sotto quello del periculum in mora.
Quanto al periculum, il Tribunale aveva ritenuto la sussistenza di un danno irreparabile per la strumentalità del congelamento del debito al soddisfacimento di esigenze impellenti di ordine pubblico e l’esistenza di un pregiudizio imminente, in vista della scadenza semestrale dei flussi.
Con riferimento invece al fumus, il Tribunale aveva rilevato l’effettiva impossibilità di considerare il Comune quale operatore qualificato ex art. 30 Reg. Consob 11522/1998, nonostante la sottoscrizione della relativa dichiarazione ad opera del funzionario dell’ente pubblico. Il giudice della cautela aveva invero ritenuto che il Comune fosse privo dell’esperienza necessaria, specialmente in considerazione dell’assenza di precedenti esperienze analoghe in materia di strumenti finanziari derivati.
Il Tribunale aveva quindi concluso per la sussistenza di fondati elementi a sostegno della posizione del Comune ricorrente, sospendendo così gli effetti dei contratti impugnati.
Avverso tale ordinanza l’intermediario ha successivamente proposto reclamo sostenendo gli argomenti che si possono così sintetizzare:
- Quanto al fumus la banca: a) rileva la conformità all’art. 31 Reg. Consob n. 1152/98 della clausola con cui il Comune si dichiarava operatore qualificato, in quanto (come ritenuto dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 12138 del 26.05.2009) la banca è esonerata dall’effettuare particolari indagini e verifiche circa l’effettiva qualifica dell’operatore, sottolineando poi come sia irragionevole sostenere che il Comune non avesse alcuna esperienza dopo che aveva stipulato oltre dieci derivati; b) denuncia un’indebita sovrapposizione tra i diversi piani temporali e tra le eterogenee nozioni di operatore qualificato ex art. 31 Reg. Consob e quella rilevante ai fini MIFID, ben potendo un cliente non professionale ai fini MIFID essere un operatore qualificato ex art. 1152/98; c) contesta la nullità ex art. 30 TUF per mancata indicazione del termine di recesso nei sette giorni, atteso che tale disposizione sarebbe inconciliabile con i contratti derivati sottoscritti dal Comune conclusi diversi anni addietro ed ora passibili di nullità per mancata indicazione di una facoltà esercitabile nel breve termine di sette giorni dalla loro conclusione; d) rimarca infine doversi escludere l’effetto sorpresa tipico delle offerte di collocamento “porta a porta” con conseguente inapplicabilità del c.d. diritto al ripensamento, per essere i contratti de quibus frutto di lunghe trattative.
- Quanto al periculum la Banca: a1) ritiene insussistente il requisito dell’imminenza del pregiudizio, avendo il Comune indicato un importo che corrisponde alla somma tra addebiti maturati e scaduti e quelli futuri, sottolineando poi come il Comune non versasse in situazione di dissesto finanziario, tanto da aver deliberato versamenti in esecuzione di altra transazione con istituto di credito di rilevante importo e infine rimarcando come la bancanon avesse minacciato alcuna azione esecutiva ma, piuttosto, proposto una transazione; b2) osserva come il pregiudizio non sarebbe stato irreparabile in assenza di alcuno specifico vincolo normativo a tutela del credito della banca verso il Comune, talchè l’ente avrebbe potuto determinarsi a non pagare; c2) lamenta infine l’assenza di urgenza a provvedere, considerato che il Comune avrebbe potuto procedere – in luogo di un impegno di spesa – ad un accantonamento a titolo cautelativo del 50% delle somme dovute alla Banca ed il residuo 50% non accantonato avrebbe potuto essere impiegato per l’erogazione dei servizi di competenza comunale che si lamentavano a rischio, allegando in proposito che il Comune neppure aveva indicato a quali servizi essenziali non avrebbe potuto far fronte ove i contratti con la reclamante non fossero stati sospesi.
Il Comune ha ovviamente contestato integralmente le tesi della banca e chiesto la conferma del provvedimento reclamato.
L’ordinanza del Tribunale in composizione collegiale ha confermato integralmente il provvedimento impugnato, sviluppando però taluni ulteriori argomenti nella parte motiva.
II. Il c.d. fumus boni iuris.
Il Tribunale di Orvieto, ravvisa profili di nullità nei contratti oggetto di scrutinio, nullità derivante sia dalla presenza di uno squilibrio genetico tra le posizioni dei contraenti, sia dalla violazione dei doveri di informazione in ordine alle caratteristiche e ai costi del contratto, sia ancora per aver la banca considerato il Comune come operatore qualificato.
Gli aspetti rilevanti e per certi versi innovativi evidenziati dal Tribunale sono:
1. vizio di causa in concreto dei contratti;
2. rinegoziazione dei contratti come deviazione dell’operatività in derivati;
3. caricamento di costi occulti quale anomalia che si riverbera sulla validità del contratto;
4. vizi strutturali dei contratti connessi alla violazione dei doveri di informazione.
1. Vizio di causa in concreto dei contratti
Esaminata la struttura iniziale dei contratti, il Tribunale si è avveduto della presenza di uno squilibrio genetico tra le posizioni dei contraenti, per il motivo che gli swap non presentano un differenziale iniziale nullo, bensì negativo per il Comune. In gergo tecnico, si tratta di derivati non par. Tale vizio comporta secondo il Collegio la mancanza della causa concreta del contratto di swap (ossia dello scopo pratico del negozio) e la sua conseguente nullità insanabile.
Infatti, seppur l’art. 3 Reg. Consob preveda la configurabilità di un contratto derivato non par, tale contratto deve essere riequilibrato attraverso il riconoscimento, al momento della sottoscrizione, di una somma di denaro (c.d. up front) alla parte che accetta le condizioni più penalizzanti.
Il Tribunale tuttavia evidenzia come le posizioni delle parti non siano state ricomposte con un coerente up front riconosciuto al momento della stipula o successivamente per ristabilire condizioni di equilibrio tra le parti. Dalla diversa distribuzione delle probabilità tra i contraenti, non riequilibrata da un adeguato up front, il provvedimento in esame ha tratto la conseguenza che i contratti di swap siano incompatibili con la natura e gli obiettivi dell’ente pubblico, atteso che gli enti locali sono legittimati a sottoscrivere esclusivamente investimenti in derivati a fini conservativi, ossia di copertura.
2. Rinegoziazione dei contratti come deviazione dell’operatività in derivati.
Quasi tutti gli swap oggetto di disamina sono risultati oggetto di rinegoziazione, attività che – ha rilevato il Tribunale – costituisce di per sé una deviazione dalla normale operatività in derivati che un Ente pubblico può compiere in ossequio alle esigenze che sono esclusivamente quelle di copertura. Ciò che infatti può determinare l’ente a rinegoziare il derivato è la necessità di frenare le perdite originate, andando così via via ad allontanarsi sempre di più dalla causa originaria per la quale il primigenio contratto derivato era stato stipulato, ossia la copertura di un rischio di natura sostanziale. In altre parole, l’ente rinegozia il derivato per “finanziare” la propria perdita e non già per esigenze di copertura e questo porta l’operatività in derivati verso finalità più strettamente speculative.
Dunque, la rinegoziazione rende l’operatività in derivati ancor più incompatibile con la natura e gli obiettivi dell’ente pubblico, oltre a mettere in forte dubbio la stessa riconducibilità dei contratti derivati originati da rinegoziazione al tipo sociale sotteso all’elenco di cui all’art. 1 TUF.
3. Caricamento di costi occulti quale anomalia che si riverbera sulla validità del contratto.
Accanto al mancato ricomponimento dello squilibrio dei valori di mercato attraverso il riconoscimento di up front adeguati al differenziale, il Tribunale ha inoltre osservato l’esistenza di costi non esattamente percepibili dall’investitore, costi occulti, destinati a ripercuotersi negativamente su quest’ultimo.
La presenza dei costi impliciti determina – secondo la motivazione dell’ordinanza – violazione del generale dovere di correttezza e buona fede, in quanto l’esistenza di una differenza tra il valore di mercato e il valore di negoziazione dello strumento non viene adeguatamente specificata all’Ente (quale soggetto in capo a cui il disvalore si attesta), e ciò indipendentemente dalla natura effettiva di tale costo.
Pertanto, la Banca è sempre tenuta:
- a esplicitare la commissione qualora tale costo remuneri l’attività commerciale della banca ai sensi della lettera g) dell’art, 61 Reg. Consob;
- a rendere noti al contraente tali costi qualora possano ricondursi al “vero costo” del contratto, senza costituire, o senza costituire integralmente, il margine lucrato dalla banca, per la ragione che essi costituiscono un’alterazione delle naturali condizioni contrattuali, così come specificato anche dalla normativa di settore (art. 21 TUF).
Nel caso in cui ciò non avvenga, il Tribunale ha ritenuto che il vizio che si profila si attesti nella fase genetica del contratto, determinandone la nullità.
4. Dichiarazione di operatore qualificato
L’ordinanza reclamata aveva rilevato tra i motivi di nullità l’impossibilità di considerare il Comune un operatore qualificato ex art. 30 Reg. Consob 11522/1998. Infatti, pur avendo il funzionario comunale sottoscritto la dichiarazione relativa all’esperienza in strumenti finanziari, e riconoscendo comunque l’insussistenza in capo all’intermediario di uno specifico obbligo di verificare la fondatezza della dichiarazione, pure deve essere affermata la sussistenza per l’intermediario di un preciso dovere di non applicare la deroga prevista dalla normativa per gli operatori qualificati ogniqualvolta le specifiche circostanze dimostrino che la dichiarazione non è veritiera.
Viene quindi confermata la tesi che l’intermediario, seppur non tenuto ad acquisire documentazione a sostegno della dichiarazione, è pur sempre obbligato ad avvertire il cliente delle conseguenze che ne derivano, soprattutto in presenza di contratti particolarmente complessi: più il contratto è rischioso e difficilmente comprensibile nelle sue possibili implicazioni, più è pregnante l’obbligo di informare il cliente in ordine al significato e alle conseguenze della sua dichiarazione e la banca, che agisce professionalmente nel settore finanziario, deve trasferire al cliente tutta quella serie di informazioni, notizie e conoscenze di cui essa stessa dispone e che sono funzionali a una dichiarazione consapevole (ivi compresi, ad esempio, i dati di tendenza del mercato). Ad avviso del Tribunale di Orvieto tale impostazione non contrasta con la posizione espressa dalla Corte di Cassazione (n. 12138/2009) secondo cui la semplice dichiarazione dell’investitore di disporre della competenza ed esperienza richieste in materia di operazioni in valori mobiliari esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche. Ciò in quanto l’esonero dell’intermediario da verifiche ulteriori non è inconciliabile con l’obbligo dello stesso di fornire al cliente, prima che rilasci la sua dichiarazione, un adeguato bagaglio di conoscenze che gli permettano di rendere una dichiarazione il più aderente possibile alla realtà.
III. Il c.d. periculum in mora.
Anche il profilo del periculum in mora risulta degno di approfondimento, innanzitutto con particolare attenzione alla natura soggettiva del ricorrente reclamato.
Il fatto che si tratti di Ente locale costituisce importante elemento di valutazione, quantomeno per il fatto che non è certo irrilevante che la destinazione di fondi sia rivolta al pagamento dei flussi dovuti per effetto dei derivati piuttosto che ad interventi di pubblica utilità.
Dopo aver confermato che nella valutazione della gravità del pregiudizio rientrano la limitata disponibilità finanziaria di cassa e il forte indebitamento del Comune, nel respingere gli argomenti della reclamante inerenti il periculum il Collegio si spinge oltre rispetto a quanto già affermato dalla prima ordinanza. Il Tribunale aggiunge infatti che sono la natura stessa del contratto e la mancanza della sua causa concreta a rendere peculiare il credito della Banca rispetto agli altri debiti del Comune, e che è anche quest’aspetto a giustificare da una parte la necessità e l’urgenza di provvedere alla sospensione degli obblighi di pagamento sino alla definizione della causa di merito, e dall’altra l’accertamento dell’irreparabilità del pregiudizio temuto in ragione proprio di un vizio così profondo del contratto quale l’alterazione del sinallagma.
IV. In conclusione.
A chiusa di questi brevi appunti appare importante sottolineare come l’ordinanza del Tribunale di Orvieto, ponendosi in continuità con precedenti pronunce di altre corti di merito, consenta di effettuare ulteriori riflessioni in punto di nullità per difetto di causa.
Il rilievo connesso con il vizio della causa contrattuale è infatti centrale nella pronuncia in commento, ed è peraltro trattato in maniera innovativa rispetto all’ordinanza reclamata.
Infatti, come già si è detto supra, il Giudice del provvedimento reclamato si era concentrato sulla natura soggettiva della parte stipulante e sulla violazione dei doveri di informazione dell’intermediario, facendo conseguire la nullità dei derivati de quibus dalla violazione di tali norme imperative. Il Collegio, invece, a tali rilievi antepone un ulteriore (e maggiormente assorbente) profilo di nullità, ravvisando nei contratti in esame una vera e propria mancanza di causa concreta, senza quindi più ancorare tale nullità alla violazione di un divieto normativo (positivizzato, nel caso di specie, dall’art. 3 D.M. 389/2003 e dall’art. 41 L. 448/2001), ossia quello che impedisce agli Enti locali di sottoscrivere investimenti in derivati a fini diversi da quello conservativo.
Il passaggio da una nullità “per violazione di norma imperativa” ad una derivante da un difetto di causa non è tuttavia una novità introdotta dalla decisione in esame. Già il Tribunale di Milano (sentenza n. 5118 del 14.04.2011) aveva percorso lo stesso iter logico ritenendo nulli per difetto di causa alcuni contratti di swap conclusi da un Ente pubblico che alla data di sottoscrizione si presentavano non par in assenza di compensazione del disvalore mediante l’erogazione da parte della banca di un correlato premio di liquidità ed affermando che “un mark to market iniziale negativo, tanto più se collegato ad un corrispondente up front, costituisce una funzione speculativa, in contrasto con la tipologia di derivati rimessi alla possibile stipulazione da partedegli enti locali”, e concludendo infine come ciò importasse un vero e proprio difetto della “causa in concreto predeterminata dal legislatore”.
Può quindi affermarsi che la giurisprudenza abbia iniziato ad utilizzare in maniera non occasionale l’argomento della carenza di causa in concreto al fine di dichiarare la nullità di contratti derivati stipulati da Enti pubblici, superando di fatto il riferimento alla violazione di norma imperativa.
Ci si può quindi chiedere se dalle decisioni citate si possa estrapolare un principio, di carattere generale, secondo cui il contratto derivato è privo di causa concreta (e quindi è nullo) in tutti i casi in cui lo scopo originario sia di copertura di un rischio sostanziale ma nei quali tale scopo venga attuato mediante contratto aleatorio avente carattere speculativo. Se tale operazione ermeneutica fosse praticabile, il principio potrebbe essere “trasferito” in controversie che non riguardano solo Enti pubblici, ma anche soggetti di diritto privato. Ciò proprio perché fulcro e fondamento della declaratoria di nullità non sarebbe più la norma imperativa (valida per i soli Enti locali) ma la funzione economico-sociale del contratto, ravvisabile e verificabile mediante l’analisi dell’intento dei contraenti anche privati.
Su tali premesse, anche un privato potrebbe lamentare in giudizio l’assenza di causa del contratto derivato stipulato con l’istituto di credito. In tal senso si coglie un’apertura dalla lettura dell’ordinanza del Tribunale di Bari del 15.07.2010, pronunciata in tema di carenza di causa sopravvenuta in sede di rinegoziazione di un derivato stipulato da un soggetto privato. In quella sede, il Tribunale di Bari, partendo dalla premessa che “la funzione del contratto [di IRS] consiste nella copertura di un rischio mediante un contratto aleatorio con la finalità di depotenziare le incertezze connesse ai costi di finanziamento”, aveva affermato che, qualora la rinegoziazione si traduca “in una deviazione della causa rispondente alla … tipicità sociale”, debba concludersi nel senso del “verosimile difetto genetico di causa dei contratti stipulati in sede di ristrutturazione del debito”.
L’estensione ai privati del rilievo del difetto di causa operata dalla pronuncia ora citata (limitata a una fattispecie di “deviazione” dell’originaria causa contrattuale), potrebbe essere ulteriormente ampliata mediante l’applicazione dei principi affermati dall’ordinanza orvietina, sino a ricomprendere difetti genetici della causa, ossia già presenti ab origine nella struttura contrattuale. Non solo “deviazione” di causa, quindi, ma anche suo difetto genetico.
Ciò tuttavia pone problemi ulteriori sul piano dell’accertamento: per gli Enti locali, infatti, come si può desumere dalla sopra citata pronuncia ambrosiana nonché da quella in commento, è sufficiente accertare la natura non-par del contratto e la mancata ricomposizione dello squilibrio genetico al suo interno per affermare la carenza di causa, poiché l’unica causa lecita con la quale un Ente pubblico può stipulare un derivato è proprio quella di copertura. Diversamente, nel caso in cui il soggetto sia un privato, oltre all’accertamento ora descritto per gli Enti pubblici, la carenza di causa si potrebbe ravvisare una volta accertata l’effettiva funzione “di copertura” voluta dai contraenti, i quali astrattamente avrebbero anche potuto voler stipulare un derivato non-par speculativo (nel quale il predetto perdurante squilibrio non solo non comporta difetti di causa ma costituisce elemento tipico dello strumento stesso).
In tal caso, dunque, il giudice sarebbe chiamato a un duplice accertamento: da un lato, come per l’Ente locale, egli dovrebbe verificare le caratteristiche tecniche del derivato; dall’altro, a differenza che per l’Ente locale (che in questo senso non ha alternative), dovrebbe accertare lo “scopo pratico” attribuito al negozio dai contraenti nel caso concreto, se cioè essi intendessero stipulare un contratto con fini di copertura ovvero speculativi.
Il prossimo passo per la giurisprudenza potrà dunque essere quello di elaborare criteri probatori utili a tale fine, tenendo presente la rilevante diversità in tal senso di un giudizio di merito rispetto a un procedimento cautelare. In proposito, peraltro, può osservarsi sin d’ora che il contratto di IRS, ad esempio, oggetto fra l’altro del caso qui annotato, ha strutturalmente una funzione di copertura da rischio sostanziale (oscillazione dei tassi). Pertanto si potrebbe affermare che la stipula di un IRS non-par dovrebbe essere considerata sempre affetta da nullità al sinallagma genetico allorquando l’up front non vada a bilanciare il mark to market iniziale del contratto. Per altre categorie di strumenti derivati, tale accertamento dovrebbe invece essere condotto caso per caso, con modalità e criteri che la giurisprudenza potrà seguitare ad elaborare.