Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha occasione di ribadire i limiti del cd. giudicato endofallimentare, previsti dall’art. 96, comma 6, I. fall. – statuendo che “il giudicato endofallimentare copre solo la statuizione di rigetto o di accoglimento della domanda di ammissione, precludendone il riesame, mentre non si estende alla eventuali pretese vantate dal curatore nei confronti del creditore, che non formano oggetto della pronuncia del g.d.”
L’occasione per ribadire tale principio è stata data dalla mancata ammissione al passivo fallimentare del credito del concedente un bene in leasing che – a fronte del fallimento dell’utilizzatore – chiedeva l’ammissione del proprio credito per i canoni scaduti al momento della risoluzione contrattuale, i canoni a scadere ed il prezzo di acquisto attualizzati, in forza di una clausola del contratto in deroga all’art. 1526, comma I, c.c. Il giudice delegato, tuttavia, non ammetteva tale credito, qualificando il contratto come leasing traslativo e ritenendo la clausola invocata dal concedente inapplicabile; quindi riconosceva il diritto del Fallito di recuperare i canoni pagati in attuazione dell’art. 1526, comma I, c.c.
Nessuna opposizione ex art. 98 I. fall. veniva proposta dal creditore escluso, con la conseguente definitività dello stato passivo ed esclusione del credito dal passivo fallimentare.
Nel successivo giudizio di cognizione ordinaria instaurato dal Fallimento per il recupero dei canoni pagati dall’utilizzatore fallito, i giudici di merito ritenevano che – non essendo stata proposta opposizione ex art. 98 I. fall. – era divenuta non più contestabile la ricostruzione giuridica del rapporto negoziale quale leasing traslativo offerta dal giudice delegato.
Rispetto a tale statuizione, la Suprema Corte sancisce e ribadisce che nel giudizio di merito a cognizione ordinaria, “non può avere effetti di giudicato l’esito della questione sull’ammissione al passivo del credito della concedente, risolta in sede fallimentare: dovendosi in sede ordinaria di cognizione, al contrario, valutare ex novo, in definitiva, se la clausola contrattuale derogatoria dell’art. 1526 c.c. sia valida oppur no e, di conseguenza, gli effetti della risoluzione, con esclusivo riguardo al diritto del fallimento di ottenere, oppure no, la restituzione anche dei canoni versati prima del suo inadempimento”.