1. Il Progetto Beps ha recepito le misure Ocse in materia di tassazione delle entità fiscalmente trasparenti, le quali creano da sempre problemi nell’applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni sul reddito. È utile spiegare alcune di queste misure per capire perché l’Italia abbia (per ora) scelto di non inserirle nelle proprie convenzioni.
Le convenzioni eliminano la doppia imposizione internazionale – che origina dalla sovrapposizione di più pretese impositive sullo stesso presupposto e verso lo stesso contribuente – limitando il diritto impositivo dello Stato della fonte ed obbligando quello di residenza a rinunciare corrispondentemente al proprio (esentando i redditi attribuiti allo Stato della fonte o consentendo la detrazione delle imposte levate da quello Stato).
Perché possa dunque applicarsi una convenzione, occorrono: (a) un reddito prodotto in uno Stato contraente (Stato della fonte); e (b) conseguito da una “persona residente” dell’altro Stato (Stato della residenza). Entrambi gli Stati applicano la convenzione secondo le proprie leggi interne, le quali determinano di che tipo di reddito si tratti (d’impresa, dividendi etc.) e chi sia la persona residente che lo percepisce (il contribuente). Le convenzioni, invece, non stabiliscono a quale contribuente vada imputato il reddito. Esse limitano i diritti impositivi statuali in relazione a dati presupposti economici, sull’assunto che questi presupposti siano qualificati allo stesso modo dagli Stati.
2. Questo schema entra in crisi quando le leggi dei due Stati trattano diversamente la persona che percepisce il reddito: uno Stato la considera autonomo soggetto d’imposta, l’altro Stato fiscalmente trasparente ed imputa il reddito ai soci o partecipanti (queste differenze possono originare dalla legge civilistica o fiscale, non importa ora).
Si pensi ad una società di capitali A, che percepisce dividendi da una consociata, residente in un altro Stato (Stato della fonte). Lo Stato della fonte considera la società A un autonomo soggetto d’imposta – quindi, una persona residente dell’altro Stato – e le riconosce la ritenuta ridotta al 5 per cento, secondo una norma analoga all’art. 10, par. 2, lett. a), mod. Ocse. Lo Stato di costituzione della società A (che chiameremo della residenza) la considera, invece, fiscalmente trasparente ed imputa il dividendo ai soci-persone fisiche. Al posto dello Stato della fonte, lo Stato di residenza non considererebbe la società A come la persona residente che percepisce il reddito e non consentirebbe la riduzione della ritenuta al 5 per cento (che spetta solo ai soci-società).
Abbiamo qui un reddito prodotto in uno Stato contraente. È invece dubbio se vi sia e chi sia la persona residente che lo consegue: la società A, secondo lo Stato della fonte, o i soci, secondo lo Stato di residenza? Il problema non è da poco, perché i soci potrebbero anche risiedere in un terzo Stato, magari un “paradiso fiscale” che non prevede imposte sui redditi. In questo caso, i dividendi non sarebbero tassati nello Stato di residenza e potrebbero sfuggire del tutto a tassazione.
3. In un importante report del 1999 (The Application of the OECD Model Tax Convention to Partnerships, es. 4), l’Ocse ha suggerito di seguire la posizione dello Stato di residenza dei soci della società trasparente. Diversamente, il reddito potrebbe non essere tassato e lo scopo delle convenzioni – evitare la doppia imposizione ma anche la non imposizione in entrambi gli Stati – frustrato.
Lo Stato della fonte non dovrebbe insomma applicare la convenzione, se i soci di una società considerata fiscalmente trasparente dall’altro Stato non sono ivi residenti e non sono soggetti ad imposizione per tutti i redditi posseduti, compresi quelli cui è applicata la convenzione. Lo Stato della fonte dovrebbe quindi negare alla società A la ritenuta del 5 per cento, poiché – secondo appunto la legge dello Stato di residenza – il dividendo non è tassato sulla società ma sui soci, cui non spetta quella riduzione.
Questa raccomandazione non è stata recepita da tutti gli Stati, che non avevano alcun obbligo in tal senso (le norme procedurali Ocse impegnano gli Stati aderenti solo a valutare le misure approvate dall’organizzazione, non ad implementarle). Per indurli comunque a farlo, l’Ocse l’ha ora inserita nel proprio modello di convenzione, che registra ed indirizza la prassi degli Stati, e nella convenzione multilaterale che dà attuazione al Progetto Beps, firmata anche dall’Italia (art. 3, par. 1).
Si è previsto che un reddito pagato a o percepito da (o tramite) un soggetto considerato fiscalmente trasparente, da uno o entrambi gli Stati, si considera pagato a o percepito da un residente dello Stato di residenza, nella misura in cui questo Stato attribuisca quel reddito ad un proprio residente (art. 1, par. 2, mod. Ocse aggiornato al 2017).
È bene precisare che questa norma non stabilisce chi sia la persona residente che percepisce il reddito, né chi sia il beneficiario effettivo. Si limita a stabilire a quale condizione dev’essere applicata la convenzione da entrambi gli Stati, senza vincolare l’imputazione del reddito, che resta regolata dalle leggi interne. Delimita l’ambito soggettivo della convenzione, come indica la sua collocazione nel primo articolo del modello Ocse.
Non vi è, del resto, alcun principio per cui l’interpretazione di uno Stato circa la persona del contribuente debba vincolare l’altro Stato. Né lo richiede il contesto della convenzione, che, ai sensi dell’art. 3, par. 2, dovrebbe guidare l’interpretazione dei termini non definiti dalla convenzione.
Quella del Comitato Fiscale Ocse – un organo tecnico che non formula norme, ma suggerisce soluzioni a problemi pratici – era una scelta di opportunità, non priva di pregi ma la cui razionalità va verificata in base alle regole di interpretazione dei trattati. E nessuna regola impone ad uno Stato di applicare la convenzione – su questo aspetto – secondo l’interpretazione che ne dà l’altro Stato.
Tornando al nostro caso, ed immaginando che i soci risiedano nello stesso Stato della società A, ben potrà lo Stato della fonte considerare il dividendo come pagato alla società A ed applicare la ritenuta del 5 per cento, anche se quel reddito sarà tassato nelle mani dei soci (che non avrebbero diritto ad una simile riduzione). Così ha pure stabilito la massima corte tedesca, la più alta autorità ad essersi pronunciata su una norma analoga all’art. 1, par. 2, mod. Ocse (Bundesfinanzhof, 26 giugno 2013, I R 48/12, con nota adesiva di Rust, Germany: US S Corporation and Income Allocation under Germany-United States Tax Treaty, in Lang et al. (eds.), Tax Treaty Case Law around the Globe 2014, Amsterdam-Vienna, 2015, 134, sull’art. 1, par. 7, conv. Stati Uniti-Germania 1989/2006). Così si è espressa autorevole dottrina (Vogel, Double Tax Treaties and Their Interpretation, in Intn’l Tax & Bus. Law, 1986, 74; Lang, The Application of the OECD Model Tax Convention to Partnerships, Vienna, 2000).
4. Quale la posizione dell’Italia? Risulta un solo precedente, la risoluzione 171/E del 2005, peraltro su un caso diverso dal nostro.
All’Agenzia era stato chiesto un parere sulla disciplina convenzionale del reddito prodotto da una società di capitali italiana, trasparente per opzione, con socio residente in Cipro. Non sappiamo se anche la legge cipriota imputasse il reddito al socio. Si sa solo che le attività della società non costituivano una stabile organizzazione. L’Agenzia ha interpretato la convenzione come se il reddito appartenesse alla società italiana, anziché al socio non residente, nonostante la legge italiana lo considerasse reddito del socio e nonostante questo reddito, mancando una stabile organizzazione, non potesse considerarsi prodotto in Italia, ai sensi della convenzione (che prevale sulla norma interna dell’art. 23, lett. g), Tuir, per cui si considerano prodotti in Italia i redditi di società italiane trasparenti, imputabili a soci non residenti).
Questa risoluzione, criticata in dottrina, rivela una certa ritrosia della nostra Amministrazione ad applicare correttamente le convenzioni, quando ne esce limitata la potestà impositiva italiana.
Un’interpretazione simile potrebbe forse giustificarsi per evitare i vuoti d’imposta che si verificano quando il reddito prodotto dalla società trasparente non è tassato nemmeno nello Stato del socio, che considera la società non trasparente (cfr. audiz. Vicedir. Ag. Entrate, 10 ottobre 2018, e rel. schema d.lgs. 142/2018). Se applicata oltre questi casi, però, vìola sia la nuova norma Ocse – che appunto l’Italia non sembra voler applicare – sia il diritto convenzionale – che invece non si può eludere.
Non resta che attendere un cambio di indirizzo.