Come noto, i contratti derivati, che trovano nel nostro ordinamento espresso riconoscimento all’art. 1, comma 2, lett. d-j Testo Unico della Finanza (c.d. “T.U.F.”), si caratterizzano per il fatto che il loro valore dipende (quindi “deriva”) dal prezzo di mercato di un’attività sottostante ovvero dal valore di un parametro finanziario di riferimento.
Il prezzo o, meglio, il valore dello strumento (mark to market), si determina quindi in funzione della traslazione nel tempo dell’operazione sottostante, ovvero dell’attualizzazione di quelle che sono le (ipotetiche) prestazioni future, ottenute attraverso modelli di valutazione generalmente accettati dalla letteratura matematico finanziaria.
In tal senso fondamentale risulta la distinzione fra contratti conclusi nei mercati regolamentati e contratti conclusi over the counter (OTC).
Infatti, per quanto attiene i derivati OTC, cioè negoziati fuori borsa, i rispettivi mercati si caratterizzano per un basso livello di liquidità, che determina gravi difficoltà nell’attività di price discovery, e che comporta, stante l’assenza di un mercato ufficiale, l’impossibilità per tutti gli operatori di monitorare costantemente il valore degli strumenti finanziari ivi negoziati.
La forma tipica dei derivati OTC è quella c.d. plain vanilla, in cui (nel caso di un interest rate swap) una parte si obbliga a pagare un tasso fisso e l’altra un tasso variabile, entrambi calcolati su un ammontare di riferimento predeterminato.
Come spiegato anche dalla Consob (audizione del 30 ottobre 2007), quando il tasso fisso e quello variabile (e quindi le prestazioni delle due controparti) sono stabiliti in modo coerente rispetto ai tassi di mercato correnti al momento della stipula del contratto, questo viene definito par, in quanto ha un valore di mercato che può dirsi nullo per entrambe le parti, posto che le stesse ottengono delle controprestazioni parametrate a condizioni finanziarie (sotto forma di tassi) che comunque avrebbero ottenuto nel mercato (e viceversa si obbligano a delle prestazioni cui comunque si sarebbero obbligate nel mercato).
Diversamente i contratti non par presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. In generale, i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro alla controparte che accetta condizioni più penalizzanti; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front.
Banalizzando a fini esemplificativi, se l’intermediario si impegnasse a versare all’investitore una somma pari al tasso Euribor più un piccolo spread a fronte dell’impegno dell’investitore a versare all’intermediario un tasso fisso di molto superiore, è chiaro che mentre il tasso dell’intermediario risulta coerente con i tassi di mercato (infatti, un finanziamento a tasso variabile avente ad oggetto una somma pari al nozionale sarebbe stato concesso ad un tasso analogo), il tasso dell’investitore cliente non riflette quello di mercato (infatti, un finanziamento a tasso fisso avente ad oggetto la stessa somma sarebbe stato concesso ad un tasso molto minore).
Nei contratti non par, quindi, l’operazione non può mai definirsi “a costo zero”, ma presenta sempre un costo implicito (laddove non esplicitato dall’intermediario) che rileva quale mispricing (disallineamento) fra il prezzo teorico di mercato dello strumento (mark to market) ed il prezzo ad esso attribuito dall’intermediario.
Fra le diverse voci che compongono questo costo implicito, vi è quella relativa alla remunerazione trattenuta dall’intermediario quale corrispettivo per il servizio prestato, cioè per aver progettato, collocato o negoziato il prodotto finanziario.
In pratica, i contratti derivati OTC si caratterizzano per la sistematica presenza di un differenziale positivo fra prezzo di negoziazione e prezzo teorico di mercato (mispricing). Tale differenza di valore garantisce un profitto finanziario all’intermediario, basato (essenzialmente) sullo sfruttamento del vantaggio di posizione informativa in ordine caratteristiche del prodotto.
Come detto, stante l’assenza di mercati regolamentati, la determinazione del fair value dei derivati OTC si determina in funzione di modelli valutativi (quali per esempio l’attualizzazione dei flussi di cassa attesi (discounted cash flow) o i modelli di valorizzazione delle opzioni) che richiedono competenze altamente specialistiche.
Ne consegue che, conriferimento alla negoziazione di strumenti particolarmente sofisticati come i derivati OTC, l’asimmetria informativa fra intermediario ed investitore assume contorni assolutamente peculiari, manifestandosi nella (quasi sempre assoluta) impossibilità per l’investitore di accedere a quelle informazioni (di cui invece dispone l’intermediario)necessarie per valutare in concreto l’investimento offerto e/o concluso.
Anche per tali motivi, la Consob (Comunicazione n. 9019104 del 2 marzo 2009), in sede di definizione MiFID di Livello III, ha dettato alcune norme di trasparenza e di comportamento per il collocamento al pubblico dei prodotti illiquidi, fra cui i derivati OTC.
Premessa dell’Autorità di Vigilanza è che “a differenza che per i prodotti per i quali la trasparenza su valori e costi è garantita da caratteristiche intrinseche – quali potrebbero essere i derivati quotati nei mercati regolamentati (Exchange Traded) – nel caso di operazioni aventi ad oggetto strumenti per i quali non esistono condizioni di scambio trasparenti ed efficienti è necessario che gli intermediari prestino particolare attenzione ai presidi di disclosure nella relazione con la clientela”.
Per tali motivi, è fatta raccomandazione agli intermediari di “effettuare la scomposizione (c.d. unbundling) delle diverse componenti che concorrono al complessivo esborso finanziario sostenuto dal cliente per l’assunzione della posizione nel prodotto illiquido, distinguendo fair value (con separata indicazione per l’eventuale componente derivativa) e costi – anche a manifestazione differita – che gravano, implicitamente o esplicitamente, sul cliente”.
Tali misure di disclosuredovrebbero, come ricordato dalla stessa Commissione, permettere il mantenimento di una corretta relazione tra intermediario e cliente, preservare al fiducia nel sistema finanziario, mitigando gli eventuali effetti indesiderati dell’innovazione senza con ciò ostacolarne lo sviluppo.