Con la sentenza n. 2383/2025, la Corte di Cassazione ha stabilito che, in punto di accertamento penale dell’ammontare dell’imposta evasa, funzionale alla verifica del superamento delle soglie di punibilità ex art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, il giudice deve fondare il proprio convincimento anche sulla base dei costi “in nero” rinvenuti a seguito di perquisizione, a condizione che essi siano sostenuti da allegazioni difensive fattuali comprovanti con certezza la loro esistenza.
Il caso giurisprudenziale traeva origine da un’indagine disposta dal Pubblico Ministero condotta dal corpo della Guardia di Finanza che, in occasione dell’accesso presso le singole unità locali nelle quali gli imputati esercitavano l’attività di impresa, rinveniva documentazione finanziaria “in nero”, attestante utili extra bilancio non contabilizzati.
Il materiale reperito – successivamente sottoposto a sequestro – veniva così utilizzato per ricostruire il maggior reddito celato e, constatato il superamento delle soglie di punibilità prescritte dall’art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, rubricato “dichiarazione infedele”, il Pubblico Ministero procedeva addebitando agli indagati, in due procedimenti separati, rispettivamente le fattispecie delittuose di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. e di cui al menzionato articolo 4.
La Corte di appello riformava la sentenza di primo grado, dichiarando il non doversi procedere limitatamente ai reati ex art. 4 cit. commessi nel 2011 perché prescritti e rideterminando, invece, la pena per i medesimi reati commessi nel corso del 2013.
Gli imputati impugnavano, dunque, la pronuncia per la sua cassazione.
In particolare, deducevano la violazione dell’art. 4, D. Lgs. n. 74 del 2000 in relazione al superamento delle soglie di punibilità, lamentando la mancata valorizzazione, da parte del giudice di seconde cure, ai fini dell’accertamento penale dell’ammontare dell’imposta evasa, dei costi extra sostenuti, giacché, ad avviso dei ricorrenti, a fini probatori, la documentazione extracontabile doveva essere presa in considerazione integralmente e non già limitatamente ai maggiori ricavi non dichiarati.
Il Collegio giudicante dichiara fondato il motivo di ricorso.
Secondo la Corte, per procedere alla ricostruzione della materia imponibile evasa, il giudice è tenuto a condurre un iter valutativo che, pur fondandosi sulle regole di dettaglio fissate all’uopo dalla legislazione fiscale, subisce alcune intrinseche limitazioni, giustificate dalle diverse finalità che il processo penale persegue.
Donde, si potrà tenere conto dei costi “in nero” solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere “la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza”.
Tuttavia, è necessario che, delle medesime passività non contabilizzate, sussista la prova, diretta o indiziaria.
Graverà, quindi, sulla persona sottoposta alle indagini l’onere di provare – o comunque allegare – i dati dai quali l’esistenza di tali costi possa essere corroborata e dei quali né il Pubblico Ministero, né il giudice hanno tenuto debita contezza.
In conclusione, “il criterio di giudizio imposto dall’art. 533, comma 1, c.p.p. investe tutti gli elementi costitutivi del reato, sicché ove sussista il ragionevole dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità indicate dall’art. 4, D. Lgs. n. 74 del 2000 (e dunque l’ammontare dell’imposta evasa), il giudice deve affermare l’insussistenza del fatto, purché si tratti di un dubbio “ragionevole”, fondato cioè su fatti verificabili, non su mere congetture, ipotesi, astrazioni ed automatismi”.