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COVID-19, deterioramento del merito creditizio e finanziamenti garantiti da covenants

30 Aprile 2020

Michele Cisolla

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Premessa: COVID-19, merito creditizio e covenants. – 2. I covenants: profili di diritto civile e bancario. – 3. Le tipologie di covenants. – 3.1. In particolare: i negative covenants. – 4. Violazione delle clausole e poteri del creditore: la sanzione per l’inadempimento dei covenants. – 5. Le condizioni di validità dei covenants e il controllo sulla proporzionalità.– 6. La nullità dei covenants. – 7. COVID-19, covenants, misure di forbearance e forborne exposures.

 

1. Premessa: COVID-19, merito creditizio e covenants.

Nell’esercizio della loro attività istituzionale, come noto, le banche si espongono a diversi tipi di rischio: uno di questi è il rischio di credito, determinato dall’eventualità che il debitore non adempia correttamente agli impegni assunti, con conseguente omessa restituzione del capitale, o anche solo degli interessi, nei tempi e modi determinati ex contractu[1].

In materia creditizia, il rapporto banca-impresa si regge sull’assegnazione di un giudizio di solvibilità – ossia, il c.d. merito creditizio – che la banca stessa assegna all’impresa bisognosa di credito: ovviamente, quanto maggiore (e certa) è la capacità dell’impresa di restituire l’importo prestatole dall’istituto di credito, tanto maggiore sarà la classe di merito[2]. Capacità di restituire che, pertanto, è direttamente collegata alla generazione da parte della debitrice di flussi di cassa adeguati a soddisfare le necessità d’impresa – tra cui, in primis, quella di rimborso del finanziamento bancario – per l’intera durata del rapporto contrattuale.

Sul merito creditizio e il rischio di credito sopportato dalla banca incidono, però, non solo fatti direttamente collegati alla (e causati dalla) gestione dell’impresa finanziata – che, dunque, possono essere (se pure limitatamente) governati mediante l’inserimento di particolari clausole nei contratti di finanziamento, ossia i cc.dd. covenants, su cui ci si intratterrà meglio infra –, ma anche eventi esterni e indipendenti dalla condotta della debitrice. È questo il caso, ad esempio, dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 e dei conseguenti provvedimenti d’urgenza adottati dalle Autorità, che hanno inevitabilmente comportato una alterazione del (già precario) equilibro gestorio che caratterizza la maggior parte delle imprese italiane facenti ricorso al credito bancario.

Come noto, infatti, il Governo italiano è intervenuto più volte a seguito della diffusione del coronavirus per limitare il contagio, disponendo sull’intero territorio nazionale la sospensione, in un primo momento, delle attività commerciali al dettaglio (ad eccezione della vendita di beni alimentari e di prima necessità), quelle dei servizi di ristorazione e quelle inerenti ai servizi alla persona[3]; sospensione che, in seguito, è stata estesa a tutte le attività produttive e commerciali, ad eccezione di quelle individuate dall’allegato 1 al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 marzo 2020, consentendo comunque alle attività sospese di proseguire se organizzate in modalità a distanza o lavoro agile[4]. Tale sospensione, inoltre, inizialmente disposta fino al 3 aprile 2020, è stata prorogata fino al 13 aprile[5] e poi, nuovamente, fino al 3 maggio dello stesso anno[6]. In seguito, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26 aprile 2020 ha consentito la ripresa a partire dal 4 maggio di talune attività in precedenza sospese[7] (in particolare, l’industria manifatturiera e quella edilizia), prorogando, però, la sospensione di molte altre attività fino al 18 maggio e di altre ancora fino al 1° giugno 2020.

Non è revocabile in dubbio che la crisi sanitaria abbia comportato (e comporterà) pesanti conseguenze sull’economia italiana e, in particolare, sull’economia supportata da finanziamenti bancari.

Tipicamente, infatti, per concedere un finanziamento, la banca richiede all’impresa mutuataria l’elaborazione e l’implementazione di un business plan che le consenta di generare cash flow idonei a garantire il rimborso del capitale erogato e degli interessi, secondo i termini contrattualmente pattuiti. Business plan che, come ovvio, sarà predisposto tenendo conto della prevedibile evoluzione della situazione economico-finanziaria dell’impresa. Ebbene, la diffusione del COVID-19 e la conseguente imposizione del divieto di regolare svolgimento dell’attività d’impresa per un periodo di circa due mesi non possono di certo ritenersi fatti prevedibili al momento della redazione del business plan e dell’erogazione del finanziamento; non di meno, tali fatti hanno inciso (e incideranno) sulla regolare gestione dell’impresa e, per l’effetto, sulla capacità di quest’ultima di adempiere le obbligazioni su di lei facenti capo in forza del contratto di finanziamento.

Sotto tale ultimo profilo, come detto, è tipico nella prassi bancaria inserire dei covenants all’interno di tali contratti[8], ossia specifiche clausole che, al fine di garantire il corretto andamento economico-finanziario dell’impresa e, di conseguenza, il rimborso del finanziamento da parte della debitrice, da un lato, pongono a carico di quest’ultima un complesso di obblighi di comportamento, o di restrizioni, i quali modellano altresì la gestione dell’impresa e, d’altro lato, riconoscono alla banca diritti e poteri nei confronti della finanziata[9]. Covenants che, ove violati, consentono alla banca di attivare un severo impianto sanzionatorio, il quale può comportare anche l’attivazione di una clausola risolutiva espressa con decadenza del debitore dal beneficio del termine e conseguente obbligo per lo stesso di immediata restituzione di tutte le somme ancora dovute[10].

È in tale contesto, dunque, che pare legittimo chiedersi quale sia la sorte dell’impresa che rischi di violare, o abbia già violato, i covenants contenuti nel contratto di finanziamento a causa delle sopravvenute e imprevedibili difficoltà economico-finanziarie derivanti dalla diffusione del COVID-19 e dall’adozione da parte del Governo di provvedimenti d’urgenza per il suo contenimento, nonché quali siano i rimedi – se esistenti – da essa attivabili a propria tutela. Con questo scritto, dunque, si tenterà di rispondere a tali interrogativi; non prima, però, di aver fornito un inquadramento giuridico, teorico e pratico, dell’istituto dei covenants, ad oggi privo di una disciplina espressa[11].

2. I covenants: profili di diritto civile e bancario.

Il covenant, come detto, è una clausola inserita all’interno di un contratto di finanziamento bancario a medio o lungo termine che, da un lato, impone obblighi e doveri all’impresa finanziata.E, d’altro lato, riconosce alla banca diritti e poteri nei confronti di questa. Risulta evidente la ratio sottostante ai covenants: governare il rischio di insolvenza, non solo al momento della conclusione del contratto di finanziamento – come avviene con le ordinarie forme di garanzia – bensì (auspicabilmente) per l’intera durata del rapporto, giusti gli invasivi poteri di controllo sulla situazione economico-finanziaria della debitrice riconosciuti in capo alla banca[12]. Inoltre, attraverso l’uso dei covenants si raggiunge un ulteriore obiettivo, ossia ridurre l’asimmetria informativa intrinseca nel rapporto banca-impresa (e, più in generale, del rapporto creditore-debitore). Sovente, infatti, il mutuatario omette di informare il proprio finanziatore di eventi e circostanze che potrebbero pregiudicare le possibilità di soddisfazione del credito, con conseguente pregiudizio per il creditore che, inconsapevole della situazione di rischio, tarderà nell’adottare le dovute cautele.

Di qui, la loro sussunzione all’interno della categoria (dottrinale) delle garanzie preventive atipiche[13], più incisive rispetto alle tradizionali garanzie reali e personali. Basti pensare che, con riguardo alla loro funzione nelle operazioni creditizie, siccome tali vincoli contrattuali consentono l’individuazione precoce della crisi dell’impresa, si è giunti a sostenere che i contratti di finanziamento “vessatori” garantiti dai covenants siano addirittura una ragionevole alternativa alle procedure di insolvenza in quanto più economicamente sostenibili per il mercato[14].

Come noto, i finanziamenti a medio o lungo termine[15] sono basati sulla affidabilità e la capacità creditizia dell’impresa finanziata e, di regola, le fonti di rimborso sono direttamente collegate all’andamento del ciclo aziendale, che deve necessariamente generare flussi di cassa adeguati all’adempimento delle obbligazioni assunte dall’impresa stessa.

È in questo contesto che il complesso sistema dei covenants si propone di salvaguardare l’interesse della banca in ordine alla corretta gestione dell’impresa debitrice, vincolando quest’ultima a mantenere la propria solvibilità, non compiendo atti idonei a pregiudicarla[16]. Di qui, l’assunzione da parte della finanziata di obbligazioni di fare (c.d. positive covenants) o di non fare (c.d. negative covenants) o, molto più spesso, di entrambi: così, la banca acquisisce diritti di informazione e poteri di influenza sulla gestione imprenditoriale della debitrice. Diritti e poteri talmente invasivi che – come affermato dalla dottrina tedesca – la banca è garantita in quanto tiene, per così dire, “al guinzaglio” l’impresa finanziata[17].

Oltre ai positive e negative covenants, esistono anche covenants cc.dd. di bilancio (c.d. financial covenants), ossia specifiche previsioni contrattuali riferite al bilancio della debitrice che stabiliscono in capo a quest’ultima stringenti vincoli preordinati a garantire la compatibilità della struttura patrimoniale e finanziaria dell’impresa con il debito assunto nei confronti della banca[18].

Quanto sin qui detto consente di comprendere che i covenants, pur se accomunati dalla funzione di tutela del credito, si discostano dalle ordinarie garanzie reali: come puntualmente osservato in dottrina, infatti, essi sono un vero e proprio strumento di governo contrattuale del rischio stesso[19]. Invero, sebbene non riconoscano in capo alla banca una prelazione su specifici beni del patrimonio aziendale come le garanzie reali, non di meno anche i covenants, se pure indirettamente,svolgono una precisa funzione di garanzia del credito, tutelando, attraverso le previsioni in essi contenute, la solvibilità dell’impresa debitrice e il conseguente rimborso dell’importo finanziato.

Inoltre, diversamente dalle garanzie reali che sono statiche, relative a specifici beni e azionabili solo successivamente all’emersione dell’insolvenza della debitrice, i covenants costituiscono delle garanzie preventive e aventi ad oggetto uno specifico soggetto, le quali, attraverso l’attribuzione alla banca di poteri di controllo e sorveglianza sulla gestione dell’impresa finanziata, danno origine ad un quadro preventivo di influenza sulle decisioni aziendali tale da allontanare – se non addirittura scongiurare – la prospettiva dell’insolvenza della debitrice[20].

È per queste ragioni, di regola, che la prassi bancaria ricorre all’utilizzo dei covenants – qui, si allude a quelli diversi dai financial covenants, nella maggior parte dei casipresenti anche in caso di concessione di garanzia reale – ogni volta che l’impresa da finanziare non può o non vuole fornire sufficienti garanzie reali[21]. Ma non solo. Invero, quand’anche tali garanzie siano concesse, la banca deve affrontare i costi e le eventuali difficoltà legate alla conservazione e attivazione delle garanzie stesse, con conseguente insufficiente copertura del rischio di perdite. I covenants mirano a garantire proprio queste variabili che incidono in misura inequivocabile sul rischio di perdite per la banca[22].

Si comprende, allora, perché in tempi recenti icovenants abbiano trovato vasta applicazione (anche) in operazioni creditizie qualificate dalla sistematica rinuncia alle tradizionali garanzie reali: finanza di progetto, acquisizioni societarie e prestiti sindacati[23]. Tali clausole hanno innalzato il livello di tutela creditizia degli istituti di credito modellando un nuovo statuto giuridico caratterizzato da maggiore affidabilità e implementazione della capacità creditizia, requisiti, questi ultimi, essenziali per la concessione dei finanziamenti a medio e lungo termine; statuto giuridico che trova spazio sia nel momento di valutazione del merito creditizio, sia durante la gestione del finanziamento erogato.

3. Le tipologie di covenants.

L’articolata fenomenologia dei covenants si rivela, di primo acchito, estremamente versatile e dinamica, poiché, in linea di principio, non vi sono limiti all’immaginazione dell’autonomia privata[24]. Immaginazione che, in ogni caso, è orientata funzionalmente alla protezione della banca con riguardo a precisi obiettivi: la tutela contro il rischio di posposizione delle sue pretese e di svuotamento della par condicio creditorum; la continuità della identità dell’impresa debitrice; la conservazione della solvibilità e della liquidità di quest’ultima, con la relativa tutela del patrimonio aziendale; la definizione del complesso di obblighi informativi e contabili a carico della finanziata; la costruzione di un apparato sanzionatorio per le ipotesi di violazione dei covenants da parte dell’impresa[25].

Vista la diversità di obiettivi cui sono preordinati, il contenuto dei covenants si rivela assai diversificato, consentendo di distinguere, anzitutto, tra positive covenants e negative covenants.

I positive covenants individuano le azioni che devono essere intraprese dall’impresa debitrice e consistono, quindi, nell’imposizione di obblighi di facere, oppure disciplinano diritti o poteri riconosciuti in capo alla banca. Rientrano in questa categoria, ad esempio, le clausole relative al mantenimento ottimale dei beni strumentali[26], al rispetto di determinati ratios patrimoniali e finanziari[27], agli obblighi di disclosure periodica, alle richieste di preventiva autorizzazione a fronte del compimento di determinate scelte strategiche, alla garanzia di accesso ai libri sociali e alla contabilità d’impresa[28]. Altro esempio è quello della pattuizione che impone alla società finanziata di concedere alla banca la stessa garanzia eventualmente fornita, successivamente all’erogazione del finanziamento, ad altri creditori (c.d. pari passu). Ancora, rientrano nella categoria dei positive covenants le clausole che sanciscono l’impegno dell’impresa debitrice, ad esempio, a: adempiere regolarmente agli oneri tributari, di qualsiasi natura essi siano; mantenere adeguate coperture assicurative dei beni aziendali; fornire preventive comunicazioni con riferimento a possibili decisioni di modifica societaria, quali fusioni, concentrazioni, scissioni o altre operazioni straordinarie. In talune ipotesi, infine, i positive covenants possono addirittura prevedere il diritto della banca alla nomina di uno o più componenti dell’organo amministrativo oppure al diritto a che un proprio uomo di fiducia assista alle adunanze del consiglio di amministrazione (c.d. board observer clause)[29].

Dall’altro lato, invece, i negative covenants – anche detti “garanzie negative” – hanno ad oggetto azioni che non possono essere poste in essere dall’impresa finanziata, la quale assume, quindi, obblighi di non facere nell’ambito della gestione aziendale. Esempi di questa categoria di covenants sono i vincoli contrattuali che impongono restrizioni al pagamento di dividendi (c.d. dividend payout)[30], all’incremento del capitale sociale, all’acquisto di azioni proprie, alla concessione di nuove garanzie reali[31], all’alienazione di assets strategici, alla modifica dell’oggetto sociale (c.d. same business clause)[32 ]o, financo, a determinate scelte gestorie[33], quali la conclusione di operazioni straordinarie (tipicamente di M&A) o l’assunzione di ulteriori partecipazioni rispetto a quelle già detenute[34]. Ulteriori esempi di negative covenants sono dati da clausole che impongono all’impresa debitrice l’impegno a non alienare in tutto o in parte il patrimonio aziendale (di regola, ivi incluse le partecipazioni in altre società); non concedere ad altri garanzie su ulteriori finanziamenti senza l’autorizzazione della banca richiedente per prima tale covenant (c.d. negative pledge)[35]. In altri casi, poi, l’impresa debitrice si impegna a non garantire obbligazioni di terzi oltre determinate soglie oppure a non concedere prestiti al di sopra di certi importi; non effettuare acquisti di azioni proprie, tout court o sopra determinati livelli; non acquistare ulteriori partecipazioni per un valore superiore ad una certa somma; non effettuare investimenti tecnici per ammontare superiore, ad esempio, a quello stanziato a tal fine nell’esercizio precedente; non acquisire macchinari e impianti in leasing che determinino canoni annui superiori a predeterminati importi[36].

Oltre alle due macro-categorie di covenants ora esposte e basate sul tipo di obbligo (fare o non fare) imposto all’impresa debitrice, è possibile individuarne un’ulteriore tipologia: i financial covenants, ossia clausole relative al rispetto di dati e rapporti di bilancio. In tal caso, ad esempio, il covenants avrà ad oggetto l’impegno a mantenere, per l’intera durata del finanziamento, un importo di patrimonio netto contabile non inferiore ad un importo minimo (stabilito, di regola, alla data di erogazione del finanziamento, ma potrebbe anche essere collegato al risultato di eventuali operazioni di capitalizzazione poste in essere successivamente alla concessione del finanziamento); mantenere l’indebitamento totale (i.e. debiti a breve e medio-lungo termine) entro un determinato limite rispetto al capitale netto (ossia, la Net Financial Position al di sotto di determinati valori); mantenere l’indicatore di liquidità corrente (dato dal rapporto tra il capitale circolante e l’indebitamento a breve termine) non inferiore ad un limite stabilito; mantenere il livello del capitale circolante netto al di sopra di un limite prefissato; mantenere gli oneri finanziari entro una determinata percentuale del fatturato o del margine operativo lordo; dichiarare il default in concomitanza del verificarsi di una perdita di esercizio o al di sopra di una certa soglia di perdita di esercizio; dichiarare il default in ragione del verificarsi di componenti straordinarie di reddito, tipicamente rivalutazioni nell’attivo, superiori al risultato di esercizio o in rapporto allo stesso.

3.1.In particolare. I negative covenants.

Qualche cenno in più meritano i negative covenants, i quali risultano essere, secondo la già citata indagine svolta da Banca Mediocredito, quelli maggiormente diffusi nella prassi bancaria.

Anzitutto, vi sono le clausole che impongono all’impresa finanziata l’obbligo verso la banca di non concedere, fino al completo rimborso del finanziamento e senza la sua preventiva ed esplicita autorizzazione, garanzie ad altri creditori, bancari e non. Tale obbligo, peraltro, non si limita alle sole garanzie reali, ma comprende anche le garanzie personali e, per coerenza, tutti gli eventuali meccanismi ideati dall’autonomia privata che mirano, con diverse modalità, a realizzare lo stesso scopo di garanzia[37]. E ciò non solo in relazione a debiti dell’impresa finanziata, bensì anche con riferimento a debiti altrui (si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui l’impresa finanziata si impegni in qualità di fideiussore): in questo caso, ad avviso di chi scrive, il covenant dovrà ritenersi violato – con ogni conseguenza sanzionatoria – già solo con la concessione della garanzia, a prescindere dalla sua successiva (e solo eventuale) attivazione.

L’obiettivo di tali covenants, dunque, è quello di impedire, alla luce dell’art. 2740 c.c., la costituzione di posizioni preferenziali e prioritarie a favore di terzi creditori, in danno della banca finanziatrice.

Con riferimento a questa tipologia di covenants, peraltro,è lecito domandarsi se rilevino anche gli impegni eventualmente assunti dalla finanziata rispetto ad un’altra banca a seguito della sottoscrizione dei c.d. formulari bancari, ossia documenti ove la banca richiede alla società di dichiarare la propria disponibilità a rilasciare future garanzie su richiesta della banca stessa. La dottrina italiana ha risposto negativamente a tale quesito, evidenziando che si tratta di un semplice vincolo obbligatorio cui non corrisponde alcuna contestuale costituzione di garanzia[38]. Solo con il successivo atto di concessione, infatti, le garanzie nascono effettivamente. Di talché, a parere di chi scrive, è opportuno che la banca, se di suo interesse, includa esplicitamente nel divieto in parola anche tale eventualità, mediante l’inserimento di un’apposita previsione nel contratto di finanziamento.

Una particolare variante di questa tipologia di covenants è data dalla c.d. clausola negativa con facoltà alternativa, in forza della quale si impone all’impresa il divieto di costituire garanzie a favore di terzi, attribuendole, però, la facoltà di sottrarsi a tale divieto concedendo equivalenti garanzie anche alla banca[39]. Nella prassi, tuttavia, l’utilizzo di tale covenant pare infrequente: invero, se pure la banca ottenga pari garanzia a quella rilasciata ad altro creditore, non di meno dovrà scontare il concorso con quest’ultimo qualora si renda necessaria la sua escussione.

Altro tipo di negative covenant è quello che prevede una restrizione alla libertà del debitore di disporre dei beni aziendali, non solo impedendo la loro alienazione, ma anche, per esempio, la concessione a terzi di diritti reali di godimento sul patrimonio dell’impresa[40]. Diversamente dalla tipologia precedentemente esaminata, tali covenants mirano, per quanto possibile, a mantenere intatto il valore del patrimonio della finanziata[41].

La principale criticità di queste particolari clausole di inalienabilità è che devono confrontarsi con la valutazioneex art. 1379 c.c., la quale mal si concilia con divieti di alienazione a carico della debitrice che siano particolarmente penetranti e, in particolar modo, estesi per la durata del finanziamento, quando questo sia a medio o lungo termine; il che, però, si rivela contrastante all’interesse della banca, che si troverebbe così garantita da un divieto di alienazione, per così dire, “statico”, totalmente slegato all’evoluzione invece dinamica del patrimonio aziendale[42]. Ciò nonostante, la prassi bancaria si è conformata ai limiti imposti dall’art. 1379 c.c. e conosce, infatti, un uso mirato e circoscritto di tali divieti, che sono espressamente limitati a specifici elementi del patrimonio dell’impresa da finanziare, così salvandoli dalla scure dell’invalidità. In questo modo, infatti, da un lato, si agevola l’osservanza dei negative covenants da parte della debitrice e, dall’altro, si facilita l’attività di controllo della banca.

Oggetto di questa tipologia di covenants sono, tipicamente, beni immobili o impianti di particolare valore. Tuttavia, è diffusa anche la prassi di prevedere tali divieti con riferimento a beni mobili, quali macchinari, brevetti, titoli, partecipazioni e, se pure in misura minore, autoveicoli[43].

Inoltre, nei casi in cui vengano compresi nel covenant in parola anche i crediti, presenti o futuri, può accadere che l’impresa finanziata abbia già concesso ad una banca il privilegio ex art. 46, primo comma, lett. a), b) e c), T.U.B. prevedendone altresì l’estensione ai crediti di cui alla lett. d) eventualmente successivi alla stipulazione del covenant stesso: in tal caso, evidentemente, il covenant non può comprendere anche tali crediti futuri, i quali hanno la mera funzione di sostituire il bene su cui già gravava il privilegio[44].

Infine, meritano qualche cenno per la loro crescente diffusione nella prassi bancaria i già citati covenants pari passu, che comportano l’obbligo per l’impresa finanziata di ripristinare a vantaggio della banca la par condicio creditorum violata mediante la concessione di garanzie a terzi[45]. A prima vista simile alla già citata clausola negativa con facoltà alternativa, la clausola pari passu si differenzia da questa perché, oltre al divieto per la debitrice di concedere garanzie a terzi, prevede il diritto della banca ad avere un’identica garanzia sui beni dell’impresa.

La parità cui mira la clausola pari passu dovrebbe essere, prima facie, individuata in via generale da alcuni parametri, quali lo stesso tipo di garanzia, lo stesso grado, lo stesso oggetto, la stessa quota di credito garantito, lo stesso soggetto datore, lo stesso momento di costituzione[46]. All’atto pratico, però, un’analitica individuazione di tali parametri si rivela assai difficoltosa e, quand’anche possibile, la rigida applicazione di essi potrebbe richiedere anche il coinvolgimento dei terzi cui le garanzie reali sono state concesse o che hanno rilasciato una garanzia personale. Di qui, la preferenza per una formula aperta con cui si stabilisca l’obbligo dell’impresa finanziata di costituire in favore della banca garanzie equivalenti per valore a quella concesse ad altri creditori, con conseguente irrilevanza della natura giuridica e del tipo di garanzia.

4. Violazione delle clausole e poteri del creditore: la sanzione per l’inadempimento dei covenants.

I covenants fondano la loro efficacia su un complesso apparato sanzionatorio, contrattualmente previsto e disciplinato, che può essere azionato qualora l’impresa finanziata violi gli impegni assunti nei confronti della banca e racchiusi nei covenants stessi.

La prassi più diffusa è quella di collegare alla violazione di uno o più vincoli contrattuali l’automatica risoluzione del contratto di finanziamento, attraverso la previsione di una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., e la decadenza dal beneficio del termine della debitrice rispetto al rimborso del credito[47].

Tuttavia, qualora si tratti del finanziamento di un’impresa organizzata in forma societaria, il (concreto) potere di porre in essere gli atti e i comportamenti necessari a garantire l’adempimento dei covenants è in capo a soggetti diversi rispetto al debitore stesso (la società finanziata). Infatti, talora sono solo i soci ad essere titolari del relativo potere giuridico – si pensi, ad esempio, alle decisioni in materia di distribuzione di utili o relative al capitale sociale nell’ipotesi in cui sia sceso al di sotto della soglia stabilita nel covenant, le quali, se pure adottate dai soci, sono comunque giuridicamente imputabili alla società –: il contratto di finanziamento, però, è concluso tra la società e la banca, sicché quest’ultima non ha titolo per agire contro i soci – in quanto terzi rispetto al contratto stesso – onde richiedere l’esecuzione degli impegni assunti in base al covenant violato[48].

Al fine di porre rimedio a questa situazione, nella prassi bancaria i covenants medesimi, caratterizzando la violazione da parte dell’impresa finanziata dei vincoli dagli stessi posti a suo carico quale specifico event of default, attribuiscono alla banca – intervenuto che sia tale evento – particolari diritti propedeutici alla risoluzione del contratto. Di regola, infatti, la sanzione della risoluzione del contratto, con annessa decadenza dell’impresa debitrice dal beneficio del termine, pur se espressamente prevista nel contratto di finanziamento, non è attivata hic et nunc dalla banca, poiché non funzionale al raggiungimento dei suoi interessi: la risoluzione costituisce solo l’extrema ratio di un articolato e complesso impianto rimediale che lo stesso contratto definisce e scandisce[49].

In tale ottica, qualora in ragione della violazione di un covenant non si determini quel rilevante peggioramento della classe di merito creditizio dell’impresa debitrice espressamente individuato da una c.d. material adverse change clause[50], la banca – ove prevista una specifica waiver clause, ossia una clausola di rinuncia – può decidere di rinunciare temporaneamente, a titolo gratuito (ipotesi assai infrequente) o oneroso, a pretenderne l’osservanza, sospendendone di conseguenzal’efficacia per un periodo di tempo predeterminato (il c.d. grace period)[51]. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di rinunce a titolo di corrispettivo – di regola, compensate da maggiori interessi o nuove garanzie – che vengono concesse solo a fronte della presentazione da parte dell’impresa finanziata alla banca di piani industriali attendibili che consentano a quest’ultima di valutare l’andamento finanziario della debitrice nel successivo triennio.

Di contro, quando dalla violazione dei covenants emerga un sensibile aumento del rischio di perdite per la banca, essa attiverà immediatamente una serie di misure cautelative nei confronti della finanziata, quali[52]:

  • la rinegoziazione (rectius, l’applicazione) di tassi d’interesse più alti. Soluzione che, però, aggrava lo stato di difficoltà del debitore e, perciò, si usa con molta attenzione;
  • la richiesta di rilascio di nuove garanzie supplementari;
  • la riduzione dell’indebitamento dell’impresa debitrice mediante la cessione di assets non strategici;
  • l’intervento sulla libertà di scelta di gestione imprenditoriale, di regola imponendo al management della finanziata di ottenere il preventivo consenso della banca stessa per il compimento di determinati atti od operazioni.

In questo contesto, inoltre, assumono particolare rilevanza le c.d. cross default clauses, ossia clausole in forza delle quali determinati eventi che pur non influiscono in modo diretto sugli impegni assunti dall’impresa finanziata determinano il default in ragione di impegni derivanti da altri contratti di credito. Questi eventi – definiti appunto cross default events – sono eventi di risoluzione incrociati che comportano la decadenza dal beneficio del termine, rendendo così ipso facto esigibile il credito: ciò avverrà, ad esempio, quando l’impresa finanziata non adempia alle sue obbligazioni non solo nei confronti della banca, bensì anche verso terzi creditori.

Attraverso l’individuazione di tali eventi in appositi covenants, pertanto, è possibile creare una correlazione tra diversi rapporti di finanziamento facenti capo alla medesima impresa, ponendo altresì in capo a quest’ultima un dovere di costante informativa sugli stessi e sulla loro esecuzione. In questo modo, l’inadempimento nei confronti di soggetti terzi viene giuridicamente qualificato come inadempimento anche nei confronti della banca, sebbene la finanziata adempia correttamente le proprie obbligazioni nei confronti dell’istituto di credito[53].

Peraltro, come di regola le altre garanzie negative previste nei covenants, la cross default clause mira a tutelare la par condicio creditorum, assicurando alla banca un’immediata capacità di reazione nell’ipotesi in cui il debitore si renda inadempiente in un rapporto con un altro soggetto[54]; e ciò in ragione del fatto che, con tale clausola, si rende possibile l’immediata rilevazione del peggioramento del merito creditizio dell’impresa finanziata, altrimenti non prontamente rilevabile.

5. Le condizioni di validità dei covenantse il controllo sulla proporzionalità.

Chiariti il contenuto dei covenants e i presidi rimediali-sanzionatori posti a salvaguardia della loro osservanza, si tratta ora di valutare quando tali particolari vincoli contrattuali frutto dell’autonomia privata possano ritenersi validi all’esito del (necessario) giudizio di meritevolezza.

A tale proposito, è stato correttamente osservato dalla dottrina d’oltralpe[55] che una «buona garanzia» non può identificarsi solamente con una solida garanzia per la banca, tale da assicurare a quest’ultima una protezione efficace, ma deve altresì configurarsi alla stregua di una garanzia equilibrata che non limiti o pregiudichi eccessivamente gli interessi dell’impresa finanziata e dei terzi, pena la nullità della stessa. Donde consegue l’esigenza di un bilanciamento complesso (ma effettivo) tra gli interessi in gioco che costituiscono la funzione tipica della disciplina delle garanzie concesse alla banca e, più in generale, ad ogni creditore.

In tal guisa, assume preminente rilevanza nell’area dei covenants il principio di proporzionalità: il vaglio di meritevolezza dell’autonomia privata con riferimento alla materia delle garanzie conosce una nuova strada alla luce di tale principio, da intendersi, in primis, come strumento di adeguamento dell’intensità della garanzia rispetto all’ammontare del credito[56]. Parte della dottrina italiana ha rilevato che sarebbe lo stesso codice civile, all’art. 1179 c.c., ad individuare, in via di principio, i requisiti della «buona garanzia», che dovrebbe essere per l’appunto idonea o sufficiente, quindi proporzionata al rischio cui è esposto il creditore[57]. A parere di chi scrive, però, la norma in questione sancisce il principio per cui il debitore non può fornire una garanzia inidonea, non che questa non possa essere più che sufficiente, fermo, com’è ovvio, il limite della proporzionalità[58].

Per comprendere la reale portata applicativa del principio di proporzionalità in tema di covenants occorre soffermarsi ulteriormente.

Si è detto che la banca attribuisce ai covenants una finalità di garanzia preventiva. In ragione della loro stipulazione, poi, si è visto che alla banca vengono riconosciuti diversi diritti e poteri che le consentono di esercitare un’influenza sulla gestione dell’impresa finanziata. Mediante i covenants, quindi, la banca può tempestivamente attivarsi al profilarsi di una (ancorché eventuale) situazione di crisi della debitrice.

Allo stesso tempo, però, i covenants costituiscono per l’impresa finanziata un’ampia serie di stringenti limiti alla libertà gestoria e di iniziativa imprenditoriale. La loro validità, pertanto, è subordinata ad un positivo giudizio circa la permanenza di autonomia economica e imprenditoriale dell’impresa finanziata, tenendo anche in debita considerazione il sistema sanzionatorio attivabile a seguito della violazione dei covenants[59].

In definitiva, deve ritenersi che tutte le condizioni, i diritti e i poteri di controllo riconosciuti dai covenants a favore della banca congiuntamente considerati non dovrebbero offrire a quest’ultima l’opportunità di influenzare attivamente (nel senso di diritti di iniziativa) la politica aziendale e le scelte gestorie dell’impresa finanziata[60]. Tali pattuizioni, dunque, non possono legittimare la banca a sostituire i propri obiettivi a quelli della debitrice nelle politiche di gestione di quest’ultima.

Da ciò discende l’esigenza di verificare l’effettiva proporzionalità del bilanciamento operato dai covenants nel conflitto tra gli interessi della banca alla garanzia e al controllo della finanziata, da una parte, e l’autonomia gestoria e imprenditoriale di quest’ultima, dall’altra. Giudizio di proporzionalità, però, che dev’essere condotto sulla base di uno specifico parametro: quanto maggiore è l’ammontare del finanziamento, tanto più l’interesse della banca dipende dal successo economico dell’impresa finanziata e, quindi, tanti più diritti di controllo la banca dovrebbe essere in grado di esercitare nei confronti dell’impresa[61]. Tale controllo, però, non deve consentire alla banca di ostacolare la libertà d’impresa della finanziata al punto tale da ritenere quest’ultima privata della propria autonomia gestoria: alla luce di ciò, fermo quanto si dirà infra in merito alla concreta valutazione circa il rispetto del requisito di proporzionalità, può già ora affermarsi che i covenants che trasferiscano tout court il potere gestionale dall’impresa all’ente creditizio dovranno considerarsi “abusivi” e, quindi, invalidi.

È questa, pertanto, la prospettiva dalla quale dev’essere verificato il rispetto del principio di proporzionalità da parte dei covenants.

Così, quando semplicemente riconoscono alla banca una periodica e sistematica informativa in merito alla gestione dell’impresa finanziata e ai risultati di questa, i covenants costituiscono un’ingerenza legittima e giustificata nell’autonomia imprenditoriale della debitrice.

In tale ottica, poi, è bene osservare che i financial covenants non comportano un (totale) annullamento dell’autonomia dell’impresa debitrice, poiché non impongono alcuno specifico atto gestorio o decisione aziendale. Invero, essi costituiscono un complesso di obiettivi vincolanti per la politica imprenditoriale a garanzia del credito della banca, lasciando libera la finanziata di assumere le singole decisioni (a seguito delle proprie autonome valutazioni) per raggiungerli[62]. Di conseguenza, il rapporto che lega gli interessi della banca e quelli dell’impresa finanziata non è di contraddizione, bensì di sincronizzazione; entrambe, infatti, mirano a massimizzare il valore dell’impresa, se pure per scopi diversi: la banca per garantirsi il rimborso del finanziamento, l’impresa per conseguire il proprio oggetto sociale[63].

Le medesime considerazioni devono svolgersi per i negative covenants, che pongono a carico della debitrice divieti di compiere determinate operazioni aziendali, in particolare l’esecuzione di investimenti e la stipulazione di nuovi contratti di finanziamento o la concessione di garanzie ad altri creditori. Siffatte previsioni sono da considerarsi valide solo quando strettamente funzionali a garantire il perseguimento delle finalità dell’operazione di credito, come si è detto anche per la finanza di progetto e le acquisizioni societarie[64]. D’altro canto, tali divieti appaiono molto più stringenti dell’autonomia imprenditoriale della finanziata rispetto ai financial covenants, specie in relazione alle decisioni gestorie economicamente vantaggioso o necessarie[65].

Peraltro, nella prassi bancaria emerge la tendenza a subordinare il compimento di tali atti alla preventiva autorizzazione della banca, senza però disciplinare in modo analitico l’ambito di esercizio di tale facoltà[66]. Un tale covenant non può che lasciare perplessi in ordine alla sua validità: la sopravvivenza di tali previsioni al giudizio di meritevolezza può ottenersi solo ritenendo che l’autorizzazione costituisca un atto dovuto qualora vi sussista una comprovata convenienza economica dell’operazione oppure subordinando la possibilità di diniego da parte della banca all’esistenza di una giusta causa[67].

Sui negative covenants si è espressa pure la giurisprudenza italiana[68], riconoscendo la loro idoneità a svolgere una funzione di garanzia per la banca per la realizzazione del proprio credito, in quanto mirano espressamente a creare le condizioni per cui la debitrice disponga dei mezzi sufficienti ad adempiere alle proprie obbligazioni[69].

Il controllo su tali garanzie negative è affidato prioritariamente[70] all’art. 1379 c.c., in forza del quale la validità di tali clausole è legata, come detto,all’osservanza di un principio di proporzionalità. Quest’ultima dev’essere verificata rispetto all’oggetto del contratto nel quale sono inseriti i negative covenants che ne devono garantire l’adempimento e, in particolare, in funzione dell’oggetto del contratto di finanziamento; in altri termini, alla finalità della complessiva operazione economica[71].

Tale prospettiva pare evidente specie in relazione alle c.d. clausole negative semplici, le quali si limitano a stabilire divieti di alienazione o di costituzione di cause di prelazione a favore di terzi creditori[72].

In base al disposto dell’art. 1379 c.c., i negative covenants – costituendo un’eccezione al principio di ordine pubblico della libera disponibilità dei beni e della loro libera circolazione – devono ritenersi validi quando rispondono ad un apprezzabile interesse di una delle parti e se contenuti entro convenienti limiti di tempo. Pertanto, il vulnus all’ordine pubblico economico è ammissibile solo ove giustificato dalla tutela di interessi privati particolarmente rilevanti: prende forma, così, un’idea di proporzionalità tra il vulnus inferto all’ordine pubblico economico e gli interessi individuali che le garanzie negative mirano a tutelare[73].

Ovviamente, la verifica della rilevanza dell’interesse protetto dai negative covenants deve tenere conto di tutte le caratteristiche della fattispecie, in particolare lo scopo dell’operazione economica, essendo tali clausole stipulate a titolo di garanzia nell’interesse della banca[74]. Tuttavia, non pare sufficiente invocare il mero interesse a conservare intatto il patrimonio aziendale per riconoscere tout court la liceità del covenant, a prescindere dalla concreta previsione nello stesso contenuta, in quanto comunque giustificata da un apprezzabile interesse della banca[75]. Questo, infatti, è il rischio che corre qualsiasi creditore che subisce gli atti compiuti dal suo debitore[76].

Di conseguenza, il limite ultimo per l’autonomia privata è dato dalla necessità di non operare una sostanziale privazione della libertà economica dell’impresa debitrice[77]. Per condurre il giudizio di validità del negative covenant occorre, dunque, confrontare i benefici derivanti alla banca dai vincoli al potere di disposizione ivi previsti e le conseguenze negative derivanti dal covenant stesso. Solo all’esito di un giudizio positivo può ritenersi valida la deroga convenzionale al principio di libera disponibilità dei beni.

Secondo parte della dottrina, si tratta di verificare se e in che misura i divieti stabiliti per mezzo dei covenants determinino migliori condizioni di finanziamento in relazione alla loro precipua funzione di tutela del credito[78]. Così, tutto si ridurrebbe, secondo tali autori, ad una questione di “misura” rispetto all’operazione di finanziamento e all’adeguatezza della garanzia, con, in filigrana, l’idea di un rapporto di proporzionalità tra il rispetto delle regole di ordine pubblico e la tutela degli interessi in gioco assicurata mediante la clausola di inalienabilità.

A parere di chi scrive, tuttavia, tale orientamento non pare persuasivo, rivelando un approccio eccessivamente semplicistico ad una questione che – come si è avuto modo di constatare dall’analisi sin qui svolta – presenta profili di criticità che impongono maggiore attenzione nella valutazione della legittimità dei covenants previsti nei contratti di finanziamento bancario.

In tale contesto, chi scrive ritiene sicuramente invalidi i vincoli di carattere generale e assoluti al potere di disposizione dell’impresa debitrice, con contestuale attribuzione di un corrispondente diritto di veto in capo alla banca, poiché comportano la totale paralisi della libertà di iniziativa della finanziata: in questi casi la possibilità di valutare l’effettiva apprezzabilità dell’interesse protetto con riferimento alle finalità dell’operazione è esclusa in radice e il rimedio azionabile sarà quello della nullità parziale o, in forza della nullità del covenant, totale del contratto in base al contenuto complessivo dello stesso.

È bene segnalare, tuttavia, che si tratta di un’ipotesi marginale. Di regola, infatti, la prassi bancaria circoscrive l’ambito di estensione del negative covenant, individuando gli specifici beni del patrimonio aziendale soggetti ai vincoli di indisponibilità, le tipologie di operazioni creditizie per le quali l’impresa finanziata si impegna a non concedere garanzie specifiche, nonché le ipotesi di esenzione dell’osservanza dei divieti stabiliti dal covenant stesso.

Ad ogni buon conto, qualora una tale eventualità si verifichi, si è tenuti, da un lato, a considerare legittimo l’interesse della banca ogniqualvolta il bene oggetto del divieto di alienazione non abbia un valore eccessivamente superiore a quello del credito garantito e, d’altro lato, a negare ogni valenza a tale interesse nel caso contrario[79]. È a questa condizione che il covenant di inalienabilità potrà trovare posto accanto alle garanzie tradizionali.

Inoltre, va rilevato che la vigenza del principio di proporzionalità della garanzia (e, quindi, del covenant) è imprescindibile anche nella fase dinamica del rapporto di finanziamento, ossia durante l’esecuzione del contratto. Ciò si ricava applicando in via analogica i principi dettati dagli artt. 2872 e seguenti c.c. in materia di riduzione delle ipoteche e dagli artt. 38 e seguenti T.U.B. disciplinanti il credito fondiario.

Quanto agli artt. 2872 e seguenti c.c., come noto, essi prevedono la possibilità di operare la riduzione[80] delle ipoteche (legali o giudiziali) qualora i beni compresi nell’iscrizione abbiano un valore che eccede la cautela da somministrarsi – e tale si reputa il valore che, tanto alla data dell’iscrizione quanto posteriormente, supera di un terzo l’importo dei crediti iscritti, accresciuti degli accessori ex art. 2855 c.c. – oppure se la somma determinata dal creditore nell’iscrizione ecceda di un quinto quella che l’autorità giudiziaria dichiara dovuta.

Nello stesso senso si esprimono anche gli artt. 38 e seguenti T.U.B. in materia di credito fondiario. L’art. 39, quinto comma, T.U.B., invero, stabilisce espressamente che «I debitori, ogni volta che abbiano estinto la quinta parte del debito originario, hanno diritto a una riduzione proporzionale della somma iscritta. Essi hanno inoltre il diritto di ottenere la parziale liberazione di uno o più immobili ipotecati quando, dai documenti prodotti o da perizie, risulti che per le somme ancora dovute i rimanenti beni vincolati costituiscono una garanzia sufficiente ai sensi dell’art. 38».

Emerge per tabulas in tali discipline, dunque, un principio di proporzionalità tra valore della garanzia e ammontare del credito garantito: al ridursi di quest’ultimo potrà o dovrà, a seconda dei casi, ridursi anche il valore della garanzia.

Alla luce di quanto detto, si può concludere che un covenant che superi il vaglio di proporzionalità al momento della conclusione del contratto potrebbe, successivamente, perdere questa qualità e divenire “abusivo”[81]. Si pensi, per esempio, al caso in cui l’impresa abbia provveduto a rimborsare una cospicua parte del credito erogatole, rendendo così manifestamente eccessivi i vincoli imposti dai covenants rispetto all’entità del credito residuo e garantito da quegli stessi vincoli.

La soluzione, in questi casi, sarà data dalla rinegoziazione del covenant divenuto eccessivo rispetto all’importo di finanziamento ancora da rimborsare. Acquistano così particolare rilevanza, allora, le previsioni contenute negli artt. 1366, 1367, 1374 e 1375 c.c.: l’impresa finanziata appare, dunque, legittimata a chiedere una rinegoziazione (in buona fede) dei negative covenants in modo da restringerne il contenuto, così da ripristinare l’osservanza del principio di proporzionalità, sussistente ab origine e venuta meno in itinere[82]. Tale eventualità, peraltro, pare annoverabile nel panorama delle sopravvenienze contrattuali, dalle quali discenderebbe (anche qui) il dovere di rinegoziazione del covenant interessato[83].

6. La nullità dei covenants.

Se all’esito del giudizio di validità e meritevolezza dei covenants sin qui esposto dovesse risultare la nullità degli stessi, appare opportuno verificare, giusto il dettato dell’art. 1419 c.c., quali conseguenze tale nullità può avere sul complessivo contratto di finanziamento.

La nullità del covenant, pertanto, comporterà la nullità dell’intero contratto solo qualora sia dimostrato che la banca e l’impresa finanziata non lo avrebbero concluso in mancanza del covenant colpito da nullità.

Tale soluzione, però, non soddisfa a pieno. Infatti, è evidente che la banca non sarà particolarmente dissuasa dall’inserire covenants anche particolarmente stringenti, magari nella consapevolezza della loro invalidità, se è certa che, ove fatta valere, la nullità di quella clausola comporterà il venir meno dell’intero contratto, senza nulla perdere.

Donde consegue che limitare la sanzione alla dichiarazione di nullità parziale del contratto è senza dubbio soluzione più opportuna (se pure trattasi di una quaestio facti da risolvere caso per caso). Invero, la caducazione del solo covenant sproporzionato (e non dell’intero regolamento contrattuale) appare lo strumento più efficace per indurre la banca a non inserire tale clausola sin dall’inizio: ella si troverà altrimenti nella spiacevole situazione di essere privata della garanzia prevista nel covenant senza, tuttavia, poter invocare la nullità del contratto di finanziamento in cui il covenant nullo è inserito[84].

D’altro canto, la dimostrazione del fatto che senza l’inserimento del covenant sproporzionato le parti non avrebbero concluso il contratto di finanziamento non comporta tout court la caducazione dell’intero contratto, giusto il disposto degli artt. 1366 e 1367 c.c. in materia di interpretazione del contratto[85].

Invero, la nullità del covenant consegue alla violazione del principio di proporzionalità, in quanto comporta per la sua concreta estensione applicativa una illegittima restrizione dell’autonomia imprenditoriale, della libertà di iniziativa e del potere di disposizione dell’impresa debitrice. Ma, come si è visto, il nostro ordinamento sanziona con la nullità non la mera scelta dell’autonomia privata di inserire nel regolamento contrattuale un covenant a garanzia del credito, bensì la sua sproporzionata estensione contenutistica.

Sicché, se il covenant è dichiarato invalido a causa della sua illecita estensione e l’impresa debitrice offre ex art. 1179 c.c. l’opportunità di ridisegnarla, formulandola in modo da osservare il principio di proporzionalità, la banca deve ritenersi tenuta, in forza del citato art. 1366 c.c., a rinegoziare il contenuto del covenant: è così realizzato un effetto conservativo dell’intero contratto di finanziamento, nell’interesse di entrambe le parti, in totale coerenza con il disposto dell’art. 1367 c.c.[86].

7. COVID-19, covenants, misure di forbearance e forborne exposures.

Si tratta ora di capire quali sono gli scenari che possono dipanarsi nel caso in cui un’impresa che abbia ottenuto un finanziamento corra il rischio di violare uno o più covenants – di qualsiasi tipologia – a causa dell’attuale crisi sanitaria e della sospensione della propria attività imposta dai molteplici decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri che si sono susseguiti (c.d. factum principis). In particolare, si tenterà di rispondere alla domanda se e come l’impresa finanziata possa reagire all’esercizio da parte della banca del covenant e all’attivazione del sistema sanzionatorio previsto per il caso di sua violazione.

Anzitutto, sono sicuramente da escludere i rimedi previsti in tema di impossibilità sopravvenuta della prestazione (artt. 1256, 1258, 1463 e 1464 c.c.): come noto, infatti, la prestazione principale dell’impresa finanziata (restituzione del capitale e pagamento degli interessi) appartiene al genus delle prestazioni pecuniarie, per definizione sempre possibili[87].

Credo, poi, sia possibile sgomberare il campo dall’ipotesi di nullità del covenant, che non ritengo possa essere invocata fondatamente in questo caso: meglio, non ritengo possa essere invocata a causa della crisi sanitaria. Infatti, non pare potersi affermare che un covenant ab origine rispettoso del principio di proporzionalità possa aver perso tale sua qualità in ragione degli effetti negativi del coronavirus. Anzi, essendo con ogni probabilità peggiorato il merito creditizio e, quindi, aumentato il rischio di credito sopportato dalla banca, ben difficilmente potrà contestarsi – in assenza di provvedimenti legislativi a tutela dell’affidato – il sorgere del diritto di quest’ultima a pretendere dalla finanziata il rilascio di ulteriori garanzie a tutela del proprio credito, con conseguente innalzamento della “asticella” del requisito di proporzionalità[88].

Ancora, ritengo si possa escludere – per una ragione di convenienza, più che di legalità – anche il rimedio dell’eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. Tale norma prevede, come noto, che nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili non rientranti nell’alea normale del contratto, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto (primo comma), salva la possibilità per la controparte di evitare la risoluzione offendo di modificare equamente le condizioni del contratto (terzo comma). Se pure il rimedio in parola fosse astrattamente applicabile anche ad un contratto di finanziamento “vessatorio” – giacché l’emergenza epidemiologica da COVID-19 integra un avvenimento straordinario e imprevedibile, estraneo all’alea normale del contratto di mutuo e idoneo ad alterare il sinallagma contrattuale –, all’atto pratico l’impresa finanziata non avrebbe probabilmente interesse ad attivarlo poiché, ove la domanda di risoluzione fosse accolta, essa sarebbe costretta a restituire alla banca l’intero debito residuo. Né, per lo stesso motivo, tale strumento potrà essere utilizzato come “minaccia” nei confronti della banca per costringerla ad offrire ex art. 1467, terzo comma, c.c. una modifica (al ribasso) delle condizioni.

Come visto, dunque, le soluzioni rimediali (tipiche) offerte dal codice civile non soddisfano.

All’impresa finanziata, pertanto, non resterà che una possibilità: tentare di negoziare un waiver con la banca. Di regola, come detto, i contratti di finanziamento in cui sono inseriti dei covenants contengono anche una apposita clausola in forza della quale la banca può decidere di rinunciare temporaneamente a pretendere l’osservanza di un covenant, sospendendone così l’efficacia per un determinato grace period. Ebbene, nel caso in cui l’impresa finanziata ritenga di non poter rispettare un covenant a causa dello stato di difficoltà finanziaria dovuto alla sospensione dell’attività disposta dal Governo, o comunque alla situazione emergenziale in atto, la soluzione migliore sarà quella di chiedere alla banca l’attivazione della waiver clause e tentare di negoziare – non senza difficoltà, non avendo la banca alcun obbligo di rinegoziazione – una rimodulazione dell’affidamento concesso e, in particolare, la rinuncia a pretendere l’osservanza di uno o più covenants contenuti nel contratto.

Nel caso in cui la banca aderisca alla richiesta della finanziata, peraltro, si pone un problema regolamentare non indifferente, in quanto il waiver concesso dall’ente creditizio potrebbe essere qualificato, ai sensi della normativa vigente, come una misura di forbearance, ossia «concessioni nei confronti di un debitore che si trova o è in procinto di trovarsi in difficoltà a rispettare i propri impegni finanziari»[89] in applicazione del favor debitoris[90]: la ratio delle misure di tolleranza, infatti, è quella di evitare che una esposizione in bonis divenga deteriorata (c.d. “non-performing exposure”) oppure di riportare in bonis una esposizione deteriorata. La conseguenza della qualificazione del waiver come misura di forbearance non è priva di conseguenze: al finanziamento che ne è oggetto trova applicazione la disciplina sulle forborne exposures – sulla quale non è qui possibile dilungarsi – che sottopone l’esposizione (e l’impresa) beneficiaria della misura ad una penetrante e prolungata attività di monitoring da parte dell’ente creditizio, per un periodo che può durare anche più di due anni, tra cui rientra l’obbligo di mettere a disposizione della banca un’ampia serie di informazioni e documenti.

La qualificazione quale misura di forbearance è sicuramente da escludere nel caso in cui l’impresa finanziata non fosse in stato di crisi economico-finanziaria prima dell’inizio dell’emergenza coronavirus, in quanto, come detto, le forbearance measures sono misure di tolleranza concesse dalla banca al debitore in difficoltà per agevolare il regolare adempimento delle sue obbligazioni.

Diversamente, qualora l’impresa versasse già in uno stato di difficoltà finanziaria prima della crisi sanitaria (anche se da quest’ultima probabilmente aggravato), in linea teorica il waiver dovrebbe essere qualificato quale misura di forbearance. Tuttavia, alla luce dell’elevato rischio sistemico da ciò derivante e per prevenire una potenziale «disruption», l’EBA ha di recente emanato proprie linee guida[91] sulle moratorie “di portata generale”[92] concesse al fine di far fronte alla pandemia in essere, consentendo, a talune condizioni, una deroga alla disciplina delle forbearance measures[93]. Qualora siano soddisfatte le condizioni individuate dall’EBA, la moratoria concessa dalla banca non dovrebbe essere qualificata come misura di forbearance. Non di meno, trattandosi di linee guida, quindi di soft law non vincolanti, la banca potrebbe comunque qualificare il waiver come misura di forbearance in via prudenziale, onde evitare possibili contestazioni da parte delle Autorità di Vigilanza in caso di dissesto.

In conclusione, quindi, qualora a causa della crisi sanitaria e dei connessi provvedimenti adottati dal Governo l’impresa finanziata rischi di essere (o sia già) inadempiente ad uno o più covenants contenuti nel contratto di finanziamento, l’unica strada che la debitrice potrà percorrere sarà quella di instaurare con la banca una negoziazione per la concessione di un waiver, la cui durata dovrà essere pari al tempo necessario ad essa per superare la (temporanea) situazione di crisi dovuta all’emergenza da COVID-19. La banca, però, non avrà alcun obbligo di accogliere la richiesta della finanziata, con la conseguenza che ottenere un waiver sarà sicuramente più facile per l’impresa la cui difficoltà finanziaria trovi origine esclusivamente nella crisi sanitaria e negli effetti negativi di questa, mentre qualche ostacolo in più incontrerà l’impresa che versava già in uno stato di crisi.



[1] V. Stuppia, I covenants nei finanziamenti a medio e lungo termine, in Trust e attività fiduciarie, 2011, XI.

[2] A. Rizzo, Covenant e valutazioni qualitative per la concessione del credito, Cuneo, 2018, 3 ss.

[3] Cfr. art. 1 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 11 marzo 2020.

[4] Cfr. art. 1, primo comma, lett. a) e c), Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 marzo 2020.

[5] Cfr. art. 1 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1° aprile 2020.

[6] Cfr. art. 1 Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 aprile 2020, il quale ha abrogato tutti i D.P.C.M. precedenti al fine di riportare all’interno di un unico decreto le disposizioni da questi previste, prorogando altresì l’efficacia di tali previsioni sino al 3 maggio 2020.

[7] In particolare, l’industria manifatturiera e quella edilizia. Le attività consentite a partire dal 4 maggio 2020 sono indicate nell’allegato 3 al D.P.C.M. del 26 aprile 2020.

[8] Contratti di finanziamento che, per il concreto contenuto delle clausole ivi previste, ritengo si possano definire – senza con ciò riferirmi all’uso civilistico di tale termine – come “vessatori” in ragione delle pattuizioni inserite nei covenants, termine con il quale ci si riferisce alla pattuizione, accessoria rispetto ad un contratto di finanziamento o interna ad esso, in forza della quale il debitore assume espliciti e puntuali impegni finalizzati a garantire la restituzione della somma erogata

[9] G. Piepoli, Profili civilistici dei covenants, in Banca borsa tit. cred., 2009, 5, 498 ss.

[10] Si veda, in proposito, Banca Mediocredito, I covenants di bilancio dei finanziamenti a medio e lungo termine, Roma, 2003, 11.

[11] Ma pare essere nelle intenzioni del legislatore colmare tale lacuna legis in sede di riforma del codice civile. Nel Disegno di Legge n. 1151 del 19 marzo 2019, infatti, si legge che «Si prevede, altresì, la disciplina di nuove forme di garanzia del credito, anche in considerazione delle prassi contrattuali in ambito bancario e finanziario […] Il criterio direttivo è quello del recepimento normativo di prassi o schemi negoziali che si siano già consolidati “nell’uso bancario e finanziario”. Indice di siffatta diffusione si ha, oltre che nei relativi protocolli operativi, nelle numerose pronunce giurisprudenziali in tema di garanzie atipiche (dalle alienazioni a scopo di garanzia, compresi la cessione di credito a scopo di garanzia e il mandato all’incasso o il sale and lease back, alle garanzie personali atipiche, primo fra tutti il contratto autonomo di garanzia, e non escluse le discusse figure della lettera di patronagee delle clausole di covenant)». Peraltro, giova osservare che, nonostante la diffusione di tali clausole, la dottrina italiana non ha manifestato particolare interesse per questo fenomeno: pertanto, nel condurre la presente indagine sono state approfondite le opinioni espresse dalla dottrina tedesca e quella francese, particolarmente floride sul punto.

[12] D. Galletti, I covenants e le altre garanzie atipiche nel private equity e nei finanziamenti bancari, disponibile su www.unitn.it.

[13] E. Rehbinder, Rechtsfragen der Verwendung von Covenants in Kreditverträgen, Berlino, 2003.

[14] In questo senso: G. Piepoli, op. cit., 499, secondo il quale i covenants «se originariamente si sono affermati nei contratti relativi a crediti internazionali, quale alternativa rispetto alle garanzie reali, a partire dagli ultimi anni trovano una sempre più significativa utilizzazione nell’ordinamento interno»;W. Servatius, Gläubigereinfluss durch Covenants, Tubinga, 2008, 1, ove si legge che «Im Hinblick auf die frühzeitige und flexibel auf das jeweilige Unternehmen abstimmbare Krisenerkennung und -bewältigung werden covenant-unterlegte Finanzierungsverträge in der ökonomischen Theorie sogar als sinnvolle marktwirtschaftliche Alternative zum staatlichen Insolvenzverfahrem angesehen»; B. Raynaud, La stipulation d’indisponibilité, Clermont-Ferrand, 2004, 207 ss.; G. Giannelli, Covenants finanziari e finanziamento dell’impresa di gruppo in crisi, in RDS, 2009, III, 609 ss. Tra le principali argomentazioni poste dalla dottrina a sostegno di tale assunto, si è rilevato che in quest’ottica, a differenza delle procedure concorsuali: i) non sono presenti i costi della gestione della procedura; ii) tramite i covenants la banca e la debitrice godono di maggiore flessibilità; iii) si possono realizzare accordi che si adattano alla situazione concreta; iv) si può addirittura prevenire l’insolvenza, attraverso l’attività di controllo svolta dalla banca.

[15] In realtà, se pure in misura lievemente minore, ciò vale anche per i finanziamenti a breve termine.

[16] J. Köndgen, Financial Covenants – “Symbiotische” Finanzierungsverträge im Spannungsfeld von Vertrags-, Gesellschafts- und Insolvenzrecht, in Insolvenzrecht, Colonia, 1997, 128.

[17] E. Rehbinder, op. cit., 28, ove si legge che «der Kreditgeber sichert sich also, indem er den Kreditnehmer an der kurzen Leine führt».

[18] A. Bertoni, G. Bertinetti, E. Moschetta, La finanza per lo sviluppo del sistema industriale italiano, Milano, 2000. In realtà, i financial covenants sono una sottocategoria dei positive covenants, in quanto pongono in capo alla finanziata l’obbligo (positivo) di rispettare determinati vincoli di bilancio.

[19] G. Piepoli, op. cit., 500. In questi casi si parla, non a torto, di lender governance, poiché gli amministratori dell’impresa finanziata, sia anteriormente sia successivamente all’inadempimento dei covenants, ricevono tutti gli incentivi a rispettare i vincoli avanzati dalla banca, i quali determinano un indirizzamento della gestione dell’impresa in un senso piuttosto che in un altro. Cfr. sul punto: A.D. Scano, Debt covenants e governo delle società per azioni solventi: il problema della lender governance, in Il nuovo diritto delle società, 2011, 8, 14 ss.; F. Tung, Leverage in the Boardroom: The Unsung Influence of Private Lenders in Corporate Governance, in University of California and Los Angeles Law Review, 2009. È interessante la posizione di D.G. Baird, R.K. Rasmussen, Private Debt and the Missing Lever of Corporate Governance, in University of Pennsylvania Law Review, 2006, 1209 ss., i quali parlano esplicitamente di «de facto control» da parte dell’impresa finanziatrice.

[20] E. Rehbinder, op. cit., 36 ss.

[21] J. Köndgen, op. cit., 130.

[22] Banca Mediocredito, op. cit., 11.

[23] Id., 9.

[24] E. Rehbinder, op. cit., 52.

[25] G. Piepoli, op. cit., 502.

[26] Di regola, tali clausole mirano a impedire atti di disposizione degli assets dell’impresa, mentre solo di rado riguardano le politiche di investimento, soprattutto per l’oggettiva difficoltà nel monitorare questo tipo di scelte del management. Cfr. J.R. Booth, Contract costs, bank loans, and the cross-monitoring hypothesis, in Journal of Financial Economics, 1998, 28.

[27] Si tratta dei financial covenants, su cui ci si intratterrà meglio infra.

[28] A. D. Scano, op. cit., 5; D. Galletti, op. cit., 15.

[29] E. Rimini, Il prestito mezzanino tra clausole di subordinazione, equity kickers e restrictive covenants, inGiurisprudenza commerciale, 2008, I, 1092 ss.

[30] Qualora sia previsto tale covenant, peraltro, una pattuizione di pari tenore sarà sottoscritta a latere anche dai soci in proprio, in quanto sono loro i soggetti titolari del potere di procedere alla distribuzione degli utili; con la conseguenza che, ove non assumessero espressamente tale obbligo di non facere, ben potrebbero distribuire gli utili, così comportando la violazione di un covenant da parte della (a ben vedere incolpevole) società finanziata.

[31] A. Schwartz, A Theory of Loan Priorities, in Journal of Legal Studies, 1989, 216-218 ss.

[32] W.A. Klein, J.C. Coffee Jr., Business organization and finance. Legal and economic principles, New York, 2004, 252.

[33] J. Tirole, The Theory of Corporate Finance, Princeton (USA), 2005, 105.

[34] U. Tombari, Azioni di risparmio e strumenti ibridi “partecipativi”, Torino, 2000, 97 ss.

[35] A. Schwartz, op. cit., 218.

[36] Banca Mediocredito, op. cit., 19.

[37] H. Merkel, Die Negativklausel, Berlino, 1985, 64 ss.

[38] G. Piepoli, Le “garanzie negative”, in Banca borsa titoli di credito, 2001, 4, 405 ss.

[39] Molto spesso, però, il testo di tale clausola è formulato in modo ambiguo e non sempre si coglie l’effettiva comune intenzione delle parti. In particolare, spesso non risulta evidente se tale clausola stabilisca un preciso obbligo per la debitrice alla costituzione di garanzie o semplicemente una “relativizzazione” del divieto. Sarà necessario, perciò, interpretare di volta in volta la clausola, al fine di comprendere se alla finanziata sia attribuita una facoltà alternativa o se, invece, sia posto a suo carico un preciso obbligo di rilasciare uguali garanzie in favore della banca. Le conseguenze in caso di violazione, infatti, sono molto diverse: nel caso di facoltà alternativa l’interesse della banca è al solo comportamento omissivo, sicché le spetterà solo una pretesa risarcitoria; nel secondo caso, invece, esiste una specifica pretesa della banca all’adempimento dell’obbligo di costituire in suo favore garanzie equivalenti, a prescindere dai possibili profili risarcitori. Cfr. sul punto G. Piepoli, op. cit., 7, nt. 26.

[40] Y. Chaput, Les sûretés négatives, Parigi, 1974, 8.

[41] H. Merkel, op. cit., 77.

[42] Id., op. cit., 68.

[43] G. Piepoli, op. cit., 420.

[44] A. Tucci, Art. 46, in Commentario breve al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, C. Renzo e F. Vella (diretto da), Milano, 2019, 237 ss.; P. Rescigno, Il privilegio per i finanziamenti bancari a medio e lungo termine, in Banca borsa titoli di credito, 1999, I, 600 ss.

[45] H. Merkel, op. cit., 109.

[46] G. Piepoli, op. cit., 422.

[47] G. Piepoli, Profili civilistici dei covenants, op. cit., 505.

[48] Si pongono, allora, delicati problemi in relazione agli eventuali profili di responsabilità degli amministratori in ragione delle conseguenze che la violazione dei covenants comporta sulla società finanziata. Cfr. J. Köndgen, op. cit., 150 ss.

[49] F. Thiessen, Covenants in Kreditverträgen, in ZBB, 1996, 22 ss.

[50] Si tratta di una clausola che disciplina un cambiamento avverso sostanziale, un evento avverso rilevante o un effetto avverso rilevante cui sono collegate specifiche conseguenze.

[51] F. Thiessen, op. cit., 22.

[52] E. Rehbinder, op. cit., 77 ss.

[53] H. Eidenmüller, Unternehmenssanierung zwischen Markt und Gesetz, Colonia, 1999, 144 ss.

[54] Non di meno, appare evidente che la previsione di una cross default clause pone non pochi problemi nella gestione del rapporto contrattuale. Non v’è chi non veda, infatti, come una previsione generalizzata di tale clausola in diversi rapporti di finanziamento facenti capo alla medesima impresa determini un “effetto domino” sull’immediata esigibilità dei crediti vantati verso di essa. Cfr.H. Eidenmüller, op. cit., 144.

[55] Si vedano: F. Ancel, Nouvelles sûretés pour créanciers échaudés, in Cahier de droit de l’enterprise, 1989, 5, 3 ss.; P. Crocq, Sûretés et proportionnalité, in Études Simles, Parigi, 2006, 293.

[56] P. Crocq, Sûretés et proportionnalité, op. cit., 293.

[57] G. Piepoli, op. cit., 507.

[58] Per fare un esempio, potrà ritenersi idonea e proporzionata una garanzia di valore 15 a fronte di un credito di valore 10, mentre apparirà idonea (in quanto adeguata a garantire la soddisfazione del creditore) ma non proporzionata una garanzia di valore 30 per un credito di valore 5.

[59] In questo senso: E. Rehbinder, op. cit., 85; H. Eidenmüller, op. cit., 151; W. Weitnauer, Covenants und AGB-Kontrolle, in Zeitschrift für Wirtschaftsrecht, 2005, 1446.

[60] E. Rehbinder, op. cit., 101, secondo cui «samtliche Auflagen und Kontrollbefugnisse zusammengenommen dem Kreditgeber nich die Möglichkeit eröffnen dürfen, die Geschäftspolitik des Kreditnehmers aktiv (im Sinne von Initiativrech- ten) zu beeinflüssen».

[61] E. Rehbinder, op. cit., 86, 87 e 147.

[62] G. Piepoli, op. cit., 510.

[63] H. Eidenmüller, op. cit., 154.

[64] E. Rehbinder, op. cit., 90.

[65] H. Eidenmüller, op. cit., 154.

[66] Sul punto, è stato osservato che in tal modo si riconosce alla banca, per l’intera durata del finanziamento, un vero e proprio diritto di veto su numerose operazioni che non possono così essere realizzate se non dopo che la stessa abbia rilasciato la propria autorizzazione. Cfr. P. Dupichot, Le pouvoir des volontés individuelles en droit des sûretés, Parigi, 2005, 656.

[67] In tal modo residuerebbe una scarsa discrezionalità autorizzativa in capo alla banca, potendo questa negare l’autorizzazione alle sole ipotesi in cui l’operazione da realizzare comporti una lesione dei suoi interessi. Di conseguenza, il rifiuto dell’autorizzazione in assenza di tale lesione costituirebbe un abuso del diritto riconosciutole. Cfr. P. Dupichot, op. cit., 664.

[68] Cass. Civ., Sez. I, 17 novembre 1999, n. 12769;Trib. Bari, 4 febbraio 1980; entrambi reperibili sulla banca dati www.dejure.it.

[69] G. Piepoli, op. ult. cit., 425.

[70] Non solo, però. Si guarderà anche la causa concreta del patto.

[71] M. H. De Laender, Les sûretés négatives, Parigi, 1998, 81 ss.

[72] G. Piepoli, op. cit., 426.

[73] M.H. De Laender, op. cit., 185.

[74] V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, 574.

[75] Di quest’opinione è G. Piepoli, op. cit., 427.

[76] Y. Chaput, op. cit., 7.

[77] H. Merkel, op. cit., 186 ss.

[78] Fra tutti, M. H. De Laender, op. cit., 188, ove si legge che «tout est une question de mesure, par rapport à l’opération de crédit envisagée et à l’adéquation de la garantie recherchée, avec, en filigrane, l’idée d’un rapport de proportionnalité entre le respect des règles d’ordre public et la protection des intérêts en cause assurée par le biais de la clause d’inaliénabilité».

[79] B. Raynaud, op. cit., 140.

[80] Attività consistente nel ridurre la somma per la quale è stata presa l’iscrizione o nel restringere l’iscrizione ad una parte soltanto dei beni ipotecati. Cfr. art. 2872, primo comma, c.c.

[81] H. Merkel, op. cit., 183.

[82] F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, 147 ss. Più di recente: G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contratto e impresa, 2002, 776; P.G. Marasco, La rinegoziazione del contratto. Strumenti legali e convenzionali a tutela dell’equilibrio negoziale, Padova, 2006, 108 ss. Secondo tali Autori, l’obbligo di rinegoziazione del contratto risiede nel precetto contenuto agli artt. 1175 e 1375 c.c. che, quali norme imperative, impongono alle parti di comportarsi secondo buona fede. Donde consegue, secondo Marasco, che «se è vero che il principio di correttezza non è semplicemente specchio di un generico sentire sociale, ma somma di valutazioni espresse “nella legge fondamentale dello Stato, come tali sopraordinate ad ogni altra anche dal punto di vista formale”, si deve allo stesso modo ritenere che la normativa sulla correttezza (con le regole che ne scaturiscono, ivi compreso il dovere di rinegoziare un contratto sperequato, non possa essere derogata né dalla volontà delle parti né da norme dispositive (rispetto alle quali, nell’ipotesi di “contrasto”, è destinata comunque a prevalere). Dunque, allorché l’esecuzione del contratto secondo buona fede imponga ai contraenti di rinegoziare l’originario assetto contrattuale al fine di adeguarne il contenuto alla mutata realtà per la sua migliore attuazione, il rimedio della rinegoziazione (a favore di tutti i contraenti svantaggiati o meno dalla sopravvenienza), in quanto espressione di una norma imperativa dell’ordinamento giuridico, dovrebbe prevalere su quello risolutorio».

[83] L. Castelli, L’obbligo di rinegoziazione, in I Contratti, 2016, II, 185; V. Roppo, op. cit., 1042. È interessante osservare, peraltro, che sul tema dell’obbligo di rinegoziazione pare voler intervenire anche il nostro legislatore. Nel Disegno di Legge presentato il 19 marzo 2019 per la modifica del codice civile, si legge che «Sempre nell’ambito dei rapporti contrattuali, si prevede di disciplinare il diritto delle parti di pretendere la rinegoziazione dei contratti secondo buona fede qualora divengano eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili, ovvero di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali, qualora non si raggiunga un accordo tra le parti […] Nella pratica degli affari si tende a porre rimedio alle sopravvenienze che, secondo l’apparato rimediale tradizionale, dovrebbero comportare la caducazione del contratto (spesso gravemente pregiudizievole per la parte tenuta alla restituzioni), inserendo nel programma negoziale obbligazioni di rinegoziazione, che consentono la manutenzione del contratto (alla stregua delle cosiddette hardship clauses note ai principi Unidroit). In tale situazione si inserisce la previsione del disegno di legge delega di cui all’articolo 1, comma 1, lettera i), che, prescindendo da apposite pattuizioni contrattuali, contempla un rimedio di generale applicazione, idoneo a ristabilire l’equilibrio tra le prestazioni. Si tratta dell’equilibrio economico, per come fatto palese dal riferimento al ripristino della “proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti”».

[84] M. H. De Laender, op. cit., 227.

[85] G. Piepoli, op. cit., 518.

[86] F. Macario, op. cit., 132.

[87] V.,tra i molti, Roppo, op. cit., 935 ss.

[88] In ragione di ciò, si potrebbe financo ritenere che un covenant a rischio di invalidità per violazione del principio di proporzionalità prima dell’emergenza, possa ritenersi pienamente valido proprio a causa di quest’ultima e del conseguente aumento del rischio fronteggiato dalla banca.

[89] Cfr. par. 163, Parte II, Allegato V al Regolamento di esecuzione (UE) n. 680/2014 della Commissione, del 16 aprile 2014, come modificato dal Regolamento di esecuzione (UE) 2015/227 della Commissione del 9 gennaio 2015, che è la principale fonte di disciplina delle misure di forbearance. La normativa è poi integrata dalle linee guida in materia della European Central Bank (Guidance to banks on non-performing loans, marzo 2017) e dagli orientamenti della European Banking Authority (Guidance on management of non-performing and forborne exposures. EBA/GL/2018/06, 31 ottobre 2018).

[90] Come chiaramente enucleato dal par. 164 della Parte II dell’Allegato di cui alla nota che precede, ove si legge che «Si è in presenza di una concessione in caso di: a) differenza a favore del debitore tra i termini modificati del contratto e i precedenti termini del contratto; b) inclusione nel contratto modificato di termini più favorevoli rispetto a quelli che altri debitori con un profilo di rischio analogo avrebbero potuto ottenere dallo stesso ente in quel momento».

[91] EBA, Guidelines on legislative and non-legislative moratoria on loan repayments applied in the light of the COVID-19 crisis. EBA/GL/2020/02, 2 aprile 2020.

[92] Le misure “esclusive” per un singolo cliente ad esso concesse a seguito di una trattativa peer to peer, come nel caso di un waiver, quindi, sembrano fuoriuscire dall’ambito di applicazione delle linee guida dell’EBA.

[93] Le linee guida dell’EBA enucleano una serie di condizioni che devono essere tutte soddisfatte affinché una misura di moratoria sia considerata “di portata generale” – e, dunque, possa trovare applicazione la deroga alla disciplina sulle forbearance measures –, ossia che: i) la moratoria trovi la propria fonte nella legge o nell’iniziativa privata (in tal caso, solo se fondata su uno schema d’intervento largamente condiviso in seno al settore bancario, ad esempio la proroga dell’Accordo per il Credito 2019; ii) la moratoria sia applicata in relazione ad un ampio spettro di debitori, determinato sulla base di criteri generali; iii) la misura concessa si sostanzi esclusivamente in una modifica delle tempistiche di pagamento, quindi escludendo, ad esempio, sospensioni dei pagamenti, loro posponimenti, temporanee riduzioni del capitale o degli interessi da corrispondere, variazioni di altre clausole contrattuali (ivi inclusi i covenant); iv) la moratoria sia applicata alle medesime condizioni a tutti i soggetti che ne beneficino; v) la misura non sia concessa su finanziamenti erogati successivamente alla data in cui la moratoria è stata annunciata; vi) la moratoria sia disposta per fronteggiare l’emergenza da COVID-19 e sia applicata prima del 30 giugno 2020.

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