Durante la pandemia i medici e gli infermieri sono stati considerati angeli, soldati di un esercito con il compito di proteggere la popolazione da un nemico invisibile e che, nella loro abnegazione, non possono essere che lodati. Ma – auspicabilmente a breve – la pandemia sarà debellata e torneremo tutti al corso normale della vita. E il ritorno alla normalità comprende anche la proliferazione di sentimenti antagonisti, di frustrazioni per le quali si cerca un responsabile a cui addebitare colpe. L’esperienza nel campo della responsabilità sanitaria insegna che le azioni giudiziarie contro i sanitari e le strutture alle volte sono pienamente giustificate, altre volte però sono spregiudicate, e altre volte ancora non sono altro che strumento, seppure inappropriato, per dare sfogo alla rabbia per la perdita di un congiunto o per un postumo invalidante che si addebita (erroneamente) non al nemico invisibile, bensì al tradimento dell’angelo custode che non ha saputo proteggerci.
Per potere esaminare gli effetti che la pandemia determina nel settore della responsabilità delle strutture e degli esercenti una professione sanitaria, va ricordato che secondo la protezione civile quello sanitario è un rischio di secondo grado, conseguente ad altri rischi o calamità. Il rischio può dipendere da variabili antropiche o naturali. Tra le variabili antropiche di natura biologica vi sono anche i virus. Ne consegue che la propagazione di un virus come il SARS-CoV-2, all’origine della patologia pandemica conosciuta come COVID-19, determina un rischio sanitario anche se dipendente da variabile antropica, in quanto questa è equiparata ad eventi naturali di tipo catastrofale come i terremoti e le eruzioni vulcaniche. Questa considerazione, da una parte, esclude la rilevanza del dubbio se il virus sia naturale o sia stato creato o modificato in laboratorio, in specie in un laboratorio di Wuhan in Cina, città dove si è avuto il primo contagio umano. Dall’altra parte, suggerisce che un rischio sanitario, anche qualora determinato da una variabile antropica, può essere conseguenza sia del tentativo di preparare un vaccino, sia di creare un’arma batteriologica e non rileva se la sua diffusione sia il frutto di un errore umano o di un atto volontario.
Nella prospettiva delle assicurazioni bisogna chiedersi se il rischio sanitario determinato dalla pandemia di COVID-19 (di secondo grado) costituisca danno derivante dalla verificazione un rischio catastrofale (di primo grado), rilevante a norma dell’art. 1912 c.c.: per questi eventi, infatti, salvo che non sia espressamente convenuto il contrario, l’assicurazione non copre il rischio di danno al bene giuridico assicurato. Secondo la prospettiva preferibile, sono rischi catastrofali non solo gli eventi indicati nell’art. 1912 c.c., ma tutti quelli che – come indica la protezione civile – hanno analoghe caratteristiche, e cioè: l’eccezionalità dell’evento (data dalla cadenza sporadica e irregolare) e la catastroficità dei suoi effetti dannosi (data dalla gravità e diffusione). A tale conclusione si giunge essenzialmente con il criterio dell’interpretazione del contratto secondo la volontà comune dei contraenti e secondo buona fede oggettiva (artt. 1362 e 1366 c.c.): se la polizza si atteggia come “a rischi definiti” (anziché “tutti i rischi”) e se sono generalmente esclusi – per non essere espressamente coperti – i rischi catastrofali di cui all’art. 1912 c.c. allora è evidente che le parti, ove avessero temuto che un certo rischio catastrofale potesse risultare coperto (nonostante la previsione dell’art. 1912 c.c.), lo avrebbero espressamente menzionato per escluderlo.
L’inquadramento di una pandemia tra i rischi catastrofali non risolve tuttavia di per sé la questione della copertura assicurativa perché, nel campo della responsabilità sanitaria, non è il danno direttamente ascrivibile alla diffusione del virus che rileva, bensì quello derivante dalla non corretta esecuzione di una prestazione sanitaria atta ad interrompere il nesso causale rispetto all’azione dell’agente patogeno (un rischio di terzo grado). La domanda da porsi perciò è se il rischio sanitario determinato dalla pandemia di COVID-19 si ponga a sua volta come rischio catastrofale rispetto all’esercizio delle prestazioni delle strutture e degli esercenti le prestazioni sanitarie, escludendo la copertura dei danni determinati in tali eccezionali circostanze. L’alternativa è quella di ritenere che il rischio sanitario (secondario) determinato dalla pandemia del coronavirus (rischio primario) determini mero aggravamento di quello di responsabilità civile delle strutture e degli esercenti la professione sanitaria (rischio terziario). L’aggravamento del rischio, disciplinato dall’art. 1898 c.c., consente all’assicuratore di recedere dal contratto con comunicazione scritta entro un mese da quando ne ha avuto conoscenza e ha effetto immediato se l’aggravamento è tale che l’assicuratore non avrebbe prestato il consenso all’assicurazione. Se l’assicuratore non recede, tuttavia, il rischio è assicurato nonostante l’aggravamento e, in caso di sinistro, l’indennità non può essere esclusa né ridotta.
Non occorre certo dimostrare che la situazione emergenziale determinata dalla pandemia abbia provocato un sovraccarico delle strutture sanitarie pubbliche e private, che gli operatori medici e paramedici siano stati chiamati a fornire le loro prestazioni in modo considerevolmente più gravoso, che siano stati immessi nel sistema e gravati di responsabilità anche soggetti neolaureati e privi di esperienza. Tali circostanze hanno indubbiamente determinato aggravamento generalizzato del rischio di commissione di errori medici o di inadeguatezza delle strutture a fare fronte alle esigenze dei pazienti, non solo quelli affetti da COVID-19, ma anche tutti gli altri. Per potere valutare se questo maggior rischio di malpractice rilevi come aggravamento di quello di responsabilità ex art. 1898 c.c. o dipenda da un rischio catastrofale ex art. 1912 c.c., rispetto alle assicurazioni di responsabilità civile già esistenti, occorre a monte chiarire in che modo un evento catastrofale come una pandemia impatti sulla responsabilità delle strutture e degli operatori sanitari.
Tanto le prestazioni sanitarie dirette alla cura del COVID-19, quanto quelle dirette alla cura di altre patologie, restano inquadrate anche nel tempo della pandemia nelle prestazioni contrattuali per le strutture e negli illeciti aquiliani per la maggior parte dei medici e paramedici. Una responsabilità, perciò, sorge solo se l’inadempimento è imputabile e se l’illecito è rimproverabile almeno per colpa.
Non è dubbio che anche nel campo delle prestazioni sanitarie possa essere fornita la prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore (art. 1218 c.c.). Ad es., non potrà essere considerata responsabile della morte di una persona affetta da COVID-19 la struttura che non avesse a disposizione un numero di posti di terapia intensiva sufficiente rispetto alla domanda e che abbia dovuto rifiutare ad alcuni pazienti cure che era astrattamente capace di fornire perché le stava fornendo ad altri. Similmente – e si tratterà di una ipotesi di addebito molto diffusa – potrebbe essere reputata irresponsabile del contagio di pazienti non COVID-19 o di propri dipendenti la struttura che non avesse le risorse materiali (in termini di spazi, strutture, o di materiali quali mascherine, guanti, camici e così via) per impedire la trasmissione endonosocomiale del virus. Resta fermo che la prova dell’impossibilità dell’esatta prestazione resterà a carico della struttura, la quale potrà realisticamente assolverla solo dimostrando di avere attuato non solo tutti i propri protocolli interni, ma anche quelli di volta in volta dettati dalle leggi emergenziali e dalle autorità sanitarie.
Altro importante presidio di giustizia dovrà essere il riconoscimento che molte prestazioni sanitarie rese in circostanze come quelle determinate dalla pandemia sono risultate notevolmente più complesse di come sarebbero state, se offerte in condizioni di normalità. In materia di responsabilità del prestatore d’opera, l’ordinamento esprime il fondamentale principio secondo cui, se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave (art. 2236 c.c.). È noto che la giurisprudenza – pur ammettendo in astratto l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. per gli interventi sperimentali o di altissima specializzazione, che trascendono la preparazione media ovvero non risultino sufficientemente studiati o sperimentati – si è in concreto mostrata riluttante a ritenerne integrati i presupposti. Come è stato ben scritto sul punto, proprio da un giudice, «per quanti sforzi si facciano, è ben raro individuare decisioni edite di legittimità o di merito nelle quali si sia ritenuta sussistente la colpa del medico, ma la si sia reputata “non grave”, ai sensi dell’art. 2236 c.c.» (Rossetti, Responsabilità sanitaria e tutela dalla salute, Quaderno del massimario della Cassazione n. 2 del 2011, 19). L’occasione di un evento eccezionale come la pandemia di COVID-19 potrebbe, perciò, essere quella giusta per individuare doverosamente i casi in cui va fatta applicazione del principio: e conseguentemente affermare che, salvi casi di riconosciuta colpa grave o di dolo, il danno pur ascrivibile ad una colpa delle strutture e, quindi, degli esercenti la professione sanitaria di cui si servono per adempiere alle proprie obbligazioni, non è risarcibile. In questo senso, peraltro, si sono mossi alcuni attivisti all’interno del Parlamento, i quali – superata l’idea di restringere le ipotesi di responsabilità penale e civile ai soli eventi dolosi – avevano infine proposto di restringere ai soli casi di dolo o colpa grave la risarcibilità dei danni determinatisi sotto l’emergenza del COVID-19.
Tirando le somme: sebbene la diffusione del virus SARS-CoV-2 possa considerarsi sotto il profilo assicurativo un evento catastrofale – abbia origine umana o naturale e, nel primo caso, sia sfuggito al controllo per errore o sia stato volontariamente diffuso – lo stesso determina un rischio sanitario che, pur aggravando in modo esponenziale i pericoli di errore medico o comunque di danni ai pazienti delle strutture sanitarie e socio-sanitarie, non costituisce esso stesso rischio catastrofale ex art. 1912 c.c. È piuttosto l’eccezionalità della situazione che determina la gestione del rischio sanitario provocato dal COVID-19 a doversi valutare nella sua potenzialità catastrofale rispetto all’oggetto delle assicurazioni di responsabilità sanitaria. L’alternativa è quella di considerare la pandemia e i suoi effetti alla stregua di un aggravamento del rischio di responsabilità e, quindi, ritenere legittime le reazioni dell’assicuratore di cui all’art. 1898 c.c. o, in mancanza, la continuazione dell’assicurazione alle medesime condizioni, sebbene a rischio aggravato. Per potere compiere tale valutazione si deve, tuttavia, verificare se la pandemia abbia effettivamente accresciuto non solo il rischio di malpractice medica o di incapacità del sistema di offrire cure a chiunque le chieda, affetto o meno da COVID-19, ma anche quello di responsabilità civile da essi derivante. Al riguardo deve ritenersi che alla crescita degli inadempimenti ed altresì degli errori medici non si possa far corrispondere anche un aggravato rischio di responsabilità delle strutture e degli esercenti, poiché certamente la pandemia agisce in molti casi come fattore esterno imprevisto ed imprevedibile ed esime da responsabilità risarcitoria (ex art. 1218 c.c.). Del resto, si deve ritenere che la giurisprudenza, pur riluttante in passato, non potrà fare a meno – anche se non vi sarà un apposito provvedimento di legge al riguardo – di considerare che la situazione emergenziale ha determinato una diffusa difficoltà tecnica di adempimento che esige di restringere l’area della responsabilità, tanto contrattuale quanto aquiliana, ai soli casi di dolo e colpa grave. Se tale sarà l’orientamento della giurisprudenza chiamata a giudicare i casi di malpractice medica, non potrà quindi dirsi che il rischio di responsabilità si sia aggravato a norma dell’art. 1898 c.c.
Al contrario, qualora non si dovesse giungere alla conclusione che la pandemia non accresce il rischio di responsabilità perché o opera come causa di forza maggiore, oppure determina problemi tecnici di speciale difficoltà che esonerano da responsabilità per colpa lieve, si dovrebbe allora necessariamente ritenere che la stessa determina un rischio diverso non coperto, che legittima l’eccezione di scopertura analogamente ai casi in cui è permesso, salvo convenzione contraria, eccepire la catastrofalità ex art. 1912 c.c.