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Approfondimenti

Crediti di imposta inesistenti e non spettanti

Tra l’intervento delle Sezioni Unite e la riforma del regime sanzionatorio

8 Marzo 2024

Giosuè Manguso, AndPartners Tax and Law Firm

Matteo Chionchio, AndPartners Tax and Law Firm

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo affronta la distinzione tra crediti di imposta inesistenti e non spettanti, alla luce delle recenti sentenze delle Sezioni unite della Cassazione del dicembre 2023 e delle modifiche al regime sanzionatorio penale ed amministrativo previste dalla riforma fiscale.


Premessa

Ponendo fine a un contrasto interpretativo formatosi presso i giudici di legittimità, in merito alla fondatezza della distinzione “ontologica” tra crediti di imposta “inesistenti” e “non spettanti”, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenze n. 34419 e n. 34452, depositate l’11 dicembre 2023) ha affermato che il termine ottennale entro il quale devono essere emessi gli atti di recupero dei crediti di imposta utilizzati in compensazione può essere applicato soltanto per i crediti di imposta “inesistenti”, dei quali, poi, riporta una definizione. In questo ambito è recentemente intervenuto il legislatore delegato, coordinando la durata dei termini di controllo dei crediti di imposta utilizzati in compensazione e prevedendone (nell’art. 38-bis del d.P.R. 600 del 1973) un termine differenziato, ma con unico termine iniziale coincidente con la data di utilizzo del credito di imposta. Inoltre, sempre il legislatore delegato, in uno schema di decreto non ancora pubblicato, ha riscritto il regime sanzionatorio dell’indebito utilizzo di crediti di imposta in questione unitamente al relativo ambito oggettivo [1].

Dopo aver illustrato in breve le motivazioni storiche sottese alla fattispecie del credito di imposta inesistente, il presente contributo si propone un preliminare studio dell’arresto giurisprudenziale in oggetto, delle modifiche legislative apportate dal legislatore delegato, dei rapporti tra queste due discipline normative e, alla luce di tale contesto normativo e interpretativo, degli impatti che è lecito attendersi sui crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo ad oggi utilizzati.

Gli atti di recupero: cause originarie e interventi legislativi

L’origine della dicotomia tra crediti di imposta inesistenti e non spettanti [2] deve farsi risalire alla previsione di crediti d’imposta aventi finalità agevolativa utilizzabili in compensazione ex art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997, come quelli utilizzabili in presenza di investimenti in aree svantaggiate (art. 8 della legge n. 388 del 2000).

È probabile che questa forma di utilizzo di incentivo fiscale abbia sortito un imprevedibile effetto in termini di riduzione del gettito erariale, il quale ha poi giustificato un periodo di sospensione di qualche mese dalla fruizione di tali benefici (art. 1 decreto-legge n. 253 del 2002 non convertito e art. 62 della legge n. 289 del 2002). Tuttavia, nonostante tale sospensione, l’utilizzo dei crediti di imposta in questione non si è arrestato, circostanza che indusse gli organi di verifica dell’Amministrazione finanziaria a selezionare i contribuenti da sottoporre a controllo [3], e ad emettere atti di recupero dei crediti di imposta indebitamente utilizzati in assenza del riscontro dei requisiti sostanziali legittimanti la fruizione degli incentivi in commento [4].

Questi atti di recupero, dunque, nati come strumento di controllo dell’Amministrazione finanziaria, sono stati tipizzati in atto normativo [5]; essi sono atti impugnabili [6], dotati di motivazione e soggetti alla riscossione mediante ruolo.

Tuttavia, la novità e la peculiarità della disciplina degli atti di recupero ne imposero una integrazione normativa, stabilendo prima uno speciale termine per l’attività di accertamento dei crediti di imposta indebitamente utilizzati in compensazione e, successivamente, il relativo regime sanzionatorio con una definizione dell’ambito oggettivo.

L’art. 27, comma 16 [7], del decreto-legge n. 185 del 2008, conv., con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2 ha introdotto il maggior termine di accertamento (31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo) per l’utilizzo in compensazione dei crediti di imposta inesistenti, mentre con l’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015 è stato riscritto l’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 differenziando i crediti di imposta inesistenti da quelli non spettanti e il relativo regime sanzionatorio [8].

Gli atti di recupero, dunque, miravano a identificare condotte che, sostanzialmente fraudolente, non erano evidenti ad un controllo automatizzato delle dichiarazioni dei redditi e dei modelli di versamento. Pertanto, tali condotte potevano emergere soltanto da un riscontro fattuale – che richiedeva tempi più lunghi di quelli previsti dal regime ordinario dei termini di accertamento – sull’esistenza dei presupposti legittimanti il diritto all’utilizzo dei crediti di imposta [9].

La posizione della giurisprudenza di legittimità e dell’Agenzia delle entrate

Nonostante gli interventi legislativi che hanno nel tempo affinato i presupposti applicativi degli atti di recupero dal 2017 al 2021 si era consolidato un orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale il legislatore dell’art. 27 del decreto-legge n. 185 del 2008 non intendeva differenziare l’indebito utilizzo di crediti di imposta, prevedendo un maggior termine delle attività di controllo soltanto per crediti di imposta inesistenti, ma semplicemente stabilire che tale maggior termine si dovesse applicare su ogni ipotesi di utilizzo di crediti imposta aventi finalità agevolative [10].

Questo orientamento, però, non è stato seguito da un altro filone della Corte di Cassazione, riconducibile alle tre sentenze “gemelle” (nn. 34443/34444/34445 del 16 novembre 2021), in base alle quali, sostenendo una tesi adeguata al tenore letterale e sostanziale della disciplina normativa, i crediti di imposta “inesistenti” richiederebbero due presupposti: i) assenza, in tutto o in parte, del presupposto costitutivo e ii) mancato riscontro di tale inesistenza dai controlli automatizzati disciplinati dall’art. 36-bis e dell’art. 36-ter del d.P.R. n. 600 del 1973 e dall’art. 54-bis del d.P.R. n. 633 del 1972 [11].

Nonostante le tre sentenze “gemelle” del 16 novembre 2021, in capo alla Corte di Cassazione continuavano a registrarsi interpretazioni divergenti [12].

Pertanto, con due ordinanze interlocutorie, la Corte di Cassazione (n. 35536/2022 e n. 3748/2023) ha proposto al primo presidente della Corte di Cassazione la rimessione della questione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per due motivi:

  • chiarire l’ambito applicativo del termine speciale di decadenza dell’azione di accertamento previsto dall’art. 27, comma 16, del decreto legge n. 185 del 2008 e, per differenza, quello disciplinato dai termini ordinari (43 del d.P.R. n. 600/73 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972) – questione chiarita con la sentenza n. 34419/2023,
  • chiarire quando applicare gli effetti sanzionatori previsti dall’art. 13, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 471 del 1997 alle due tipologie di credito di imposta – questione chiarita con la sentenza n. 34452/2023).

In questo contesto normativo e interpretativo l’Agenzia delle entrate ha assunto una posizione allineata a quella del legislatore e all’orientamento delle citate tre sentenze “gemelle” del 2021, ritenendo fondata la distinzione tra utilizzo in compensazione dei crediti di imposta inesistenti e crediti di imposta non spettanti [13].

La sentenza n. 34419/2023 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite

La questione interpretativa sulla fondatezza della dicotomia tra crediti di imposta inesistenti e non spettanti è stata chiarita dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 34419 pubblicata l’11 dicembre 2023, ha confermato tale differenza, e ribadito che essa deve fondarsi sui due presupposti stabiliti dalle sentenze nn. 34443/34444/34445 del 16 novembre 2021 (tra l’altro, rappresentati da quanto normativamente previsto dal comma 5 dell’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997).

Poi, dopo un’attenta disamina del regime sanzionatorio e dei termini di accertamento che sono propri dell’utilizzo dei crediti di imposta inesistenti, la Corte di Cassazione ha fornito alcune chiavi di lettura per distinguere le ipotesi in cui la mancanza di un presupposto costitutivo integri la fattispecie di utilizzo di credito di imposta inesistente, da quelle in cui integri la fattispecie di credito di imposta non spettante.

In particolare, i giudici di legittimità riconoscono che integrano crediti di imposta inesistenti le ipotesi in cui il credito venga “creato” direttamente con il modello “F24” pur in assenza di riscontro documentale o esposizione nella dichiarazione o per effetto di attività artificiose mediante la creazione di crediti fittizi, ancorché, in questo caso, riportati nelle dichiarazioni. Infatti, essi asseriscono che “Le condotte rilevanti, dunque, sono quelle caratterizzate da profili abusivi, occulti o fraudolenti, che, in quanto tali, sono rilevabili solamente attraverso riscontri di coerenza contabile del modello di versamento e non meramente cartolari poiché non emergenti dalle dichiarazioni presentate (o da esse falsamente emergenti) o dal mero raffronto con i relativi modelli di versamento” (par. 15.5).

Tuttavia, l’inesistenza non è rappresentata soltanto da condotte fraudolente, ma anche dalle fattispecie in cui manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo del credito di imposta. In questo ambito, però, i giudici di legittimità riconoscono che non ogni mancanza di presupposto determina inesistenza, ponendosi la necessità di un’analisi di ogni singola disciplina istitutiva [14].

Per la Corte di Cassazione integrano i presupposti costitutivi della disciplina dell’incentivo fiscale (con l’effetto che il relativo utilizzo determinerebbe la fattispecie di credito di imposta inesistente) la necessaria presentazione di un’istanza da parte del contribuente, l’imposizione di un obbligo di fare/non fare e l’indicazione di un termine finale entro il quale porre in essere alcune attività e la previsione di condizioni risolutive.

Non integrerebbero, invece, i presupposti costitutivi di un incentivo fiscale (con l’effetto che il relativo utilizzo determinerebbe la fattispecie di credito di imposta non spettante) l’inosservanza di adempimenti amministrativi o la previsione di soglie o limiti di valore nell’utilizzo del credito di imposta, l’inosservanza di un termine iniziale per l’utilizzo del credito ovvero una condizione sospensiva per la fruizione dello stesso.

I giudici di legittimità hanno, infine, stabilito il seguente principio di diritto: “in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento” (par. 22).

Dopo aver espresso tale principio di diritto, i giudici ritengono infondate le motivazioni supportanti il ricorso del contribuente, in quanto il credito di imposta indebitamente utilizzato in compensazione doveva ritenersi inesistente (legittimando, dunque, la notifica dell’atto di recupero entro i più ampi termini dell’art. 27, comma 16, del citato decreto legge n. 185 del 2008) per non aver adempiuto il contribuente ad un obbligazione di fare, vale a dire la destinazione dei beni oggetto di investimenti agevolabili (acquisto di rotative) alla pubblicazione di testi in lingua italiana [15].

Le modifiche previste dal legislatore delegato

Il decreto legislativo 12 febbraio 2024, n. 13 (attuativo della riforma dell’accertamento e del concordato preventivo biennale) ha introdotto l’art. 38-bis del d.P.R. 600 del 1973, uniformando i termini di accertamento dei crediti imposta indebitamente utilizzati; abrogando gli articoli 1, comma 421 della legge n. 311 del 2004 e 27, comma 16 del decreto legge n. 185 del 2008 e stabilendo che il termine per l’attività di accertamento per i crediti di imposta non spettanti (inesistenti) è il 31 dicembre del quinto (ottavo) anno successivo a quello di utilizzo.

Lo schema di decreto di riforma delle sanzioni approvato dal Consiglio dei ministri del 21 febbraio scorso riscrive la distinzione tra i crediti di imposta in questione, mitigandone il regime sanzionatorio. In breve:

  • è definito il credito di imposta non spettante, mentre il credito di imposta inesistente continua ad essere identificato dalla mancanza, in tutto o in parte, del presupposto costitutivo. Si considera credito di imposta non spettante il credito, diverso da quello inesistente, fondato su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità;
  • continua a rappresentare una ipotesi di credito di imposta non spettante quella del credito di imposta utilizzato in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quello fruito in misura superiore a quella prevista;
  • a differenza di quanto chiarito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 34419/2023, se il credito di imposta è utilizzato correttamente ma ci sono violazioni di adempimenti amministrativi, il credito è da considerarsi spettante. È richiesta soltanto una sanzione pari a 250 euro a condizione che tali adempimenti non siano previsti a pena di decadenza e non siano essenziali al riconoscimento del credito medesimo, e che tale violazione sia rimossa entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale ai fini delle imposte sui redditi relativa all’anno di commissione della medesima, ovvero in assenza di una dichiarazione, comunque entro un anno dalla sua commissione;
  • la sanzione per indebito utilizzo del credito di imposta non spettante si riduce dal 30 per cento al 25 per cento;
  • la sanzione per indebito utilizzo del credito di imposta inesistente si riduce dal minimo del 100 per cento al massimo del 200 per cento ad una misura fissa pari al 70 per cento, che, in presenza di attività inesistenti o frodi, aumenta dalla metà al doppio.

L’art. 13, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 471 del 1997, così come modificati dallo schema di decreto delegato nel testo approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 21 febbraio, sembrerebbe migliore del testo attualmente in vigore perché separa nettamente le due ipotesi di indebito utilizzo del credito di imposta, prevedendo, per l’effetto, un differente regime sanzionatorio. Poi, la circostanza che frodi o attività inesistenti determinino un inasprimento della sanzione irrogabile è valutata positivamente perché condivide l’idea che i crediti di imposta non spettanti sono crediti di imposta per i quali la disciplina attuativa dell’incentivo è stata correttamente applicata se non per qualche difetto di specifici elementi o particolari qualità.

Inoltre, dovrebbe essere valutata positivamente anche l’eliminazione di ogni riferimento ai controlli automatizzati per legittimare l’inesistenza dei crediti di imposta utilizzati. Questi controlli, infatti, potevano comunque non rappresentare una risposta sanzionatoria equa, in quanto colpivano comportamenti contraddistinti da un differente livello di pericolosità.

Infine, l’oggetto dei crediti di imposta non spettanti (difetto per specifici elementi o particolari qualità) sembrerebbe contenere elementi atti a disciplinare l’assenza, ad esempio, delle qualità richieste alle attività di ricerca e sviluppo (e indicate nel “Manuale Frascati”) al fine di integrare l’ambito oggettivo delle discipline attuative di crediti di imposta.

Tuttavia, stando allo schema del decreto di riforma delle sanzioni, deve purtroppo evidenziarsi che la nuova disciplina non potrà trovare applicazione per il passato, in quanto è stata prevista una deroga espressa al principio del “favor rei”. Infatti, l’art. 5 dello schema di decreto di riforma delle sanzioni prevede che “Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, comma 1, lettere a), b), c), d), e), h), i), l), m), n) e o) e 4, si applicano alle violazioni commesse successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. A ben vedere, pertanto, la disposizione normativa fa riferimento alla “commissione” e non all’accertamento della violazione, con la conseguenza che il più mite regime sanzionatorio troverà applicazione solo per fatti “commessi” successivamente all’entrata in vigore della norma.

Non è questa la sede per valutare la legittimità costituzionale di una simile scelta legislativa, per giunta mai attuata in tutte le riforme finora effettuate. Sul punto, basti rilevare come la dottrina abbia già sollevato possibili criticità anche in termini incremento del contenzioso [16].

L’assenza del presupposto costitutivo dei crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo

Ad oggi, quindi, salvo ripensamenti del legislatore o interventi da parte della Corte Costituzionale, l’interprete dovrà confrontarsi con il regime previsto per i crediti di imposta “inesistenti” e “non spettanti”, come da ultimo plasmato dalla già citata sentenza delle Sezioni Unite n. 34419/2023.

La sentenza n. 34419 in commento, sebbene pregevole per lo sforzo interpretativo della Suprema Corte nel cercare di fornire i criteri idonei a distinguere le ipotesi di inesistenza da quelle di non spettanza, appare però non convincente laddove equipara, sotto il profilo sanzionatorio, condotte fraudolente ad altre aventi un grado di offensività nettamente inferiore. Infatti, come osservato, le Sezioni Unite ritengono applicabile la severa sanzione prevista per i crediti di imposta “inesistenti” (i.e. dal 100 per cento al 200 per cento del credito utilizzato) sia alle ipotesi di “artificiosa” creazione del credito, sia al caso di carenza dei presupposti costitutivi del credito stesso. Si tratta di condotte che posso differire notevolmente sul piano dell’offensività e del disvalore.

Il caso è particolarmente emblematico nelle ipotesi di utilizzo di crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo, dove i presupposti costitutivi del credito soggiacciono a questioni valutative complesse, in grado di ingenerare notevoli errori.

Si pensi, ad esempio, ai requisiti di novità, creatività, incertezza, sistematicità, trasferibilità e/o riproducibilità previsti dal “Manuale di Frascati” [17]  per la fruizione del credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo.

È evidente che in siffatte ipotesi appare del tutto iniquo accomunare, sotto il profilo sanzionatorio, la condotta del contribuente che per un errore tecnico non ha perfezionato uno degli elementi costitutivi del credito di imposta, da quella del contribuente che, perseguendo un intento frodatorio, ha creato del tutto artificialmente il credito imposta. Forse, a tal fine, basterebbe ripristinare la finalità originaria degli atti di recupero, introdotti con la legge n. 311 del 2004, che è sempre stata quella di controllare le attività di artificiosa rappresentazione di crediti (vd. citato par. 15.5 Corte di Cassazione, n. 34419/2023 e Assonime, circolare n. 23/2019 e n. 1/2021) [18].

In ogni caso, sembra che, quanto meno per i crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo, una certa giurisprudenza di merito abbia adeguatamente tutelato la posizione del contribuente. La fattispecie è quella, oramai nota, della identificazione dei requisiti (prevalentemente di “novità” e “innovazione”) richiesti per la fruizione del credito di imposta.

Come noto, fino alla legge n. 160 del 2019 (c.d. “Legge di Bilancio 2020”), ai fini dell’esistenza del credito, il Legislatore non richiedeva che il superamento tecnico-scientifico apportasse un beneficio per l’intera economia bensì, semplicemente, che il prodotto o il processo fosse nuovo o significativamente migliorato per l’impresa e non che dovesse essere nuovo per il settore di appartenenza. Requisiti più stringenti (in termini di novità/innovazione per il settore di appartenenza e non solo per l’impresa) sono stati normativamente recepiti quando il “Manuale di Frascati” è stato indicato come standard di riferimento dalla “legge di bilancio 2020” in sede di applicazione dei criteri di attività di ricerca e sviluppo che sarebbero stati attuati nel decreto attuativo (decreto del Ministero dello Sviluppo economico 27 maggio 2020).

In tale contesto, la giurisprudenza ha sancito la spettanza dell’agevolazione, posto che la normativa precedente non prevedeva il riferimento ai criteri individuati nel Manuale di Frascati [19].

Il problema, dunque, potrebbe essere risolto in base alla successione delle leggi nel tempo: fino al 2019 i requisiti previsti dal “Manuale di Frascati” potrebbero riguardare la singola impresa, con la conseguenza che le attività di ricerca e sviluppo che li rispettano sono perfettamente legittimi. Solo successivamente la “novità”, l’innovazione e gli altri requisiti tecnici sono stati intesi dal Legislatore in senso assoluto, rispetto cioè al settore di appartenenza. Di conseguenza, dopo l’entrata in vigore della “Legge di Bilancio 2020”, le attività di ricerca e sviluppo che non rispettino tali requisiti, rifacendosi alla precedente definizione di novità, determinerebbero l’insistenza del credito per mancanza di un elemento costitutivo.

Tuttavia, anche qualora si ritenesse che la definizione più stringente di tali requisiti fosse già presente anche nel 2019 e per i periodi di imposta precedenti (come sostiene l’Agenzia delle Entrate nei propri recuperi) ([20]), riteniamo che vi sia spazio per l’operare della causa di disapplicazione della sanzione per incertezza del dato normativo ai sensi degli artt. 6, comma 2, d.lgs. n. 472 del 1997, 8, d.lgs. 546 del 1992 e 10, comma 3, legge n. 212 del 2000.

In particolare, il predetto art. 6, comma 2, prevede che non sia “punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonché da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e il pagamento”. La Corte di Cassazione ha fornito una interpretazione restrittiva della norma in esame, prevedendo che l’incertezza normativa oggettiva sia caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni “indici”, quali, ad esempio: “1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità̀ costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente[21].

La fattispecie in esame potrebbe rientrare tra le casiste enucleate dalla Suprema Corte, posto che sussisteva di fatto una impossibilità di determinare con sicurezza ed univocamente i requisiti della “novità” e della “innovazione”, essendo la disciplina normativa caratterizzata da notevole genericità e opinabilità. In un simile contesto, appare pertanto corretto accordare al contribuente – a fronte dell’eventuale recupero del credito di imposta – quantomeno la disapplicazione delle sanzioni per obiettiva incertezza (rectius indeterminabilità) della normativa applicabile al caso concreto.

Ciò, ovviamente, non esclude che anche a seguito del recepimento del “Manuale di Frascati” e dunque post 2019, possano emergere dei casi in cui sussista una condizione di obbiettiva incertezza idonea a legittimare la disapplicazione delle sanzioni [22].

In conclusione, l’applicazione delle sanzioni per “inesistenza” dei crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo appare, in alcuni casi, fortemente sproporzionata rispetto alla lieve offensività della condotta del contribuente, soprattutto se confrontata alle più gravi ipotesi frodatorie sanzionate nella medesima misura. Questa situazione potrebbe trovare un correttivo nella disapplicazione della sanzione per “obiettiva incertezza”, fattispecie idonea a riportare ad equità proprio quelle situazioni in cui il contribuente, per oggettiva indeterminatezza di un presupposto costitutivo, è incorso in un errore circa la genesi e l’utilizzo del credito di imposta.

 

[1] Alla data del 7 marzo 2024 lo schema di decreto attuativo del regime sanzionatorio amministrativo e penale è stato approvato dal Consiglio dei Ministri del 21 febbraio 2024 ma non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale.

[2] Sul punto, senza pretesa di esaustività, si rinvia a “La fattispecie dell’indebito utilizzo di crediti di imposta inesistenti e non spettanti tra i disorientamenti di legittimità e prassi: la zona grigia da dipanare” di Paola Coppola in Diritto e Pratica tributaria n. 4/2021, “Controllo ordinario delle dichiarazioni e recupero dei crediti inesistenti «compensati»: un coordinamento possibile” di Giuseppe Gargiulo e Raffaello Lupi in Dialoghi di diritto tributario n. 4/2009, “La compensazione di crediti “inesistenti” e “non spettanti”: regime sanzionatorio e profili procedimentali” di Alessandro Albano in Rivista telematica di diritto tributario 4 febbraio 2021, “La rilevanza della differenziazione tra “crediti inesistenti” e “crediti non spettanti” ai fini procedimentali e sanzionatori, in attesa delle Sezioni Unite della Cassazione”, di Federica Campanella in Rivista telematica di diritto tributario 6 giugno 2023.

[3] Dall’analisi dei dati a livello nazionale, scaturita da una selezione mirata al periodo di riscossione – dal 13 novembre 2002 al 9 aprile 2003 – riferita al codice tributo “6734” (Investimenti nelle aree svantaggiate – art. 8 legge n. 388 del 2000), è emerso un notevole numero di soggetti che non avrebbero adempiuto all’obbligo di sospensione della fruizione degli ulteriori utilizzi del contributo (art. 1 decreto legge n. 253 del 2002, e art. 62 legge n. 289 del 2002 (“legge finanziaria per il 2003”).

[4] Nella circolare n. 35/2003, l’Agenzia delle entrate, infatti, precisa che tale attività di monitoraggio si concreta:

  • nella preliminare verifica dell’esistenza dei presupposti e delle condizioni fissati dalla legge per usufruire delle agevolazioni;
  • nella determinazione dell’esatto ammontare del credito spettante, qualora ricorrano le condizioni di legge per usufruire dell’agevolazione;
  • nel riscontro dell’effettivo ammontare del credito utilizzato in compensazione;
  • nella successiva notifica al contribuente – nei casi di riscontrato indebito utilizzo del credito – di un apposito atto di recupero, contenente l’invito a versare le complessive somme dovute (credito indebitamente utilizzato, interessi e sanzioni) entro sessanta giorni dalla data di notifica; qualora il contribuente non ottemperi all’invito, l’Ufficio procederà alla relativa iscrizione a ruolo a titolo definitivo.

[5] Art. 1, comma 421, legge 30 dicembre 2004, n. 311: “Ferme restando le attribuzioni e i poteri previsti dagli articoli 31 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, nonché quelli previsti dagli articoli 51 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e successive modificazioni, l’Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall’articolo 60 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973. La disposizione del primo periodo non si applica alle attività di recupero delle somme di cui all’articolo 1, comma 3, del decreto-legge 20 marzo 2002, n. 36, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 maggio 2002, n. 96, e all’articolo 1, comma 2, del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2003, n. 27”. Tale disposizione normativa, unitamente a quella di cui all’art. 1, comma 422 e comma 423, della legge n. 311 del 2004, sarà abrogata a decorrere dal 30 aprile 2024 (art. 41, comma 2, d.lgs. n. 13 del 2024).

[6] Anche se l’atto di recupero non è espressamente previsto dall’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992 come atto impugnabile, l’elenco degli atti impugnabili, contenuto nel citato articolo 19 andrebbe interpretato in modo estensivo, sì da comprendere anche quei provvedimenti che, pur non rivestendo l’aspetto formale proprio di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili, portino comunque a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria (Corte di Cassazione, ordinanza n. 8429/2017 e ordinanza n. 9437/2020).

Inoltre, la natura di atto impugnabile è presente anche negli atti di recupero dei crediti di imposta indebitamente utilizzati emessi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 311/2004 (art. 1, comma 421), che ha espressamente annoverato l’avviso di recupero tra gli atti aventi titolo per la riscossione di crediti indebitamente utilizzati in compensazione (Corte di Cassazione sentenza n. 6582/2011).

[7] L’art. 27, comma 16, decreto-legge n. 185 del 2008 stabilisce che: “Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”. Tale disposizione normativa, unitamente a quella di cui all’art. 27, commi 17, 19 e 20, del decreto-legge n. 185 del 2008, sarà abrogata a decorrere dal 30 aprile 2024 (art. 41, comma 2, d.lgs. n. 13 del 2024).

[8] L’art. 15 del d.lgs. 158 del 2015, al comma 1, lettera o) sostituisce l’articolo 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, disciplinandone ai commi 4 e 5 l’indebito utilizzo dei crediti di imposta. In particolare:

  • nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti si applica, salva l’applicazione di disposizioni speciali, la sanzione pari al trenta per cento del credito utilizzato (comma 4);
  • nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (comma 5).

[9] Relazione illustrativa all’art. 27 del decreto-legge n. 185 del 2008: “Dai riscontri sui dati contenuti nei modelli di pagamento unificato relativi alle compensazioni esposte e a seguito di segnalazioni di situazioni a rischio, sono stati rilevati crediti d’imposta non esposti, come obbligatoriamente previsto, nelle dichiarazioni presentate, nonché relativi a periodi di formazione per i quali le dichiarazioni risultano omesse o nei quali l’attività economica esercitata dai contribuenti risulta essere cessata. Sono comportamenti connotati da aspetti fraudolenti in quanto, solo a seguito di specifici riscontri di coerenza contabile tra quanto analiticamente indicato nei modelli di versamento (relativamente ai crediti utilizzati in compensazione) e le dichiarazioni (in molti casi omesse) in cui risulterebbe essersi formata «la provvista», emerge l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali. Quest’ultima circostanza richiede, conseguentemente, la necessità del riscontro contabile della sussistenza degli «importi a credito» utilizzati per compensare gli «importi a debito», procedendo dall’analisi e dalla liquidazione dei dati esposti nei modelli di pagamento unificato…L’ampliamento dei termini appare necessario al fine di garantire l’esercizio dei poteri di controllo anche in caso di omissione di adempimenti obbligatori e al tempo stesso indispensabili per l’espletamento dell’ordinaria attività di controllo delle dichiarazioni fiscali. L’intervento normativo è volto a garantire termini per il controllo più ampi di quelli ordinari – che, per le caratteristiche dei fenomeni fraudolenti riscontrati nell’esperienza operativa, è necessario far decorrere non dalla data di presentazione delle dichiarazioni relative ai periodi d’imposta in cui i crediti «inesistenti» sarebbero sorti (o da quella in cui le dichiarazioni avrebbero dovuto essere presentate), bensì da quella di effettuazione delle illegittime compensazioni – nonché uno specifico trattamento sanzionatorio.

Le previsioni in materia di termini sono legate alle difficoltà operative derivanti dagli artifici posti in essere da coloro che compensano i crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute, in danno all’Erario. L’aumento delle sanzioni applicabili deriva dalla gravità dei comportamenti posti in essere. La disposizione è finalizzata a rendere più efficace il contrasto di un fenomeno – qual è quello dei crediti inesistenti utilizzati in compensazione per il pagamento di somme dovute all’Erario – connotato da profili di rilevante offesa degli interessi erariali, e ad assicurare una più incisiva capacità di intervento dell’Agenzia, finalizzata al recupero di risorse illegittimamente sottratte all’Erario. Proprio in quanto il controllo non può prescindere da un riscontro che trova origine dalla liquidazione dei dati esposti nel modello di pagamento unificato, il termine di otto anni (commisurato al doppio dell’ordinario termine decadenziale per l’attività di accertamento) appare giustificato dalle difficoltà operative provocate dall’artificiosa rappresentazione contabile dei crediti in sede di auto-liquidazione del debito, circostanza che configura comportamenti fraudolenti finalizzati a rendere infruttuosa l’azione di controllo, ai danni dell’Erario”.

[10] La Corte di Cassazione (sentenza n. 10112/2017) ha affermato che “la distinzione basata sulla diversa definizione terminologica del credito d’imposta, oltre a non avere base normativa, si appalesa inconsistente dal momento che quando stabilisce il termine di otto anni per l’atto di recupero dei crediti “inesistenti”, l’art. 27, comma 16, cit. non intende elevare la “inesistenza” del credito a categoria distinta dalla “non spettanza”, trattandosi di distinzione priva di fondamento logico-giuridico. Piuttosto, la proroga ad otto anni del termine per il recupero dell’imposta è volta a consentire all’ufficio di compiere gli accertamenti, talvolta complessi, riguardanti la natura dell’investimento che ha generato il credito di imposta. Dunque, ogniqualvolta il credito derivante dall’investimento previsto dalla L. n. 388 del 2000, art. 8 non sussiste, per ciò solo deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma”. Questa interpretazione, poi, è stata poi ripresa da successive decisione dei giudici di legittimità (ex multis sentenze nn. 19237/2017, 24093/2020, 354/2021 e 31859/2021).

[11] Con la sentenza n. 34443, i giudici si sono soffermati sul regime sanzionatorio applicabile in tema di crediti di imposta indebitamente utilizzati in compensazione, affermando il seguente principio di diritto “il discrimine ai fini dell’applicazione della sanzione del 30%, ovvero della sanzione dal 100 per cento al 200 per cento del credito indebitamente utilizzato, come previste dall’art. 13, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 471/1997 (introdotti dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015, con contestuale abrogazione dell’art. 27, comma 18, del d.l. n. 185 del 2008, conv, in legge n. 2 del 2009, come modificato dall’art. 7, comma 2, del dl. n. 5 del 2009, conv. in legge n. 33 del 2009) va individuato, rispettivamente, nell’utilizzo di un credito “non spettante” ovvero di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – ai sensi dello stesso art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. cit. – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/1972”.

Con le sentenze n. 34444 e 34445, i giudici, condividendo la definizione di credito di imposta inesistente riportata nella sentenza n. 34443/2021, si sono soffermati sul termine entro il quale esercitare l’azione di accertamento dei crediti di imposta indebitamente utilizzati in compensazione, affermando il seguente medesimo principio di diritto “l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”…”.

[12] In particolare, con la sentenza n. 25436 del 29 agosto 2022, la Corte di Cassazione si adegua al primo orientamento (quello, cioè, che nega la distinzione dei crediti di imposta tra inesistenti e non spettanti), mentre con la sentenza n. 5243 del 20 febbraio 2023 la Corte di Cassazione si è adeguata alle citate tre sentenze “gemelle” del 16 novembre 2021.

[13] Nella circolare n. 5/2016 (con la quale sono stati pubblicati i primi chiarimenti sulla disciplina normativa del credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo ex art. 3, decreto legge n. 145 del 2013), dopo aver distinto i crediti di imposta non spettanti (art. 13, co. 4, d.lgs. n. 471 del 1997) e inesistenti (art. 13, co. 5, d.lgs. n. 471 del 1997), la stessa Agenzia delle entrate, a titolo esemplificativo ha precisato che “…si configura un’ipotesi di inesistenza del credito nel caso in cui non siano stati sostenuti i costi per attività di ricerca e sviluppo”.

Poi, nella risoluzione n. 36/2018, un ufficio locale dell’Agenzia delle entrate sottoponeva all’ufficio consulenza dell’Agenzia delle entrate un quesito Iva, e cioè se, in presenza di una dichiarazione Iva infedele per detrazione Iva per operazioni inesistenti, oltre alla sanzione per indebita detrazione Iva per operazioni inesistenti e dichiarazione infedele dovesse essere irrogata anche la sanzione per utilizzo in compensazione di crediti inesistenti.

La risposta fornita ha anticipato sostanzialmente l’interpretazione che la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha sancito nel principio di diritto espresso nella sentenza n. 34419/2023, non solo perché riconosce la duplice natura di indebito utilizzo del credito di imposta (non spettante e inesistente) ma anche il differente regime di decadenza dall’attività di controllo (ordinario per i crediti non spettanti e speciale per utilizzo di crediti inesistenti). Ciò premesso, nella risposta l’Agenzia delle entrate ha escluso che tale violazione potesse essere sanzionata anche con irrogando la sanzione ex art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997 in quanto tale sanzione è già assorbita dalla sanzione irrogata per dichiarazione infedele derivante dall’aver indebitamente detratto l’Iva su per operazioni inesistenti.

Infine, più recentemente (risposta n. 348/2023), l’Agenzia delle entrate riporta l’interpretazione della Corte di Cassazione penale n. 7615 del 3 marzo 2022 e delle tre citate sentenze della Corte di Cassazione del 16 novembre 2021 ai fini della distinzione tra le due tipologie di indebito utilizzo di crediti di imposta. Venendo, poi, al contenuto della risposta, anche in questo caso possiamo intravedere una anticipazione della sentenza n. 344419/2023, in quanto un indebito utilizzo in compensazione di credito di imposta è stato qualificato come “non spettante” in presenza di un vizio di carattere amministrativo (indicazione di un errato codice fiscale nella comunicazione da inviare all’Agenzia delle entrate e riguardante il condominio oggetto dei lavori che hanno beneficiato delle detrazioni di imposta disciplinate dall’art. 121 del decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020 conv., con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 17 luglio 2020, n. 77).

[14] Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 34419/2023 (par. 11): “In conclusione, la distinzione tra credito inesistente e credito non spettante ha, innanzitutto, carattere strutturale e trae il suo fondamento logico giuridico dal complessivo sistema ordinamentale tributario: l’una (“l’inesistenza”) ha un valore obbiettivo, mentre l’altra (la “non spettanza”) ha un carattere dinamico ancorato al presupposto, antitetico, dell’esistenza del credito.”.

[15] Nella recente ordinanza n. 3993 del 13 febbraio 2024, la Corte di Cassazione, recependo il principio di diritto sancito dalle Sezioni Unite in commento, ha escluso che il credito di imposta potesse qualificarsi inesistente, in quanto l’Agenzia delle entrate non ha dimostrato (l’assenza dell’obbligazione di fare in capo al contribuente, vale a dire) il presupposto della adibizione del bene oggetto di investimento ad una finalità diversa da quella per la quale era subordinato l’incentivo tributario; fattispecie che invece si è presentata proprio nella sentenza n. 34419/2023.

[16] D. Deotto, L. Lovecchio, “La deroga al favor rei rischia di alimentare il contenzioso”, in Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2024.

[17] Il “Manuale di Frascati” è un documento OCSE predisposto per la raccolta e la rendicontazione di statistiche comparabili a livello internazionale sulle risorse finanziarie e umane dedicate alla ricerca e allo sviluppo sperimentale. Il legislatore italiano lo ha indicato all’art. 1, comma 200, della legge n. 160 del 2019 (c.d. “legge di bilancio 2020”) come standard di riferimento per la corretta applicazione delle definizioni di origine unionale (comunicazione della Commissione (2014/C 198/01) del 27 giugno 2014) delle attività di ricerca fondamentale, di ricerca industriale e sviluppo sperimentale in campo scientifico o tecnologico. In tale documento (par. 2.13) si afferma che affinché un’attività possa essere classificata come attività di R&S, devono essere soddisfatti congiuntamente cinque criteri fondamentali: l’attività deve essere nuova, creativa, incerta, sistematica e riproducibile.

[18] Assonime (circolare n. 23/2019 e n. 1/2021) sostiene condivisibilmente, che l’assenza di uno dei cinque requisiti indicati nel “Manuale di Frascati” non può determinare l’inesistenza del credito di imposta. Quest’ultima fattispecie, infatti, dovrebbe comprendere soltanto ipotesi di artificiose rappresentazioni contabili e quindi di un’attività fraudolenta (cioè, assenza di attività) ovvero quando è evidente che l’attività effettivamente esistente non presenta ictu oculi gli elementi per essere qualificata come attività di ricerca e sviluppo.

[19] Corte di giustizia tributaria di primo grado di Macerata, sentenza n. 270/1/23 del 27 ottobre 2023. Si veda anche Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Valle d’Aosta, sentenza n. 5/1/23 del 3 aprile 2023 e Commissione tributaria provinciale di Aosta, sentenza n. 46/1/21 dell’8 novembre 2021.

[20] Per l’Agenzia delle entrate (circolare n. 31/2020) i crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo la mancanza di uno dei requisiti richiesti per qualificare un’attività di impresa quale attività di ricerca e sviluppo (novità, innovazione, rischio di insuccesso, trasferibilità e sistematicità) dà luogo a un credito di imposta inesistente ex art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471 del 1997.

[21] Corte di Cassazione, sentenza n. 9360/2023.

[22] Va rilevato che, in alcune pronunce, la giurisprudenza di merito si è già espressa proprio in riferimento ai crediti di imposta per attività di ricerca e sviluppo, disapplicando le sanzioni irrogate dall’Amministrazione per l’obiettiva incertezza della normativa in esame circa l’identificazione delle attività ammissibili all’agevolazione. Si veda, ad esempio, Comm. trib. prov. Puglia Taranto, sentenza n. 371 del 5 aprile 2022.

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