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Giurisprudenza

Credito della banca da conto corrente e domanda di ammissione al passivo

23 Giugno 2020

Avv. Valerio Sangiovanni, Dottore di ricerca

Cassazione Civile, Sez. VI, 27 febbraio 2020, n. 5319 – Pres. Scaldaferri, Rel. Pazzi

Di cosa si parla in questo articolo

Il caso

Il giudice delegato al fallimento di una s.r.l. non ammetteva al passivo della procedura il credito vantato da una banca, derivante dai saldi debitori di un conto corrente ordinario e di un conto anticipi alla luce dell’inopponibilità degli estratti conto alla curatela, per cui non vi era prova di comunicazione al fallito.

Il Tribunale di Napoli Nord, con decreto depositato in data 7 giugno 2018, rigettava l’opposizione proposta dalla banca, poiché la banca aveva l’onere di dare la prova piena del suo credito assolvendo il relativo onere non attraverso la produzione degli estratti conto, inopponibili alla curatela del fallimento, ma secondo il disposto dell’art. 2697 c.c. attraverso la documentazione relativa allo svolgimento del conto.

Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso la banca.

La sentenza del Tribunale di Napoli Nord viene cassata, in quanto il collegio di merito doveva valorizzare il contenuto degli estratti conto prodotti in funzione della loro idoneità a giustificare lo sviluppo dell’intero rapporto contrattuale fino all’apertura del concorso e alla luce del contegno processuale assunto dal curatore.

Le questioni giuridiche rilevanti nella decisione della Corte di cassazione in commento sono essenzialmente tre, e tutte di immediato rilievo pratico:

  1. quali contratti la banca debba produrre per ottenere l’ammissione al passivo di un credito bancario da conto corrente;
  2. se gli estratti conto della banca debbano essere prodotti integralmente;
  3. se la mancata contestazione degli estratti conto da parte del correntista durante il rapporto bancario nel periodo in bonis impedisca di sollevare contestazioni sulle risultanze dell’estratto conto.

La produzione dei contratti bancari al curatore

In caso di procedure concorsuali, fra i creditori che cercano soddisfazione rientrano tipicamente le banche. Gli istituti possono vantare crediti da esposizioni debitorie in conto corrente oppure crediti da finanziamento (mutui). Quale che sia l’origine del credito, in caso di dichiarazione di fallimento del debitore è necessario per la banca presentare domanda di ammissione al passivo, pena la perdita del credito.

In relazione alla domanda di ammissione al passivo, l’art. 93 comma 6 l. fall. stabilisce che al ricorso sono allegati i documenti dimostrativi del diritto del creditore. Quali sono allora i documenti che la banca creditrice deve trasmettere al curatore per ottenere l’ammissione del proprio credito? Per rispondere in modo appropriato a questo quesito bisogna tenere in considerazione anche l’art. 94 l. fall., secondo cui la domanda di ammissione al passivo produce gli effetti della domanda giudiziale. Essendo la domanda di ammissione al passivo equiparata a una domanda giudiziale, gli oneri di allegazione e di prova sono particolarmente elevati per chi asserisce di vantare un credito (più in generale, come è noto, l’art. 2697 c.c. stabilisce che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”).

A questo riguardo, nell’ambito dei rapporti bancari, il “fatto” che costituisce il fondamento del credito della banca è anzitutto il contratto. Il testo unico bancario prevede che i contratti sono redatti per iscritto (art. 117 comma 1 t.u.b.) e che nel caso di inosservanza della forma prescritta il contratto è nullo (art. 117 comma 3 t.u.b.). Dunque, la prima verifica che deve fare il curatore, al fine di decidere se ammettere o meno il credito, è se vi sia un valido contratto bancario. In assenza di contratto bancario, il credito non potrà essere ammesso.

Per l’ammissione al passivo di crediti da conto corrente, la banca deve anzitutto produrre il testo del contratto di conto corrente. Il punto è che il contratto di conto corrente, di per sé, non è idoneo a generare una posizione creditoria della banca, in quanto il contratto di conto corrente non autorizza il correntista ad andare in rosso, prelevando somme che non sono disponibili sul conto. Affinché si possa creare un’esposizione debitoria in conto, è necessario che – oltre al contratto di conto corrente – sia stipulato un secondo e distinto contratto di apertura di credito. La legge italiana definisce l’apertura di credito bancario come “il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell’altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato” (art. 1842 c.c.). In caso dunque di affidamento, la banca – in sede di domanda di ammissione del proprio credito al passivo fallimentare – deve produrre anche copia del contratto di apertura di credito (naturalmente, solo se esso è stato stipulato, altrimenti si avrà uno “sconfinamento”, fattispecie diversa dall’“affidamento”).

Riassumendo, sono due i documenti contrattuali che la banca deve produrre al curatore:

  1. il contratto di conto corrente (art. 1823 c.c.);
  2. il contratto di apertura di credito (art. 1842 c.c).

Prodotti questi documenti, in linea di principio nulla osta all’ammissione del credito della banca (fermo restando quanto si dirà nel prosieguo con riferimento agli estratti conto).

La produzione dei contratti è necessaria anche per dimostrare l’ammontare degli interessi pattuiti fra le parti. A questo riguarda bisogna osservare che, in genere, i contratti di conto corrente sono dei meri contratti-quadro che non contengono le condizioni economiche applicabili alle esposizioni debitorie che dovessero in futuro generarsi sulla base dello svolgimento del rapporto fra le parti. È invece il contratto di apertura di credito a contenere le condizioni economiche, fra cui quella più importante è senz’altro il tasso debitore. Questa situazione che si riscontra frequentemente nella prassi è del resto comprensibile se si riflette sul fatto che, nell’ambito di un unico contratto di conto corrente a tempo indeterminato, possono essere concessi più fidi nel corso del tempo. Se, ad esempio, il contratto di conto corrente è stipulato nel 2010, è inutile che si preveda il tasso debitore già nel contratto di conto corrente, in quanto il tasso deve riflettere le condizioni di mercato in ogni dato momento. E così: se verrà chiesto un fido nel 2015 si applicherà il tasso di mercato del 2015, mentre se verrà chiesto un fido nel 2020 si applicherà il tasso di mercato del 2020.

La produzione integrale degli estratti conto

In aggiunta ai contratti bancari, dall’ordinanza della Corte di cassazione in commento emerge la necessità che gli estratti conto vengano prodotti dalla banca al curatore fallimentare nella loro interezza. Il principio appare corretto se si considera che i rapporti di conto corrente possono avere una durata di diversi decenni e solo con gli estratti conto integrali si può provare l’andamento del rapporto nel suo complesso[1].

Per comprendere meglio il principio affermato dalla Corte di cassazione (necessità per la banca attrice di produrre tutti gli estratti conto), si rifletta sul fatto che – al momento dell’apertura del conto – il saldo è sempre uguale a zero. Il debito può sorgere solo per effetto dell’utilizzo del conto corrente e, in particolare, a mezzo di sconfinamento (art. 117-bis t.u.b.) oppure di affidamento (art. 1842 c.c.). Nel primo caso il correntista va in rosso senza che vi sia un contratto che lo autorizzi in questo senso, nel secondo caso il correntista va in rosso in forza di un apposito contratto (di apertura di credito) che lo autorizza. In ogni caso la prova del credito della banca non risulta dal solo contratto di conto corrente e nemmeno dal combinato di conto corrente e apertura di credito. La prova del credito può risultare solo da un documento separato (l’estratto conto) che dimostra – a una certa data (nell’ambito fallimentare si tratta della data della dichiarazione di fallimento) – a quanto ammonta il saldo.

Conto corrente e apertura di credito operano insomma in modo esattamente contrario ai contratti di mutuo. In questa’ultima forma di finanziamento, il debito sorge immediatamente, per effetto della dazione originaria e una tantum del danaro. Dalla medesima definizione di mutuo (art. 1813 c.c.) risulta che si tratta del contratto col quale una parte “consegna” all’altra una determinata quantità di danaro. Dalla “consegna” deriva l’obbligo di “restituzione”. Nel mutuo è la consegna che prova il credito della banca finanziatrice. Tanto è vero che il contratto di mutuo contiene spesso la dichiarazione del mutuatario di costituirsi debitore e la quietanza rilasciata dal debitore al creditore (nella prassi alcune volte la quietanza è un atto fisicamente separato, seppure contestuale al mutuo).

Esprimendo in modo schematico il concetto si può dire che nei mutui il debito sorge alla stipula del contratto, mentre nei conti correnti il debito sorge durante il contratto e si determina nel suo ammontare finale solo al momento della chiusura del rapporto. Si tratta esattamente del motivo per cui il mutuo fondiario costituisce titolo esecutivo, mentre l’apertura di credito fondiaria non costituisce titolo esecutivo. Il contratto di mutuo incorpora la confessione del debitore in merito all’ammontare (originario) del debito, mentre il contratto di apertura di credito incorpora solo l’indicazione del c.d. “accordato”, ossia dell’importo massimo a cui può giungere il debito (mentre non incorpora alcuna confessione in merito all’ammontare del debito). Se l’apertura di credito è assistita da garanzia ipotecaria, non per questo il contratto può diventare titolo esecutivo, perché – al momento della stipula del contratto – non si conosce il debito, che crescerà e maturerà nel corso del tempo. Solo alla chiusura del rapporto, si saprà in che misura l’accreditato è indebitato[2]

I conti correnti operano in modo diverso (si potrebbe dire “contrario”) rispetto ai mutui. Nei conti correnti vengono effettuate nel corso degli anni quelle che la legge (art. 1823 comma 1 c.c.) definisce “rimesse”, rimesse che possono essere di segno positivo (accrediti) o di segno negativo (addebiti). Solo alla chiusura del conto si avrà un saldo, che può essere creditore o debitore:

  1. se il conto mostra alla chiusura un saldo positivo, sussiste un credito del correntista nei confronti della banca;
  2. viceversa, se il conto mostra alla chiusura un saldo negativo, sussiste un credito della banca nei confronti del correntista.

Il punto è che il saldo debitore finale, ossia quello risultante dall’ultimo estratto conto, è il risultato di numerosissime operazioni in dare e in avere poste in essere nel corso del rapporto di conto corrente. Il saldo finale è corretto solo se è il risultato matematico delle varie operazioni poste in essere nel corso degli anni. Essendo la banca, in quanto attrice, tenuta a dimostrare il proprio credito, la banca deve produrre tutti gli estratti conto dal giorno dell’apertura del conto al giorno della chiusura del conto.

A questo riguardo si possono fare brevi osservazioni sia con riguardo all’apertura del conto sia con riguardo alla chiusura del conto.

Con riferimento all’apertura del conto, si consideri che frequentemente il conto di un imprenditore – infine dichiarato fallito – è stato aperto molto addietro nel tempo. A seconda dei casi l’apertura del conto potrebbe essere addirittura anteriore al 1° gennaio 1994, data di entrata in vigore del testo unico bancario. Se il saldo finale è il risultato di ogni singola operazione, basta che manchi anche solo un singolo estratto conto trimestrale per rendere impossibile la ricostruzione analitica del rapporto.

Con riferimento alla chiusura del conto, meritano rilievo due considerazioni, una di diritto fallimentare e una di diritto bancario. Ai sensi del diritto fallimentare, i contratti di conto corrente, anche bancario, si sciolgono per il fallimento di una delle parti (art. 78 l. fall.). Se dunque l’imprenditore fallisce, il conto si considera chiuso e il saldo diventa esigibile. Ai sensi del diritto bancario, va considerato l’art. 50 t.u.b., secondo cui “le banche possono chiedere il decreto ingiuntivo … anche in base all’estratto conto, certificato conforme alle scritture contabili da uno dei dirigenti della banca interessato, il quale deve altresì dichiarare che il credito è vero e liquido”. Quest’ultima disposizione è speciale del diritto bancario (e rileva ai fini dell’emissione del decreto ingiuntivo), mentre non è applicabile alla domanda di ammissione al passivo.

L’art. 1832 c.c. e l’approvazione tacita del conto

L’ultima questione affrontata nell’ordinanza in commento è la tematica dell’approvazione del conto. L’art. 1832 comma 1 c.c. prevede che “l’estratto conto trasmesso da un correntista all’altro s’intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale”. Nella prassi bancaria, gli estratti conto vengono trasmessi con cadenza trimestrale dalla banca al correntista. Inoltre i contratti prevedono un termine piuttosto breve entro il quale il correntista deve sollevare specifiche contestazioni rispetto ai contenuti dell’estratto conto. Anche laddove non sia il contratto a prevedere il termine di contestazione, opererebbe comunque l’art. 119 comma 3 t.u.b. ,secondo cui “in mancanza di opposizione scritta da parte del cliente, gli estratti conto e le altre comunicazioni periodiche alla clientela si intendono approvati trascorsi sessanta giorni dal ricevimento”.

Va però utilmente rilevato che le preclusioni derivanti dall’art. 1832 c.c., secondo la giurisprudenza, sono limitate ai profili contabili e non toccano i profili sostanziali del rapporto. Se ad esempio risulta dall’estratto conto l’addebito di interessi passivi che non sono stati pattuiti fra le parti (o che sono stati pattuiti in modo indeterminato), il saldo finale del conto può certamente essere rettificato previa riduzione del tasso di interesse e applicazione del tasso sostitutivo previsto dalla legge. In altre parole, l’annotazione in conto corrente non impedisce la contestazione del titolo (o meglio della mancanza del titolo) in forza del quale l’addebito è stato fatto.

Avvalendosi degli articoli 1832 c.c. e 119 t.u.b. nel contesto fallimentare, le banche – come avvenuto nel caso oggetto dell’ordinanza in commento – talvolta provano a sostenere che il curatore non potrebbe sollevare contestazioni rispetto al saldo di conto corrente di cui viene chiesta l’ammissione: essendo decorso il termine di 60 giorni previsto dalla legge o il diverso termine previsto contrattualmente, l’estratto conto sarebbe ormai non più sindacabile dalle parti del contratto.

L’ordinanza della Corte di cassazione in commento nega che l’art. 1832 c.c. possa determinare una preclusione (derivante dalla non contestazione degli estratti conto) tale da essere opponibile al fallimento. Il provvedimento della Cassazione, difatti, si basa sul fatto che l’art. 1832 c.c. riguarda il rapporto di conto corrente, che intercorre fra banca e correntista. Ma il curatore è soggetto terzo rispetto a detto contratto, con l’effetto che le eventuali preclusioni derivanti dalla mancata contestazione non gli sono opponibili. Egli non si può reputare come un successore dell’imprenditore fallito, bensì come un terzo chiamato ad amministrare il patrimonio (talvolta, invero, alquanto risicato) dell’imprenditore fallito[3].

L’ordinanza in commento afferma l’efficacia probatoria degli estratti conto nell’ambito fallimentare, rispetto ai quali il curatore può sollevare solo eccezioni specifiche, ossia relative a singole poste. Una volta sollevate tali eccezioni, si dovrà verificare se esse siano o meno fondate e – a questo fine – la banca è chiamata a produrre ulteriore documentazione. Mentre è chiaro il principio enunciato dalla Corte di cassazione, risulta di difficile comprensione con quali mezzi la banca possa fornire la prova del proprio credito in alternativa agli estratti conto[4].

L’ordinanza della Corte di cassazione in commento fa propria l’unica soluzione plausibile dal punto di vista operativo: l’estratto conto fa prova, salvo il limite di “specifiche” (ovvero singole) contestazioni. Bisogna tuttavia segnalare che l’estratto conto, diversamente dai contratti, è atto unilaterale: è la banca che predispone l’estratto conto e su di esso il correntista non ha alcuna influenza. Dal punto di vista delle regole probatorie, appare arduo ritenere che un documento proveniente da un soggetto faccia prova “a favore” del medesimo soggetto.

Tanto è vero che in giurisprudenza nemmeno il c.d. “saldaconto” previsto dall’art. 50 t.u.b fa piena prova del credito della banca risultante da conto corrente. L’orientamento giurisprudenziale è nel senso che il saldaconto consente sì di ottenere il decreto ingiuntivo, ma in caso di opposizione al decreto ingiuntivo l’onere della prova si ripartisce secondo le regole generali. Essendo la banca attore in senso sostanziale, spetta a questa provare il proprio credito producendo tutti gli estratti conto. Come si può notare, vi è una fiducia del legislatore solo “parziale” nei confronti di un atto unilaterale, come il saldaconto. Ma allo stesso modo dovrebbe valere per l’estratto conto stesso, che è pur sempre un atto unilaterale. Il punto è che, nella prassi, non esiste un sistema diverso dall’estratto conto, che abbia un minimo di praticabilità, per provare l’andamento del rapporto di conto corrente. Da qui deriva la soluzione pratica proposta dalla Corte di cassazione.

La Corte di cassazione si sarebbe forse potuta arrischiare a svolgere il seguente ragionamento. L’estratto conto è sì un atto unilaterale (prodotto dalla sola banca), ma esso è altresì un atto recettizio (che deve giungere al destinatario, ossia al cliente). L’estratto conto viene inviato al cliente e, come scrive testualmente l’art. 1832 comma 1 c.c., “s’intende approvato, se non è contestato nel termine”. Si potrebbe insomma ricostruire la prassi bancaria degli estratti conto come una fattispecie a formazione progressiva: l’estratto conto non vincola il cliente se non gli è inviato, ma quando gli giunge il cliente ha l’obbligo di opporsi allo stesso entro un determinato termine. Se ciò non avviene, l’estratto conto diviene insindacabile. Si tratterebbe insomma di un’approvazione per fatti concludenti (mancata opposizione). Poiché la legge discorre di “approvazione” dell’estratto conto, l’invio dell’estratto conto potrebbe essere qualificato come una “proposta” e la mancata contestazione nel termine come “accettazione” o “approvazione”. Come si è invece visto, l’ordinanza della Cassazione in commento esclude che si verifichi un effetto preclusivo dovuto al decorso del tempo e opponibile al curatore.

La soluzione che si prospetta conosce del resto, proprio in ambito bancario, un parallelismo degno di essere evocato. Ci si riferisce alle variazioni unilaterali dei contratti bancari previste dall’art. 118 t.u.b. In questo ambito il sistema creato dal legislatore è il seguente:

  1. le proposte di modifica unilaterale sono trasmesse dalla banca al cliente (“proposta”);
  2. il cliente può opporsi recedendo dal contratto bancario;
  3. se il cliente non recede nel termine dal contratto, la proposta si intende accettata (“accettazione”).

A chi scrive pare che il meccanismo previsto per gli estratti conto e quello previsto per le modifiche unilaterali si assomiglino molto.

Osservazioni conclusive

In conclusione si può ritenere che la necessità di produrre gli estratti conto integrali nell’ambito delle procedure concorsuali per ottenere l’ammissione al passivo risponda a un obiettivo di rendicontazione finale e complessiva dell’attività svolta dalla banca. A questo riguardo può essere utile ricordare anche che “la banca risponde secondo le regole del mandato per l’esecuzione d’incarichi ricevuti dal correntista” (art. 1856 comma 1 c.c.). Le annotazioni in conto corrente in dare e avere vengono eseguite dalla banca su incarico del correntista. Ma, se sono applicabili le disposizioni in tema di mandato, si deve ricordare che fra di esse rientra l’art. 1713 comma 1 c.c., secondo cui il mandatario deve rendere al mandante il conto del suo operato.

Ciò vale in pendenza di rapporto e quando l’imprenditore è in bonis. Ma nella sostanza il principio vale anche in sede concorsuale, quando la banca – prima di ottenere l’ammissione del proprio credito – deve dimostrare al curatore la fondatezza e l’ammontare del medesimo. Anzi, in ambito concorsuale la necessità di “rendicondazione” completa è ancora più forte, atteso che:

  1. il curatore è formalmente terzo rispetto alle parti (banca creditrice e società debitrice fallita);
  2. la domanda di ammissione al passivo è come una domanda giudiziale (art. 94 l.fall.), diversamente dalla domanda di rendiconto del mandante che configura un rapporto sostanziale e non processuale (almeno nella fase iniziale, salva la possibilità per il mandante – in caso di inadempimento del mandatario – di rivolgersi all’autorità giudiziaria).

Questa sorta di equiparazione o quantomeno di parallelismo fra i meccanismi di rendicontazione propri del mandato (diritto sostanziale) e il procedimento di ammissione al passivo (diritto processuale) è stato affermato già da altri precedenti della Corte di cassazione. In particolare, nella già menzionata ordinanza n. 31195 del 2018, la Cassazione ha statuito che il procedimento di insinuazione al passivo e di successiva opposizione fungono da procedimento di rendicontazione al fine dell’individuazione dell’esatta consistenza del credito vantato dalla banca. La Corte di cassazione afferma che ogni qual volta sia necessario rendere un conto (e fa gli esempi proprio degli artt. 1832 c.c., 119 t.u.b. e 263 c.p.c.), il sistema prevede che la parte onerata proceda alla rendicontazione tramite la precisa indicazione dell’evoluzione storica del rapporto, mentre la controparte ha l’obbligo entro un determinato termine di sollevare contestazioni, specificando le partite che intende porre in contestazione.

Concludendo con un’unica frase: l’estratto conto non è lo strumento perfetto poiché è redatto da una sola delle parti del rapporto contrattuale (ossia la stessa che se ne avvale per dimostrare al giudice il proprio credito), ma – non essendoci altri modi concreti e realistici di provare l’andamento dell’intero rapporto – è l’estratto conto l’unico mezzo concreto e realistico di prova del credito bancario da conto corrente, ferma restando la possibilità per il curatore di provare – ma di tratta di una prova difficilissima – l’erroneità di singole annotazioni.



[1] In senso conforme all’ordinanza in commento si veda Cass., 3 dicembre 2018, n. 31195, ord., in Fallimento, 2019, 149 ss., con nota di L. Andretto, secondo cui, in tema di ammissione al passivo fallimentare, nell’insinuare il credito derivante da saldo negativo di conto corrente, la banca ha l’onere di dare conto dell’intera evoluzione del rapporto tramite il deposito degli estratti conto integrali.

[2] La questione che si sta tratteggiando è oggetto di alcuni precedenti giurisprudenziali, fra cui vale menzionare Trib. Siracusa 19 ottobre 2015, in www.ilcaso.it. La vicenda può essere così ricostruita. Viene stipulata un’apertura di credito per atto notarile, in quanto l’accreditato dà in garanzia un immobile e vi è necessità della forma notarile. Quando la banca recede dal contratto, essa avvia l’esecuzione con atto di precetto basato sul solo contratto di apertura di credito in forma notarile. Il debitore fa opposizione davanti al Tribunale di Siracusa, il quale statuisce che la somma per cui sussiste il debito non è determinata né determinabile sulla base del solo contratto. Ne consegue che il contratto di apertura di credito da solo non può costituire titolo esecutivo e dichiara l’inesistenza del diritto della banca a procedere a esecuzione forzata.

[3] Per approfondimenti sulla natura del curatore quale soggetto terzo rispetto ai rapporti bancari di conto corrente e di apertura di credito, intercorrenti invece fra banca e società fallita, cfr. G. Giurdanella, La prova del credito della banca nel fallimento: la Cassazione boccia l’applicazione del “saldo zero”, in Fallimento, 2019, 68. L’autore rileva che il curatore non è un successore del fallito, ma un mero gestore del patrimonio del fallito. Difatti, con la sentenza dichiarativa di fallimento, si verifica il c.d. “spossessamento” del fallito (art. 42 comma 1 l.fall.). Non avendo più il fallito né l’amministrazione né la disponibilità dei beni, i relativi poteri si trasferiscono al curatore, il quale però permane un mero gestore di patrimonio altrui e non un successore dell’imprenditore fallito.

[4] Paiono condivisibili le osservazioni di L. Andretto, L’efficacia probatoria degli estratti conto nell’accertamento del passivo, in Fallimento, 2019, 153, secondo cui non è agevole comprendere con che mezzi possa essere fornita la prova degli ordini impartiti dal correntista, della loro compiuta esecuzione e della corretta rilevazione contabile da parte della banca. L’autore continua evidenziando come negare efficacia probatoria agli estratti conto significhererebbe gravare la banca di un onere probatorio estremamente pesante, esteso alla prova documentale di tutte le operazioni che hanno movimentato il conto corrente nel corso dell’intero rapporto.

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