Il presente contributo approfondisce il contenuto delle recenti sentenze della Seconda Sezione Penale del Tribunale di Milano (n. 5116 del 5 aprile 2023) e della Corte d’Appello di Milano (n. 1879 del 13 giugno 2024), in materia di abusiva emissione di moneta elettronica, soffermandosi sui riflessi di tali pronunce sulla disciplina delle criptovalute e sull’inquadramento del reato in questione.
1. Premesse e fattispecie
È dello scorso mese di aprile l’attenzione rivolta da alcuni commentatori ad una sentenza del Tribunale di Milano (Seconda Sezione Penale, in composizione monocratica) in materia di criptovalute e di abusiva emissione di moneta elettronica[1].
Pur essendo stato annotato solo di recente, il provvedimento (n. 5116/2023) risale all’aprile del 2023 (depositato il 05.04.2023).
La pronuncia desta interesse anche per lo sviluppo della vicenda processuale, che ha portato prima il Tribunale ad una condanna per i reati di cui agli articoli 131-bis (Abusiva emissione di moneta elettronica) e 132 (Abusiva attività finanziaria) in relazione all’articolo 106 (Albo degli intermediari finanziari) del D.Lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario – T.U.B.) e successivamente la Corte di Appello (Seconda Sezione Penale) ad una assoluzione, con sentenza (n. 1879/2024 del 15.03/13.06.2024), le cui motivazioni sono state depositate negli scorsi giorni[2].
Il Tribunale aveva condannato l’imputata, amministratrice (di fatto) di società, per i delitti sopra indicati riconducendo alle fattispecie dalle stesse previste lo svolgimento di attività finanziarie non autorizzate consistite nell’emissione di una cripto-attività denominata “One Coin” da parte della società stessa (Capo A dell’imputazione[3]). È stata invece dichiarata estinta per intervenuta prescrizione la contravvenzione di cui all’articolo 7, in relazione agli articoli 5 e 6, della Legge n. 173/2005[4], relativamente alla promozione ed alla realizzazione di attività e di strutture di tipo piramidale di raccolta del risparmio, assimilabile ad un c.d. “Schema Ponzi” (Capo B dell’imputazione[5]).
Più precisamente, secondo il Tribunale, il disegno criminoso avrebbe avuto ad oggetto la promozione di un c.d. “Programma One Coin”[6], consistente nella vendita di “kit di formazione” contenenti un certo quantitativo di moneta digitale “grezza” (tokens) con la promessa di una sua rivalutazione (tramite una procedura detta “split”) e della successiva conversione nella “criptomoneta One Coin” (millantata quale “successore di Bitcoin”[7]), la cui redditività sarebbe aumentata per effetto dell’ingresso nel programma dei nuovi acquirenti sollecitato dai primi sottoscrittori[8].
Sempre secondo il Tribunale, il reato di promozione e di realizzazione di attività e di struttura di tipo piramidale era quindi preordinato (articolo 61, n. 2, c.p.) alla commissione delle sopra richiamate condotte di abusiva attività finanziaria e di abusiva emissione di moneta elettronica.
Quale parte civile costituita nel processo penale era presente soltanto Banca d’Italia[9] (anche per danno all’immagine), non avendo avanzato domande risarcitorie – quanto meno in tale sede – i numerosi investitori che avevano acquistato la cripto-attività.
Il Giudice dell’Appello, al contrario, ha assolto l’imputata dai reati di cui agli articoli 131-bis e 132 T.U.B., perché il fatto non sussiste.
La Corte milanese ha prima di tutto sancito la “diversità ontologica tra moneta elettronica e valuta virtuale”[10] e quindi, avendo accertato che non era stata emessa moneta elettronica e che non erano stati concessi finanziamenti, ha stabilito che “le condotte oggetto di imputazione (…) non po(tevano) essere sussunte nel perimetro sanzionatorio delineato dagli artt. 131 bis e 132 in relazione all’art. 106 comma 1 d.lgs. 387/93 (T.U.B.)”.
La sentenza della Corte d’Appello aggiunge un capitolo ad una complessa ed articolata vicenda concernente attività di tipo piramidale e di asserita raccolta del risparmio, già replicate su scala internazionale e sorte agli onori della cronaca[11].
La disamina dei provvedimenti consente di rilevare come l’Ufficio di Procura ed il Tribunale (i) abbiano errato nel ritenere sussistente il reato di abusiva attività finanziaria (ex art. 132 T.U.B.) in mancanza di un esercizio nei confronti del pubblico di attività di concessione di finanziamenti in assenza dell’autorizzazione prevista dall’art. 106 T.U.B.; (ii) siano incorsi in contraddizione nell’affermare che l’emissione della criptovaluta “OneCoin” integrava il delitto di emissione (abusiva) di moneta elettronica e ammettendo al contempo che tale criptovaluta non era stata emessa perché non si era ancora giunti alla fase di conversione della moneta “grezza”.
Le sentenze annotate forniscono, quindi (nuovamente[12]), l’occasione – da un lato – di testimoniare l’interesse della Magistratura per le “cripto-attività”[13] e – dall’altro alto – di provare a chiarire le distinzioni che intercorrono tra la valuta virtuale o criptovaluta e la moneta elettronica.
2. Inquadramento giuridico e normativa di settore
Prima di affrontare il merito delle decisioni in commento, è opportuno premettere un breve inquadramento giuridico (i) della valuta virtuale e (ii) della moneta elettronica, con un richiamo alle norme che le disciplinano a partire dalle prime prese di posizione della autorità di vigilanza di settore.
Come sopra accennato, infatti, la criptovaluta “One Coin” è stata qualificata dal Tribunale come “moneta elettronica”, la cui emissione in assenza di autorizzazione integra la fattispecie penale di cui all’articolo 131-bis T.U.B.
E’ inoltre importante considerare, sempre in via preliminare, che la norma incriminatrice rimette la determinazione dell’oggetto dell’attività penalmente rilevante (ossia, la moneta elettronica) ad una norma extra-penale (ossia, all’articolo 1, comma 1, lett. h-ter), T.U.B., di cui si dirà nel seguito delle presenti note), che integra la fattispecie[14].
Partendo dalla ricognizione delle norme e degli interventi delle autorità di settore in materia di “valuta virtuale”, si deve anzitutto ricordare che la Banca d’Italia – con propria comunicazione del 30.01.2015 titolata “Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette <valute virtuali>” – ha precisato che “le c.d. valute virtuali sono rappresentazioni digitali di valore, utilizzate come mezzo di scambio o detenute a scopo di investimento, che possono essere trasferite, archiviate e negoziate elettronicamente. Alcuni esempi sono Bitcoin, LiteCoin, Ripple. Create da soggetti privati che operano sul web, le valute virtuali non devono essere confuse con i tradizionali strumenti di pagamento elettronici (carte di debito, carte di credito, bonifici bancari, carte prepagate e altri strumenti di moneta elettronica, ecc.)”.
Inoltre, nel mese di febbraio dello stesso anno[15] la BCE ha definito le valute virtuali quali rappresentazioni digitali di valore non emesse da banche centrali, enti creditizi o istituti di moneta elettronica, le quali, in alcune circostanze, possono essere utilizzate come alternativa al denaro, anche se deve essere escluso che siano una forma di moneta secondo la definizione della letteratura economica.
E già l’Unità di Informazione Finanziaria Francese, nella propria relazione annuale del 2012, aveva rilevato la diffusione delle valute virtuali e, in particolare di Bitcoin, come strumento non regolato, distinto dalla moneta elettronica.
A partire da queste definizioni, poi riprese e ampliate nei paper di BIS ed ESMA[16], si è andata costruendo a livello europeo una definizione positiva e, quindi, consacrata in un atto normativo avente forza di legge, di cripto-attività, che abbraccia tutte le tipologie di token diffusesi negli anni sostituendo le definizioni preesistenti, spesso generiche e inidonee a descrivere il loro contenuto economico e giuridico: token, valuta virtuale, criptovaluta, ecc.
Si fa riferimento all’art. 3, par. 1, punto 5, del Regolamento (UE) 2023/1114 del 31 maggio 2023, relativo ai mercati delle cripto-attività, che modifica i Regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 1095/2010 e le Direttive 2013/36/UE e (UE) 2019/1937 (c.d. “MiCAR” o “Regolamento MiCA”), che definisce la “cripto-attività” come “una rappresentazione digitale di un valore o di un diritto che può essere trasferito e memorizzato elettronicamente, utilizzando la tecnologia a registro distribuito o una tecnologia analoga” [17]. La definizione di cripto-attività di cui al MiCAR, così come la disciplina ivi contenuta, rispecchia la volontà dell’Unione Europea di promuovere l’adozione di tecnologie trasformative nel settore finanziario, compresa la diffusione della tecnologia a registro distribuito (DLT), e la prospettiva di crescita economica e di nuove opportunità di lavoro per i cittadini dell’Unione che la stessa porta con sé[18].
Fermo quanto precede, si segnala che nel prosieguo della presente trattazione si continuerà ad utilizzare la locuzione “valuta virtuale” in luogo di quella di “cripto-attività” sopra richiamata perché essa era quella prevista dalla legge alla data dei fatti considerati dalle decisioni del Tribunale e della Corte di Appello in commento.
Si deve, infatti, ricordare che, all’epoca di tali fatti, l’unica definizione positiva che esisteva nell’ordinamento dell’Unione e in quello nazionale era quella di “valuta virtuale” contenuta sia nella Quinta direttiva antiriciclaggio (direttiva (UE) 2018/843), sia nel Decreto antiriciclaggio (D.Lgs. n. 231/2007, come modificato a seguito del recepimento della citata direttiva).
E’ importante sottolineare che tale definizione non aveva lo scopo, come quella contenuta nel MiCAR, di delimitare l’ambito di applicazione delle norme in materia di emissione e circolazione delle cripto-attività e di servizi connessi, ma di attrarre quante più cripto-attività possibile nell’abito di applicazione della disciplina di contrasto al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo.
Come correttamente precisato dalla pronuncia della Corte di Appello annotata, la “fonte più recente [n.d.r. applicabile alla fattispecie] che fornisce una definizione di valuta virtuale è la Direttiva antiriciclaggio 2018/843”, recepita nell’ordinamento italiano con la modifica al citato D.Lgs. n. 231/2007, che per valuta virtuale intende “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente” [cfr. art. 2, comma 1, lett. qq), del D.Lgs. n. 231/2007].
Per concludere questa breve rassegna di fonti, è importante sottolineare che le generiche e, talvolta, eterogenee definizioni che si sono sopra richiamate prescindono dagli utilizzi in vista dei quali le cripto-attività vengono emesse e fatte circolare, utilizzi che possono andare dal “pagamento” (inteso in senso molto ampio come scambio tra un bene o un servizio e una rappresentazione di valore) all’investimento, alla rappresentazione del diritto ad ottenere un bene o un servizio (come nel caso dei c.d. utility token), e così via. Queste definizioni, più precisamente, fanno perno sulla tecnologia (ossia sulla tokenizzazione) piuttosto che sulla funzione economico-giuridica dei token, caratteristica che si spiega essendo le definizioni in questione state coniate in un periodo nel quale il fenomeno dei token era da poco apparso sulla scena economica ed era pertanto molto difficile comprendere gli utilizzi ai quali i token stessi avrebbero potuto essere destinati. Basti pensare al fatto che il più famoso dei token, cioè il BitCoin, è nato come strumento di pagamento alternativo alle valute aventi corso legale, ma si è presto trasformato in prodotto d’investimento prevalentemente speculativo, data la sua estrema volatilità.
E’ inoltre importante evidenziare che, benché alcune delle definizioni sopra richiamate facciano riferimento alla nozione di “valuta”, esse non hanno nulla a che fare con quella di “valuta fiat”, ossia la valuta emessa da una banca centrale, priva di un valore intrinseco (e, quindi, non convertibile in oro o in un altro metallo prezioso), avente corso legale in un determinato ordinamento per effetto di un atto normativo.
Nell’attuale assetto monetario internazionale, solo le valute fiat, le quali hanno per definizione corso legale, possono svolgere tutte le funzioni assegnate alla moneta, ossia (i) quella di strumento di pagamento atto ad estinguere obbligazioni pecuniarie e non rifiutabile dal creditore (cfr., con riferimento all’ordinamento italiano, l’art. 1277, comma 1, c.c.), (ii) quella di unità di conto, (iii) quella di riserva di valore e (iv) quella di misura di riferimento per i pagamenti differiti (cfr. ancora l’art. 1277, comma 1, c.c.).
Più precisamente, nell’area dell’euro solo quest’ultima valuta ha corso legale, come previsto dall’art. 128 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Le valute virtuali, invece, non si qualificano – salvo quanto si dirà in seguito a proposito dei token di moneta elettronica – come “moneta” e, a fortiori, come “valute fiat” e “valute aventi corso legale”.
Questa caratteristica delle valute virtuali le differenzia in modo netto dalla moneta elettronica, la quale è definita nel Testo unico bancario come “il valore monetario [e, quindi, riferito ad una “moneta” tecnico nel senso sopra indicato, n.d.r.] memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso per effettuare operazioni di pagamento come definite all’articolo 1, comma 1, lettera c), del Decreto Legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, e che sia accettato da persone fisiche e giuridiche diverse dall’emittente […]”[cfr. articolo 1, comma 1, lett. h-ter), T.U.B.] [19].
Questa definizione è stata introdotta nel T.U.B. dal D.Lgs. n. 45/2012 di attuazione della Direttiva 2009/110/CE, concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica.
L’esame della definizione di cui si è detto e dell’analoga definizione contenuta nella Direttiva consente di concludere che, affinché una registrazione informatica possa qualificarsi come moneta elettronica, è necessario (i) che essa abbia ad oggetto un valore monetario denominato in una valuta avente corso legale, (ii) che questo valore sia rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente, (iii) che la registrazione elettronica abbia la funzione di consentire operazioni di pagamento e (iv) che essa sia accettata da persone fisiche o giuridiche diverse dall’emittente con funzione solutoria e, quindi, di pagamento.
Se manca anche una solo di queste caratteristiche, la memorizzazione non può qualificarsi come moneta elettronica.
La disciplina vigente prevede inoltre che i portatori di moneta elettronica non possano pretendere il pagamento di interessi, ma abbiano il diritto di ottenere, in qualsiasi momento e al valore nominale, il rimborso del valore monetario della moneta elettronica detenuta[20]. Infine, l’emittente è obbligato a segregare i fondi ricevuti al momento dell’emissione della moneta elettronica con le modalità previste dalla normativa e, in particolare, in modo tale che essi siano sempre separati dal proprio patrimonio.
Alla luce delle considerazioni che precedono è agevole comprendere che la “valuta virtuale” e, più in generale, la cripto-attività non è giuridicamente “equiparabile” alla moneta elettronica (come ha invece fatto il Tribunale), non avendo alcuna rilevanza la circostanza puramente fattuale che entrambe dispongono di un “sostrato digitale” [21] o “supporto digitale”[22].
Infatti, alcune cripto-attività, anche se ancorate ad una valuta avente corso legale (ad esempio, l’euro o il dollaro) non offrono ai loro possessori un credito sempre esigibile al valore nominale nei confronti degli emittenti o pongono limiti di vario genere al diritto di rimborso e non rientrano pertanto nell’ambito di applicazione della Direttiva 2009/110/CE e delle relative norme italiane di attuazione.
D’altro canto, è indubbio che la moneta elettronica possa essere emessa anche sotto forma di registrazione su una blockchain o un altro sistema basato su tecnologia crittografica a registro distribuito e, quindi, possa assumere la natura di un token. Anche in tal caso, però, essa può qualificarsi come moneta elettronica e ricadere nell’ambito di applicazione della disciplina relativa a quest’ultima – ivi compresa la riserva di cui all’art. 114-bis T.U.B. – solo se integra i requisiti di cui alla definizione riportata sopra.
A completamento di quanto precede, è opportuno ricordare i più recenti sviluppi della normativa in materia di moneta elettronica tokenizzata, benché essi siano irrilevanti ai fini della valutazione della vicenda che costituisce l’oggetto delle decisioni penali che si commentano, essendo relativi ad una nuova disciplina europea emanata solo recentemente e non ancora entrata completamente in vigore.
Più precisamente, si deve qui evidenziare che il già richiamato Regolamento MiCA ha introdotto nell’ordinamento europeo una definizione di token di moneta elettronica molto più vasta ed omnicomprensiva di quella di moneta elettronica di cui alla Direttiva 2009/110/CE. Ai sensi del Regolamento MiCA, infatti, si qualifica come token di moneta elettronica “un tipo di cripto-attività che mira a mantenere un valore stabile facendo riferimento al valore di una valuta ufficiale”. È pertanto sufficiente che il valore di un token sia reso stabile mediante il riferimento a quello di una valuta avente corso legale (questo il significato dell’aggettivo “ufficiale”) affinché il token in questione si qualifichi come “di moneta elettronica” e sia sottoposto alla disciplina prevista dal Regolamento e quelle che disciplinano la moneta elettronica ove non derogate dalla citata disciplina[23], in vigore dal 30 giugno 2024[24].
Questa scelta del legislatore europeo mira ad evitare l’elusione delle norme di cui alla Direttiva 2009/110/CE.
Tale impostazione è stata riflessa nello schema di Decreto Legislativo di adeguamento dell’ordinamento italiano al MiCAR messo in pubblica consultazione dal Ministero dell’economia e delle finanze all’inizio del 2024 e approvato in prima lettura dal Governo il 24 giugno scorso, il cui articolo 14, comma 2, prevede che “ai token di moneta elettronica si applicano le disposizioni contenute negli articoli 114-bis, commi 1 e 3, e 114-bis.1, comma 1 del TUB, salvo ove diversamente specificato dal Titolo IV del regolamento (UE) 2023/1114”.
3. Considerazioni sulle motivazioni delle sentenze
Sulla scorta dell’inquadramento giuridico e del richiamo alla normativa di settore esposti al paragrafo precedente, è possibile svolgere alcune considerazioni sulle motivazioni delle sentenze che qui si commentano.
Infatti, da un lato, il Giudice di primo grado ha errato nell’inquadramento giuridico della criptovaluta sottoposta alla sua attenzione come “moneta elettronica” e, conseguentemente, nella criminalizzazione della condotta consistente nella sua (asserita) emissione.
Basti a riguardo considerare che nelle motivazioni della decisione del Tribunale non compare alcun riferimento agli elementi che integrano la nozione di moneta elettronica cui si è sopra fatto cenno, né alcuna indagine in merito al fatto se la cripto-valuta One Coin integrasse o meno tali requisiti.
Al contrario, la Corte di Appello di Milano ha correttamente riconosciuto l’insussistenza delle condotte di abusiva emissione di moneta elettronica e di abusivo svolgimento di qualsivoglia attività di finanziamento ed entrando nel dettaglio degli aspetti che caratterizzano la valuta virtuale rispetto alla moneta elettronica ne ha dichiarato la “diversità ontologica” (seppur con un ragionamento abbastanza semplificato, come meglio si vedrà nel seguito).
Esaminando in dettaglio i due provvedimenti, si osserva che i motivi della decisione del Tribunale si sono articolati in un iniziale riepilogo dello “svolgimento del processo” e dell’“istruttoria dibattimentale” (caratterizzata dall’esame della Polizia Giudiziaria delegata a svolgere le indagini e di alcuni degli investitori che avevano aderito al “Programma One Coin”), per poi affrontare “il tema delle criptovalute”, attraverso (i) una ricostruzione della classificazione delle stesse nell’ambito del “genus cryptoasset” ed (ii) un richiamo ad alcuni arresti giurisprudenziali, sia di merito[25] sia di legittimità[26].
Quindi il Giudice ha svolto un breve approfondimento sui contestati reati di cui al T.U.B. (come meglio esposto infra), per concludere lapidariamente – all’esito della “valutazione delle prove” – per la sussistenza degli stessi e per l’affermazione di penale responsabilità dell’imputata, con conseguente decisione anche in relazione al trattamento sanzionatorio ed alle statuizioni civili.
La Corte di Appello di Milano ha invece svolto un’ampia illustrazione della “sentenza impugnata” ed un’attenta disamina dei “motivi di appello”, in particolare anche in punto possibili rischi di esercizio abusivo delle attività dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (exchanger e wallet provider)[27].
Il secondo Giudice ha esposto “le ragioni della decisione” e, premesso che “il cuore della questione ha ad oggetto l’emissione di moneta elettronica”[28], ha escluso – come detto – che “le condotte oggetto di imputazione” potessero essere sussunte “nel perimetro sanzionatorio delineato dagli artt. 131 bis e 132 in relazione all’art. 106 comma 1 d.lgs. 387/93 (T.U.B.)”.
La Corte milanese ha infatti ribadito che “la sostanziale differenza tra moneta elettronica e moneta virtuale si rinviene nel fatto che il valore della prima è ancorato al valore di una valuta avente corso legale (euro, dollaro, ecc.). La moneta elettronica, dunque, rappresenta la semplice dematerializzazione della valuta, di cui costituisce la memorizzazione. Di contro, la moneta virtuale non si pone in rapporto con alcuna valuta avente corso legale e non è soggetta ad alcuna autorità centrale che la emetta o la gestisca, controllandone la domanda e l’offerta”[29].
L’insussistenza in particolare del reato di cui all’art.131-bis T.U.B. è motivata sulla base della constatazione che “ciò che è stato emesso non può in alcun modo essere considerato moneta elettronica, la quale, si rimarca, al pari della valuta fisica, è una riserva di valore (ancorata al valore di una valuta avente corso legale) che, anziché essere espressa in moneta cartacea, viene archiviata elettronicamente in dispositivi quali smart card, smartphone e sistemi informatici. Quand’anche, dunque, i ridetti token fossero considerati criptovaluta (quantomeno criptovaluta in divenire), non essendo la criptovaluta equiparabile alla moneta elettronica, deve escludersi la configurabilità al reato di emissione di moneta elettronica di cui all’art.131 bis T.U.B.”[30].
A riguardo, ciò che si può osservare sulle motivazioni della Corte di Appello, seppure se ne condivide la conclusione, è un’eccessiva semplificazione dei concetti di moneta elettronica e di valuta virtuale.
In verità, come si è visto sopra, anche prima dell’applicazione di MiCAR, la valuta virtuale, con le caratteristiche di una stablecoin[31], ancorata ad una valuta avente corso legale, al ricorrere di determinati presupposti (emissione da parte di un ente, sussistenza del diritto di credito e del diritto di rimborso), sarebbe potuta ricadere a pieno titolo nella definizione di moneta elettronica, di cui alla Direttiva 2009/110/CE e all’art. 1, comma 1, lett. h-ter), T.U.B.[32].
4. Valenza penale delle attività di emissione di “valori”
Il delitto di “Abusiva emissione di moneta elettronica”, di cui all’articolo 131-bis T.U.B.[33], punisce – con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 2.066 euro a 10.329 euro – chiunque
- “emette moneta elettronica in violazione della riserva prevista dall’articolo 114-bis”,
- “senza essere iscritto nell’albo previsto dall’articolo 13 o in quello previsto dall’articolo 114-bis, comma 2”.
Il reato previsto dall’articolo 132 del T.U.B. (rubricato “Abusiva attività finanziaria”) tutela, invece, la riserva di attività prevista dall’articolo 106, comma 1[34], e prevede la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 2.065 ad euro 10.329 per chiunque
- “svolge, nei confronti del pubblico una o più attività finanziarie previste dall’articolo 106, comma 1”,
- “in assenza dell’autorizzazione di cui all’articolo 107 o dell’iscrizione di cui all’articolo 111 ovvero dell’articolo 112”.
In ordine alla disciplina di tali reati, la sentenza del Tribunale di Milano (alle pagine 10 e 11) si limita ad un generico richiamo alla stessa, svolgendo un mero “breve approfondimento sugli artt. 131 bis e 132 TUB”[35].
Con riferimento alla fattispecie di reato previsto dall’articolo 131-bis, la condotta criminosa concerne esclusivamente l’emissione – in assenza di iscrizione[36] – di moneta elettronica, quale complesso di operazioni attraverso le quali l’emittente procede alla memorizzazione nel dispositivo elettronico del valore monetario corrispondente ai fondi previamente ricevuti dal richiedente l’emissione (c.d. “caricamento”), con successiva disponibilità a favore del detentore sul proprio dispositivo della moneta elettronica al fine del regolamento delle sue transazioni economiche[37].
Ai fini della sussistenza del delitto si ritiene sia sufficiente “un solo atto” di emissione abusiva (a tale lettura addiviene il Tribunale)[38], così da configurarsi il reato di cui all’art. 131-bis T.U.B. quale illecito commissivo, istantaneo ed a forma vincolata.
Ricostruita la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 131-bis T.U.B., è possibile esprimersi sulla configurabilità della stessa mediante la (abusiva) emissione di valute virtuali, come visto ammessa dal Tribunale Penale di Milano e poi esclusa dalla Corte di Appello.
La Banca d’Italia ha chiarito – come detto – che “le valute virtuali non devono essere confuse con i tradizionali strumenti di pagamento elettronici (carte di debito, carte di credito, bonifici bancari, carte prepagate e altri strumenti di moneta elettronica, ecc.)”[39].
Pure la dottrina penalistica maggioritaria ha manifestato a dir poco “scarsa propensione” a considerare le valute virtuali quali “moneta di nuovo conio (anche elettronica ai sensi dell’art. 114-bis ss. t.u.b.)” [40].
Di Vizio, in particolare, sostiene che “il mancato riconoscimento del valore legale delle valute virtuali importa, parimenti, seri ostacoli alla configurabilità delle ulteriori fattispecie di abusivismo delineate dagli articoli 131-bis (abusiva emissione di moneta elettronica) e 131-ter (abusiva prestazione di servizi di pagamento) d.lgs. 385/1993”[41].
D’Agostino, ancora, chiarisce che “la definizione di moneta elettronica elimina in radice ogni dubbio circa la possibilità di includervi le valute virtuali: il valore memorizzato nel supporto elettronico è rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente pari al controvalore della somma di denaro precedentemente conferita, mentre gli asset DLT sono unità di conto puramente virtuale, privi di valore intrinseco o autoritativamente stabilito, fondati unicamente sulla fiducia degli utenti e sulla formazione del prezzo sulle piattaforme di scambio”[42].
Infine Dalaiti[43] ribadisce con fermezza quanto segue: “che i crypto assets non possano essere in alcun modo equiparati alla moneta avente corso legale appare alquanto pacifico poiché pure la Banca d’Italia ha avuto modo di evidenziare come gli stessi «non sono moneta legale di stato (“fiat money”), “depositi” o “fondi”», né «una passività di una istituzione», e nemmeno «una moneta avente un valore intrinseco (outside money) come l’oro o l’argento»”[44]; “in conclusione, tali strumenti non solo non sono moneta legale, ma non vanno nemmeno confusi con la moneta elettronica (carte di pagamento e conti prepagati, PayPal, conti di tipo comunque collegati a moneta legale)”.
Nondimeno non è mancato un orientamento che, pur inizialmente ipotizzando che la condotta abusiva prevista dal reato in esame potrebbe astrattamente essere integrata dall’attività dei miners[45] (non da quella degli exchangers o dei wallet providers), è pervenuto poi alla conclusione che a tale propria estensiva interpretazione osterebbe sempre la tassatività degli elementi costitutivi, atteso che le valute virtuali non possono essere qualificate moneta elettronica secondo la definizione dell’art. 1, comma 1, lett. h-ter), T.U.B.[46].
Da ultimo – per completezza – si osserva (tornando al caso concreto) che l’asserito lancio della nuova criptovaluta “One Coin” non può qualificarsi neppure come emissione di una c.d. “shitcoin”, ovvero di un “token privo di valore intrinseco e di una blockchain propria o di appoggio”[47], appunto in considerazione del fatto che il “Programma One Coin” si è concretizzato esclusivamente nella promozione di un sistema di vendita piramidale di raccolta del risparmio (cfr. nota 5).
A tutto quanto precede, si aggiunga che non è dato ravvisare nella fattispecie quelli che sono gli elementi tipici desumibili dalla su precisata definizione del T.U.B. di moneta elettronica, tra gli altri, il diritto di credito e il diritto di rimborso (cfr. per approfondire quanto indicato supra, par. 2 e par. 3).
Pertanto, alla luce delle avvertenze espresse da Banca d’Italia e delle penetranti analisi svolte da parte della più autorevole Dottrina, deve ritenersi assodato che la disposizione penale di cui all’articolo 131-bis T.U.B. punisce espressamente l’emissione di moneta elettronica, anche in forma tokenizzata, ma con le caratteristiche declinate nel T.U.B. e viste supra.
In altre parole, l’emissione di valute virtuali, senza le caratteristiche della moneta elettronica, quali (i) il diritto di credito e (ii) il diritto al rimborso al valore nominale, non è un fatto previsto dalla Legge come reato[48].
Infatti, nel nostro ordinamento giuridico – almeno prima dell’entrata in vigore del Regolamento MiCA – non è presente alcuna norma incriminatrice che punisca tale condotta[49].
Al netto di tale precipitato logico-giuridico, che si ritiene dirimente, deve comunque rilevarsi come il fatto contestato sia altresì risultato insussistente dal punto di vista materiale.
Invero – nel caso di specie – oltre a non trovarsi in presenza di “moneta elettronica”, non era stata altresì posta in essere alcuna condotta di “emissione”[50].
Il Giudice di secondo grado ha spiegato che “del programma One Coin nulla è dato sapere (…). Conseguentemente, nemmeno è dato sapere chi emettesse i fantomatici token (che, si rimarca, non erano – o non ancora – One Coin). Ancora, se questi token non erano una criptovaluta ma lo sarebbero diventati, questo processo di trasformazione non è stato in alcun modo descritto. Allora, nemmeno è chiaro sapere se sia stato emesso da questo fantomatico onelife.eu qualcosa di paragonabile a una valuta virtuale (…)”[51].
Per tale motivo la Corte di Appello ha ritenuto il fatto insussistente[52].
Con riguardo invece alla fattispecie di “Abusiva attività finanziaria” ex art. 132 T.U.B. (reato qualificato dal Tribunale come consistente nell’abusiva emissione di moneta elettronica[53]), come anticipato, lo svolgimento nei confronti del pubblico di attività finanziarie in assenza di autorizzazione o di iscrizione non appare configurabile, atteso che nella vicenda in esame non risulta che siano stati erogati finanziamenti sotto qualsiasi forma (secondo la previsione di cui all’articolo 106, comma 1, T.U.B.)[54].
Invero, il comportamento attribuibile (ed effettivamente rimproverabile) alla imputata era consistito nella ricezione di fondi dagli investitori e non nell’erogazione di denaro in loro favore con la conseguente insorgenza di un obbligo di rimborso a loro carico.
Come spiegato supra, nell’ottica dell’investitore, i pagamenti erano finalizzati all’acquisto “di gettoni (…) per la creazione di criptovaluta”; “una volta acquistati i token, consistenti in pacchetti formativi, sulla piattaforma già menzionata, vi è uno <split barometer> che misurava l’entità della criptovaluta maturata” e depositata in un “borsellino elettronico” (pagg. 5-6-13 della sentenza del Tribunale).
Si era perciò in presenza di una variante del classico “Schema Ponzi”[55] che, secondo le argomentazioni svolte in precedenza, poteva ritenersi anche sussumibile (quantomeno in linea teorica e soprattutto alla luce della clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato” contenuta nell’articolo 7 della Legge n. 173/2005) nelle fattispecie dei reati di truffa (art. 640 c.p.) aggravata dall’avere cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, o di abusiva attività di raccolta del risparmio (ex art. 130 T.U.B.)[56] o di abusiva offerta di prodotti finanziari di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), del T.U.F. (come meglio illustrato nel prossimo paragrafo), esercizio in parte condotto, solo per finalità di “completezza”, dalla Corte di Appello[57] e che pare opportuno ripetere in questa sede, sia pure – date le finalità e l’estensione delle presenti note – per brevi cenni e senza alcuna pretesa di completezza e limitatamente ai reati di cui agli articoli 130 T.U.B. e 166 T.U.F..
5. Cenni sulla rilevanza della condotta per l’integrazione dei reati di abusiva attività di raccolta del risparmio e abusiva offerta di prodotti finanziari
Con riferimento alla “raccolta del risparmio”, la Corte precisa che non appare configurabile il reato di cui all’art. 130 T.U.B., “poiché la raccolta di risparmio presuppone l’acquisizione di fondi con obbligo di rimborso, laddove l’attività prestata dagli exchange si limita a permettere il cambio di valuta virtuale in reale e viceversa”.
La raccolta del risparmio nell’ordinamento italiano, anche in recepimento della normativa europea, rappresenta una delle due “gambe” caratteristiche dell’attività bancaria, contenuta nell’art. 10, comma 1, del T.U.B., ove si specifica che è da considerarsi tale la “raccolta di risparmio tra il pubblico” esercitata congiuntamente all’“esercizio del credito”.
L’istituto della “raccolta del risparmio” trova la sua definizione e disciplina negli articoli 11 (nozione e caratteristiche) e 130 (esercizio di attività abusiva) del T.U.B., nella Delibera del CICR del 19 luglio 2005 (integrata da quella del febbraio 2006) e nel Provvedimento della Banca d’Italia dell’8 novembre 2016.
Per pacifico orientamento dottrinale e giurisprudenziale, la caratteristica comune a tutte le forme di raccolta del risparmio consiste nel fatto che il soggetto che raccoglie i fondi sia tenuto alla restituzione (rectius “rimborso”) di mezzi monetari in misura quanto meno equivalente a quella consegnatagli dal cliente.
La distinzione tra le fattispecie implicanti attività di acquisizione di fondi con obbligo di rimborso e quelle in cui detto obbligo è escluso deve essere individuata avendo riguardo alla complessiva struttura dell’operazione concretamente posta in essere dagli operatori, indipendentemente dalla configurazione giuridica assunta dalla medesima.
In tale ambito, tradizionalmente il riferimento alla “rimborsabilità” costituisce argomento per circoscrivere l’attività di raccolta del risparmio alla raccolta del c.d. capitale di credito[58] e a quella tramite depositi.
Non c’è dunque raccolta del risparmio in assenza di un obbligo di rimborso, circostanza che non sembra emergere nel caso di specie.
Occorre poi considerare che l’articolo 11, comma 2-bis, T.U.B., stabilisce che “non costituisce raccolta del risparmio tra il pubblico la ricezione di fondi connessa all’emissione di moneta elettronica”.
Riguardo all’abusiva offerta al pubblico di prodotti finanziari punita dall’art. 166 T.U.F., si deve anzitutto ricordare che l’offerta è definita dall’art. 1, comma 1, lett. t), T.U.F. come “ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati”.
In base al dato letterale della norma devono verificarsi tre condizioni indispensabili perché si possa parlare di “offerta al pubblico”: (i) i destinatari dell’offerta devono potersi configurare come “pubblico”; (ii) l’operazione deve prevedere un’effettiva raccolta di capitale; (iii) l’oggetto dell’offerta deve essere un “prodotto finanziario”.
Soffermandosi sull’elemento oggettivo della fattispecie e, quindi, sull’oggetto dell’offerta al pubblico, è necessario valutare se gli “One Coin” possano qualificarsi come “prodotti finanziari”, definiti dall’art. 1, comma 1, lett. u), T.U.F., come “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”.
In questa prospettiva, si deve anzitutto evidenziare che lo One Coin non pare riconducibile ad alcuna delle categorie degli strumenti finanziari elencate (seppur non in numero chiuso) nella Sezione C, dell’Allegato 1 del T.U.F., né integrare i requisiti che, secondo la dottrina prevalente li caratterizzano, prima fra tutte quella della destinazione alla negoziazione, che deve accompagnarsi all’idoneità a formare l’oggetto di un investimento di natura finanziaria[59].
La nozione di “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”, invece, merita qualche considerazione più approfondita a partire dalla tradizionale distinzione tra i) investimento finanziario e ii) investimento di consumo operata dalla Consob sin dagli Anni ‘90 dello scorso secolo (cfr., tra le molte, la Comunicazione DAL/96009868 del 4 novembre 1996).
Secondo tale distinzione, mentre nel caso di investimento finanziario l’investitore affida il proprio denaro al soggetto che emette il profitto avendo un’aspettativa di rendimento o a fronte di una promessa di rendimento, inteso come il futuro accrescimento delle disponibilità investite[60], nell’ipotesi di investimento di consumo l’investitore mira – quantomeno principalmente – a trasformare le proprie disponibilità liquide in beni reali idonei a soddisfare immediatamente i propri bisogni (si pensi all’ipotesi, esaminata dalla Consob della multiproprietà immobiliare turnaria, spessa promossa come forma di investimento, ma, in pro luogo, come soluzione per trascorrere periodi di vacanza).
Nei casi dubbi, infatti, al fine di qualificare l’investimento quale “investimento finanziario”, è dirimente la prevalenza dell’aspetto finanziario, inteso quale elemento causale del contratto proposto, rispetto a quello di consumo[61].
Venendo al caso di specie, si deve evidenziare che le motivazioni dalle decisioni del Tribunale di Milano e della Corte di Appello in commento non consentono da sole di comprendere se l’offerta del “Programma One Coin” sia stata condotta con modalità tali da integrare una promessa di rendimento o, quantomeno da ingenerare nei destinatari un’aspettativa di rendimento e, pertanto, di valutare se tale offerta potesse integrare l’offerta al pubblico di cui si è detto sopra e la corrispondente fattispecie di abusivismo.
In termini più generali è, però, opportuno richiamare l’esistenza di un filone giurisprudenziale – peraltro richiamato dalla Corte di Appello – che tende a qualificare certe cripto-attività come prodotti finanziari.
A questo filone ha aderito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione, la quale ha recentemente avuto modo di affermare che “la valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere disciplinata con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 e ss., TUF), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell’investimento; pertanto, chi eroga detti servizi è tenuto ad un innalzamento degli obblighi informativi verso il consumatore, al fine di consentire allo stesso di conoscere i contenuti dell’operazione economico-contrattuale e di maturare una scelta negoziale meditata”[62].
Si deve a questo proposito evidenziare che l’approccio giurisprudenziale di cui si è detto dovrà essere rivisto alla luce del Decreto Legislativo di adeguamento della normativa nazionale al MiCAR.
L’art. 39 dello schema di tale Decreto Legislativo messo in consultazione dal MEF all’inizio del 2024 e approvato dal Governo in prima lettura il 24 giugno dispone, infatti, che “[l]a disciplina del TUF avente ad oggetto i prodotti finanziari non si applica alle attività rientranti nell’ambito di applicazione del regolamento (UE) 2023/1114 e del presente decreto”.
Pertanto, se il Decreto Legislativo sarà approvato definitivamente nel testo messo in consultazione, la disciplina del prodotto finanziario contenuta nel T.U.F. e nei relativi provvedimenti di attuazione non si applicherà più alle cripto-attività che, seppur connotate da indici di finanziarietà, ricadono nell’alveo di applicazione del MiCAR[63].
6. Conclusioni
Le sentenze del Tribunale Penale di Milano e della Corte di Appello in materia di criptovalute e di abusiva emissione di moneta elettronica consentono ampie riflessioni sull’attuale perdurante difficoltà degli interpreti ad inquadrare e a qualificare giuridicamente “istituti” del tutto diversi e distinti tra di loro quali sono la valuta virtuale e la moneta elettronica.
Per tale ragione deve essere accolto con favore lo sforzo compiuto dalla Corte di Appello di Milano di cristallizzare la “diversità ontologica tra moneta elettronica e valuta virtuale” e di escludere la configurabilità nel caso di specie dei reati di abusiva emissione di moneta elettronica e di abusiva attività finanziaria.
Pur tuttavia il rischio di errata qualificazione delle criptovalute è sempre dietro l’angolo, e per questo motivo, dalla visuale penale, ci si deve domandare se “il rinvio a puntuali, ma sovrabbondanti, elementi normativi, definitori e non” consenta di realizzare effettivamente “quella intellegibilità della fattispecie richiesta dalla garanzia costituzionale in materia penale della tassatività/determinatezza”[64].
Perché purtroppo risultano ricorrenti una superficiale assimilazione della natura e dei concetti di “moneta” e di “valore” ed un inammissibile ricorso (per certi versi dilatato, se non addirittura esasperato) all’analogia, o meglio alla cripto–analogia[65], in malam partem[66].
Un tale approccio “panpenalistico”, infatti, risulta pernicioso[67], potendo erroneamente orientare – come è (inizialmente) avvenuto nel caso di specie – a connotare di illiceità condotte riconducibili ad attività di impresa legittime e penalmente irrilevanti.
[1] “Il Tribunale di Milano interviene in tema di criptovalute e limiti all’emissione di moneta elettronica in assenza di autorizzazione della Banca d’Italia”, Giurisprudenza Penale–29.04.2024; “Per la condanna penale è sufficiente una singola emissione di bitcoin”, Il Sole 24 Ore–02.05.2024.
[2] Il processo penale ha tratto origine da un esposto di un Responsabile di Area Legale di un primario Istituto Bancario, con il quale erano state evidenziate numerose anomalie registratesi su un conto corrente intestato ad una società ed a distanza di pochissimi giorni dall’apertura dello stesso (circa una cinquantina di bonifici internazionali per oltre € 500.000, privi di qualunque attinenza con l’oggetto sociale). Da ciò si determinava l’immediata chiusura dei rapporti bancari in essere su ferma e tempestiva disposizione dell’Istituto di Credito, nonché il sequestro preventivo da parte dell’Ufficio G.i.p. del Tribunale di Milano delle somme a quel momento giacenti sul conto corrente interessato (in relazione alle quali poi – con la sentenza del Tribunale – è stata ordinata, ai sensi dell’articolo 240 c.p., la confisca e la destinazione all’Erario, trattandosi di provento di reato. Tale disposizione è stata “revocata” infine con la riforma decretata in Appello).
[3] “Del reato di cui agli artt. 81 cpv, cp e 131 bis e 132 in relazione all’art. 106 d.lgs. 385/93 (T.U.B.) perché, con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso – in qualità di amministratrice di fatto della [omissis] s.r.l. comunque delegata ad operare sui conti corrente bancari italiani di detta società – in assenza dei requisiti di cui all’art. 106 comma 2, lett. a) TUB, svolgeva attività finanziarie non autorizzate, consistite nell’emissione di moneta elettronica denominata “One Coin” in violazione della riserva prevista dall’art. 114 bis TUB, così raccogliendo provviste pari ad euro 516.678,58, che venivano accreditate su c/c avente identificativo [omissis], acceso presso la [omissis] ed intestato alla suddetta [omissis]. In Milano dal 21/09/2016 sino al 06/04/2017”.
[4] Legge n. 173/2005 – articolo 7 (Sanzioni) – “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque promuove o realizza le attività o le strutture di vendita o le operazioni di cui all’articolo 5, anche promuovendo iniziative di carattere collettivo o inducendo uno o più soggetti ad aderire, associarsi o affiliarsi alle organizzazioni od operazioni di cui al medesimo articolo, è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno o con l’ammenda da 100.000 euro a 600.000 euro”. Articolo 5 (Divieto delle forme di vendita piramidali e di giochi o catene) – “1. Sono vietate la promozione e la realizzazione di attività e di strutture di vendita nelle quali l’incentivo economico primario dei componenti la struttura si fonda sul mero reclutamento di nuovi soggetti piuttosto che sulla loro capacità di vendere o promuovere la vendita di beni o servizi determinati direttamente o attraverso altri componenti la struttura. 2. È vietata, altresì, la promozione o l’organizzazione di tutte quelle operazioni, quali giochi, piani di sviluppo, “catene di Sant’Antonio”, che configurano la possibilità di guadagno attraverso il puro e semplice reclutamento di altre persone e in cui il diritto a reclutare si trasferisce all’infinito previo il pagamento di un corrispettivo”.
[5] “Del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2 c.p. e art. 7, in relazione agli artt. 5 e 6 L. 173/2005 perché, nella qualità di cui al capo a) che precede, al fine di compiere le condotte sub a), promuoveva e realizzava attività e strutture di tipo piramidale in cui l’incentivo economico primario dei componenti si fondava sul reclutamento di altri soggetti, piuttosto che sulla loro capacità di vendita o promozione di tali servizi. Nello specifico, promuoveva il c.d. Programma “One Coin” consistente nella vendita di “kit di formazione” contenenti un certo quantitativo di moneta grezza (tokens) con la promessa di una loro rivalutazione (procedura detta split) e della successiva conversione in “One coin” tanto più redditizia in base all’ingresso nel programma dei nuovi consumatori. In Milano il 6/4/2017”. Il Tribunale richiama la raccolta “del risparmio” o “degli investimenti” alle pagg. 3 e 13 della motivazione. La Corte di Appello esclude la configurabilità del reato di abusiva raccolta del risparmio, ex art. 130 T.U.B., con riguardo agli exchange (cfr. pag. 28 della pronuncia)
[6] A pag. 8 della sentenza, si afferma invero che “il programma One Coin (…) consiste nella vendita della criptomoneta OC”.
[7] Pag. 12 della pronuncia.
[8] Nell’ottica del consumatore/investitore, il pagamento effettuato era finalizzato all’acquisto di token, “di gettoni (…) per la creazione di criptovaluta”; “una volta acquistati i token, consistenti in pacchetti formativi, sulla piattaforma già menzionata, vi è uno <split barometer> che misurava l’entità della criptovaluta maturata” (pagg. 5-6 della sentenza).
[9] La Banca d’Italia è persona offesa dal reato, in considerazione del fatto che l’oggetto di tutela delle norme incriminatrici in esame è la funzione di vigilanza della suddetta Autorità (così Miriello, L’abusivismo bancario, in Cadoppi – Canestrari – Manna – Papa (diretto da), Diritto Penale dell’Economia, Tomo primo, 2017, pag. 559).
[10] Pag. 24 delle motivazioni.
[11] “Onecoin, la Gdf scopre una maxi truffa ideata da sei promotori” – Il Sole 24 Ore–04.07.2019; “One Coin, storia della criptovaluta che ha ingannato il mondo” – Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa–29.12.2020; “Criptovaluta falsa, 3.700 altoatesini truffati da <One Coin>” – TgR Bolzano–05.08.2021; “Guardia di Finanza: a Bolzano scoperta una mega-truffa della criptovaluta <OneCoin> che investe l’Alto Adige. Rinviate a giudizio 14 persone” – ReportDifesa–05.08.2021; “La storia di Ruja Ignatova e One Coin, la crypto truffa da 4 miliardi di dollari” – Blog Young Platform–21.10.2022; “Criptovalute: condannato a 20 anni co-fondatore di OneCoin e complice della <cryptoqueen> Ruja Ignatova” – Italia Informa–13.09.2023.
[12] Infatti già la Suprema Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, con la sentenza n. 44337/2021 (analizzata in prosieguo), nel confermare un provvedimento di convalida di sequestro probatorio di un sito internet, aveva affermato che “lo stesso era da considerare corpo del reato e cosa pertinente al reato in quanto <strumento attraverso il quale vi sono la pubblicizzazione dell’attività illecita e l’offerta alla clientela, strumenti propedeutici alla messa in circolazione della moneta elettronica>”, laddove invece si trattava di criptovaluta (nel caso di specie bitcoin).
[13] Più in generale si sottolinea la crescente attenzione rivolta da parte delle Autorità investigative ed inquirenti a derive illecite nell’ambito della realizzazione delle “cripto-attività”, così da annoverarsi un incremento esponenziale di procedimenti penali con incolpazioni provvisorie o imputazioni (i) sia per reati di cui al T.U.B. [Uffici Giudiziari di Milano – per illeciti di cui all’articolo 130 (“Abusiva attività di raccolta del risparmio”); Uffici di Brescia e di Palermo (sentenza del Tribunale Penale n. 400 del 22.03.2018, annotata da Quattrocchi, La rilevanza penale del sistema di pagamento hawala nelle condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, in Diritto Penale Contemporaneo, 2/2019) – per delitti previsti dall’articolo 131 ter (“Abusiva attività di prestazione di servizi di pagamento”)], (ii) sia con riguardo al T.U.F. [Uffici Giudiziari di Milano, di Brescia, di Parma, di Pordenone, di Vicenza e di Torino – per il reato punito dall’articolo 166, comma 1 (“Abusivismo” c.d. sollecitatorio)].
A proposito della configurabilità di tale illecito di cui al T.U.F. (argomento sul quale si tornerà al paragrafo 5. del presente scritto), si è espressa anche la Suprema Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, con le sentenze (tutte con il medesimo Relatore) n. 26807/2020 [per la quale “la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento (…); trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166 comma 1 lett. c) TUF”], n. 44337/2021 [secondo la quale “ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, si ha una attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF (…), la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166 comma 1 lett. c) TUF”] e n. 44378/2022 [a giudizio della quale “la valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere disciplinata con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.)”].
Sulle implicazioni “indirette” dal punto di vista della normativa sulla Responsabilità amministrativa degli Enti, ex D.Lgs. n. 231/2001 (non prevista – forse inspiegabilmente – per alcuna delle richiamate fattispecie incriminatrici), ci si permette di rinviare a Di Stefano, Le criptovalute e la disciplina di cui al D.Lgs. n. 231/2001, in Annunziata – Varani (a cura di), Cripto attività – Antiriciclaggio e gestione dei rischi aziendali, 2024, pagg. 133 e seguenti.
[14] “Gli elementi normativi della fattispecie, come è noto, sono quelli che necessitano, per la determinazione del loro contenuto, di una etero-integrazione, mediante il rinvio a una norma diversa da quella incriminatrice” (così Garofoli, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, 2021-2022, pag. 269); confronta anche Recchia, I reati bancari – La tutela del corretto svolgimento dell’attività di intermediazione, in Consulich (a cura di), Reati in materia bancaria e finanziaria, 2024, pagg. 12 e seguenti.
[15] BCE, Virtual currency schemes – a further analysis, febbraio, 2015 reperibile al link https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/virtualcurrencyschemesen.pdf.
[16] Si vedano, ex multis, il paper della BIS (Bank for International Settlement), Central Bank Cryptocurrencies, BIS quarterly review, del settembre 2017 ed il paper dell’ESMA, Advice – Initial Coin Offering and Crypto-Assets, del 9 gennaio 2019.
[17] Il MiCAR è in vigore dal giugno 2023, ma si applica in via differita dal 30 giugno 2024 per emittenti e offerenti di EMT (Electronic Money Token – art. 3, par. 3, punto 7, MiCAR) e ART (Asset Referenced Token – art. 3, par. 3, punto 6, MiCAR), nonché dal 30 dicembre 2024 per i prestatori di servizi in cripto-attività (c.d. Crypto Asset Service Provider – art. 3, par. 3, punto 15, MiCAR).
[18] In data 24 giugno 2024 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il Decreto Legislativo sui mercati delle cripto-attività di adeguamento al MiCAR. Esso è in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Il Decreto Legislativo si inserisce nel quadro normativo sulle cripto-attività e individua la Banca d’Italia e la Consob quali autorità competenti a esercitare i poteri autorizzatori (ai fini dell’emissione, dell’offerta al pubblico e della richiesta di ammissione alla negoziazione dei token, nonché ai prestatori di servizi per le cripto-attività), di vigilanza, di indagine e sanzionatori, previsti dal regolamento. Inoltre, il Decreto provvede a dettare la disciplina di armonizzazione minima applicabile a tutti gli operatori in cripto-attività, le discipline speciali applicabili a singole categorie di operatori; regime sanzionatorio e le disposizioni di coordinamento.
[19] Lo stesso comma precisa che “non costituisce moneta elettronica: 1) il valore monetario memorizzato sugli strumenti previsti dall’articolo 2, comma 2, lettera m), del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11; 2) il valore monetario utilizzato per le operazioni di pagamento previste dall’articolo 2, comma 2, lettera n), del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11”.
[20] Cfr. Troiano, Gli istituti di moneta elettronica, in Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza legale della Banca di Italia, luglio 2001.
[21] Così D’Agostino, La criminalità economica nell’era della blockchain, 2020, pagg. 123 e seguenti.
[22] Di Vizio, Le cinte daziarie del diritto penale alla prova delle valute virtuali degli internauti, in Diritto Penale Contemporaneo, n. 10/2018, pag. 42.
[23] V. gli artt. 48 e ss. del MiCAR, nonché le norme ivi richiamate.
[24] Cfr. nota 18 e nota 19 per approfondire.
[25] Il formante giurisprudenziale citato è ai risalenti Tribunale Civile di Verona, sentenza del 24.01.2017; Tribunale delle Imprese di Brescia, decreto n. 7556 del 18.07.2018; Corte di Appello di Brescia, provvedimento del 24.10.2018, n. 607 (tutti con riguardo alla natura delle criptovalute).
[26] Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, n. 26807/2020 e n. 44378/2022 (il cui contenuto è già stato riferito), sentenze emesse nell’ambito di giudizi cautelari concernenti incolpazioni provvisorie per abusivismo finanziario sollecitatorio ex art. 166, comma 1, T.U.F..
Il rimando svolto dal Tribunale (in particolare alla pronuncia n. 26807 del 2020) spiega – almeno in parte – l’errata qualificazione giuridica in cui è incorso il Giudice, considerato che l’invocato provvedimento della Suprema Corte è stato, a sua volta, criticato in punto negoziazione di valute virtuali da inquadrarsi in “proposta di investimento finanziario” [tanto che la pronuncia è stata stigmatizzata per l’essere risultata “tranchant” e per l’aver “radicalmente omesso qualsivoglia approfondimento di una questione così delicata” al punto che “la perentoria operazione ermeneutica compiuta non pare affatto potersi ricondurre ad una interpretazione estensiva della fattispecie (…) piuttosto si dovrebbe affermare come la Cassazione abbia ricorso ad una analogia vera e propria” (così, condivisibilmente, Dalaiti, Cripto-valute e abusivismo finanziario: cripto-analogia o interpretazione estensiva?, in Sistema Penale 21.01.2021, pag. 38 e pagg. 64 e seguenti)].
[27] Con richiamo alle disposizioni di cui all’articolo 17 bis del D.Lgs. n. 141/2010 ed all’articolo 166 del T.U.F..
[28] Pag. 19 della pronuncia.
[29] Pag. 24 del provvedimento.
[30] Pag. 27 della pronuncia.
[31] Le stablecoin sono cripto-attività il cui valore è ancorato in modo fisso ad una valuta fiat oppure ad una materia prima oppure ad un basket di asset e presentano un elemento di bassa volatilità. Si vedano per approfondire il paper FSB, Regulatory Issues of Stablecoins, 18 ottobre 2019 ed il paper BIS n. 905 Stablecoins: risks, potential and regulation, novembre 2020.
[32] Sul tema anche l’EBA, Report with advice for European Commission on crypto-asset, 9 gennaio 2019.
[33] Articolo inserito dall’articolo 55, comma 1, lettera e), della Legge n. 39/2002 e modificato dall’articolo 2, comma 3, del D.Lgs. n. 45/2012.
[34] Donato – Fabbri, La tutela penale dell’attività bancaria e finanziaria, in Galanti (a cura di), Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, 2008, pagg. 1321 e seguenti.
[35] Il passaggio motivazionale è ampiamente tratto da Di Santo, La tutela penale della moneta invisibile: il divieto di emissione abusiva di moneta elettronica, in Altalex del 09.06.2022. La Corte di Appello richiama l’analisi di dettaglio di tali disposizioni del T.U.B. nell’ambito della disamina della “sentenza impugnata” (pagg. 7 e seguenti della pronuncia).
[36] L’assenza di iscrizione è da considerarsi elemento costitutivo del fatto tipico (così Bottalico, commento sub art 131-bis, in Porzio – Belli – Losappio – Porzio – Rispoli – Santoro (a cura di), Testo unico bancario: commentario, 2010, pagg. 1190 e ss.); Recchia, (cit.), pagg. 18 e seguenti.
[37] Troiano, (cit.), pag. 337; Bottalico (cit.); Miriello (cit., pag. 566).
[38] A favore di una pluralità di condotte tipiche e, quindi, della rilevanza invece della attività abusiva, si esprimono Losappio, I reati di abusivismo e gli illeciti amministrativi imperniati sulla mancanza del consenso dell’autorità, in Belli – Contento – Patroni Griffi – Porzio – Santoro (a cura di), Il Testo Unico delle Leggi in materia Bancaria e Creditizia: commento al D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, 2003, pag. 40; Pelissero, in Palazzo – Paliero (a cura di), Commentario breve alle leggi penali complementari, voce Banca – Reati bancari, 2003, pag. 532; Ambrosetti – Mezzetti – Ronco, Diritto Penale dell’Impresa, 2009, pag. 357; da ultimo Recchia, (cit.), pagg. 13 e seguenti, il quale – a proposito della durata dell’offesa – propende piuttosto per la natura permanente del reato.
[39] Seppure Banca d’Italia (con la propria Comunicazione sulle valute virtuali del 30/1/2015, su Bollettino di Vigilanza n. 1/2015) abbia evidenziato – con riguardo ai soli prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale (exchanger e wallet provider) – che le attività di emissione di valori, di conversione di moneta legale in valute virtuali e viceversa, e la gestione dei relativi schemi operativi, «potrebbero […] concretizzare, nell’ordinamento nazionale, la violazione di disposizioni normative, penalmente sanzionate, che riservano l’esercizio della relativa attività ai soli soggetti legittimati (artt. 130, 131 TUB per l’attività bancaria e l’attività di raccolta del risparmio; art. 131 ter TUB per la prestazione di servizi di pagamento; art. 166 TUF, per la prestazione di servizi di investimento)» [avvertenza richiamata da D’Agostino, (cit.), pagg. 275 e seguenti, il quale poi conclude però per l’irrilevanza penale dell’esercizio non autorizzato dell’attività di cambiavalute virtuali: “alla luce dell’indagine finora svolta, non ci sembra cogliere nel segno la sopra richiamata avvertenza della Banca d’Italia secondo cui i prestatori di servizi di cambio di valute virtuali potrebbero incorrere in responsabilità penale per abusivismo bancario”].
[40] Cfr. Morone, in Capaccioli (a cura di), Criptoattività, criptovalute e bitcoin, 2021, pag. 98; Accinni, Cybersecurity e criptovalute. Profili di rilevanza penale dopo la Quinta Direttiva, in Sistema Penale, n. 5/2020, pagg. 210 e seguenti; Consulich, Nella wunderkammer del legislatore penale contemporaneo: monete virtuali che causano danni reali, in Diritto Penale e Processo, n. 2/2022, pag. 154, sostiene che “l’assimilazione tra crypto-assets e moneta non è però scontata. Delle tre funzioni tipiche di quest’ultima, mezzo di scambio, riserva di valore e unità di conto, la criptovaluta non pare svolgerne alcuna”; un’ampia analisi è svolta da Rapolla, Criptovalute e monete digitali: quid novi? Riflessioni intorno al progetto di euro digitale, in Lorenzini – Zulberto – Imbrosciano (cit.), pagg. 315 e seguenti, il quale tiene giustamente a precisare che “i termini dematerializzata, elettronica, digitale e virtuale non sono da intendersi come sinonimi. Infatti (…) tali categorie si riferiscono rispettivamente alla moneta commerciale, alla moneta prepagata, alle future monete pubbliche digitali e alle criptovalute. L’utilizzo del termine virgolettato <moneta>, ad indicare il fenomeno delle criptovalute, risiede nella loro ormai comune qualificazione operata dai mass-media come tali; diversamente, si giungerà a comprendere come queste non possano essere classificate come moneta nel senso economico-giuridico”; “La moneta elettronica (…) non è, pertanto, da considerarsi come valuta a sé stante ma come la controparte immateriale della moneta legale; questa la netta differenza con le criptovalute”.
[41] (cit.), pagg. 61 e seguenti; e poi in Moderni abusivismi e criptovalute – Tra il mito della completa disintermediazione e la realtà di nuovi intermediari, in disCRIMEN, 2022, pagg. 55 e seguenti, ove l’Autore ribadisce che “l’assenza di valore legale delle valute virtuali preclude la configurabilità delle fattispecie di abusivismo delineate dagli articoli 131 bis e 131 ter TUB”.
[42] (cit.), pagg. 277 e seguenti. L’Autore poi – nel richiamare anche la nozione di valuta virtuale – conclude che “dal testo della definizione emerge piuttosto chiaramente la voluntas legis di distinguere la valuta virtuale da quella moneta avente corso legale (…). A differenza delle valute fiat, che – almeno formalmente – rappresentano un credito nei confronti dello Stato emittente, la criptomoneta potrebbe non racchiudere in sé alcun rapporto giuridico. Il valore cui si fa riferimento non è certamente quello <monetario memorizzato elettronicamente> di cui all’art. 1, comma 2, lett. h-ter) TUB, per l’ovvia ragione che l’emissione di quest’ultimo è sottoposto al controllo pubblico e riservato agli intermediari autorizzati”, pagg. 133 e seguenti.
[43] In Cripto-valute e abusivismo finanziario (cit.), pag. 42.
[44] Il contenuto dei virgolettati si riferisce all’Occasional Paper n. 484 del 18.03.2019 di Banca d’Italia.
[45] Il miner è un soggetto che partecipa alla conferma di un’operazione ed all’aggiornamento dello stato del registro distribuito sottostante, ottenendo un compenso per il suo contributo allo sviluppo della chain.
[46] Rosato, Profili penali delle criptovalute, 2021, pagg. 99 e seguenti; Di Vizio, in Le cinte daziarie del diritto penale (cit.), pag. 62, ed in Moderni abusivismi e criptovalute (cit.), pag. 56; per Consulich, (cit.), pag. 154, “le <monete> si generano attraverso protocolli informatici, secondo le regole definite da un software: la loro esistenza non dipende dall’emissione da parte di un soggetto pubblico o privato, ma da algoritmi e calcoli computazionali compiuti da coloro che validano le transazioni altrui (c.d. miners) e che, in pratica, aggiungono nuovi blocchi alla blockchain (o sistema analogo)”. La stessa sentenza del Tribunale di Milano afferma che “le criptovalute, infatti, non vengono emesse da autorità monetarie, ma sono il frutto di attività di privati (c.d. miners) i quali, attraverso il dispendioso impiego di software avanzati e macchine con elevata potenza computazionale, risolvono complessi problemi matematici” (pag. 7); miners che la Corte di Appello indica come coloro che “nella pratica <coniano> (o <minano>) le criptovalute” (pag. 27).
[47] Sul tema Iovino, Shitcoin e vendita piramidale nel business delle criptovalute, in Altalex, 29.04.2022.
[48] Come spiegato in prosieguo, la Corte di Appello si è invece espressa con la formula assolutoria del “fatto non sussiste”.
Sulla distinzione e sulla priorità tra le formule assolutorie, Gallo M., Le formule assolutorie di merito, 2022, pagg. 129 e seguenti, spiega magistralmente che la formula <il fatto non è previsto dalla legge come reato> è una “dizione netta, scevra di interrogativi problematici. La condotta attribuita all’imputato non rientra in nessuna delle previsioni offerte dalle leggi penali incriminatrici: non è questione di carenza di questo o quell’elemento o di presenza di una situazione incompatibile con il reato; comunque lo si consideri, sia dal punto di vista della realizzazione delle situazioni o degli elementi positivi, sia dal punto di vista della assenza di elementi o situazioni che presenti escluderebbero la punibilità, arriviamo sempre alla conclusione che il comportamento contestato non rientra fra quelli ipotizzati quali fattispecie normative (…). La declaratoria che non c’è previsione da parte della legge penale è così radicalmente conclusiva da esigere che trovi applicazione prima, e a preferenza, di ogni altra liberatoria”.
[49] Tra le novità principali introdotte dal Decreto Legislativo di adeguamento della normativa nazionale al MiCAR, merita di essere citata la norma incriminatrice che punisce le attività che MiCAR subordina al rilascio di una specifica autorizzazione. Ed infatti, la normativa nazionale punisce – con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da 2.066 euro a 10.329 euro – chiunque, senza ottenere le necessarie autorizzazioni richieste dal MiCAR: offre al pubblico token collegati ad attività ovvero ne chiede e ottiene l’ammissione alla negoziazione; presta servizi per le cripto-attività disciplinate dal MiCAR; emette token di moneta elettronica; offre al pubblico token di moneta elettronica ovvero ne chiede e ottiene l’ammissione alla negoziazione.
[50] Circostanza che era già stata accertata dalla Autorità Garante della Concorrenza, con proprio provvedimento del 25.07.2017 e successivo comunicato del 10.08.2017, allorquando – pur avendole attribuito alternativamente sia la natura di criptovaluta sia di moneta elettronica (sic!) – aveva appunto chiarito che “in realtà (del)la criptomoneta OneCoin (…) non è stato possibile verificare l’esistenza e la consistenza”.
[51] Pagine 26 e seguenti della sentenza.
[52] Su tale formula assolutoria si rinvia al contenuto della precedente nota 49.
[53] Con riguardo ai rapporti tra i diversi reati di abusivismo previsti dal T.U.B., è stato giustamente osservato in Dottrina [Miriello (cit.), pag. 581] come (i) tra i reati di cui agli articoli 130 e 131 ricorra un caso di concorso apparente di norme, laddove l’esercizio del credito è funzionalmente collegato alla raccolta del risparmio; (ii) tra gli illeciti previsti dagli articoli 130 e 132 si può determinare, invece, un concorso formale di reati, allorquando la raccolta abusiva del risparmio sia svolta insieme all’esercizio di un’attività di intermediazione finanziaria (diversa dall’erogazione del credito); (iii) infine si avrà un concorso formale dei reati di cui agli articoli 131 e 132 nel caso in cui l’abusiva attività di intermediazione finanziaria si accompagni sia alla raccolta del risparmio sia all’esercizio del credito. Ed in astratto può chiaramente ricorrere anche un concorso formale tra gli illeciti di cui agli articoli 131-bis e 132.
[54] Sul punto è netta la sentenza della Corte d’Appello (pagg. 27 e seguenti).
[55] Il c.d. “Schema Ponzi” è considerato una variante, a sua volta, del classico modello di vendita piramidale, in quanto nella sua fase esecutiva iniziale è prevista una effettiva redistribuzione agli investitori del capitale, come simulazione di serietà e di trasparenza dell’attività finanziaria e di creazione di un profitto.
[56] Per la quale “chiunque svolge l’attività di raccolta del risparmio tra il pubblico in violazione dell’articolo 11 è punito con l’arresto da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da euro 12.911 a euro 51.645”.
[57] La Corte di Appello esclude la configurabilità dei reati di cui agli articoli 130 T.U.B. e 166 T.U.F., ma con una ricostruzione della insussistenza delle fattispecie non condivisibile a parere di chi scrive, perché “non pertinente” rispetto al caso sottoposto alla sua attenzione, bensì “ritagliata su misura” sulle figure professionali degli exchangers e dei wallet providers, qualifiche di operatori in criptovalute che però non erano quelle rivestite o attribuite alla società della quale l’imputata era stata (considerata) amministratrice di fatto.
[58] Cfr. Antonucci, Diritto delle Banche, Milano, 2009, pag. 73.
[59] Per una rassegna della dottrina, anche non italiana, sulla qualificazione degli strumenti finanziari ci si permette di rinviare a Ferretti, L’evoluzione della categoria degli strumenti finanziari, in Intermediari e mercati di strumenti finanziari. Il TUF a 25 anni dalla nascita. Evoluzione e prospettive, a cura di E.M. Mastropaolo e F. Maimeri, Pisa Ospedaletto, pagg. 137 e seguenti.
[60] Si veda, tra le molte, Cass. Civ. n. 2736/2013.
[61] Cfr. ex multis Comunicazioni Consob nn. DAL/RM/96009868 del 4 novembre 1996, citata sopra nel testo; DIS/99006197 del 28 gennaio 1999; DCL/DEM/3033709 del 22 maggio 2003.
[62] Cfr. la citata Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, 22 novembre 2022, n. 44378.
https://www.dirittobancario.it/wp-content/uploads/2022/11/Cassazione-Penale-Sez.-II-22-novembre-2022-n.-44378.pdf. Cfr. anche nota 27.
[63] Cfr. anche nota 19. Inoltre, come accennato in precedenza, dal punto di vista sanzionatorio il Decreto prevede una norma incriminatrice ad hoc per l’ipotesi di svolgimento abusivo di attività per le quali MiCAR subordina il rilascio di una specifica autorizzazione (cfr. nota 50).
[64] Recchia, (cit.), pag. 17.
[65] Così Dalaiti, (cit.), pag. 64.
[66] Per D’Agostino, (cit.), pag. 124, “sul piano della tassatività nell’applicazione della fattispecie e del generale divieto di analogia in malam partem, ne deriva un ostacolo insormontabile all’inquadramento nei concetti di “denaro” e di “moneta”. Così anche Basile, Il contrasto al riciclaggio – Crypto assets e responsabilità penale, in Consulich (a cura di – cit.), 2024, pag. 460. Per Dalaiti, (cit.), pag. 39, “il pernicioso riflesso che tutto ciò rischia di avere nella disciplina penale risulta allora evidente in forza dei principi di legalità e tassatività (e dunque di divieto di analogia) che governano la materia”; Naddeo, Nuove frontiere del risparmio, Bit Coin Exchange e rischio penale, in Diritto Penale e Processo, n. 1/2019, pag. 105.
[67] Il rischio concreto è che “l’interprete si impossessi pericolosamente dello ius puniendi, sottraendolo al legislatore, sulla base di valutazioni sostanziali legate ai pericoli per la collettività dell’assenza di un energico presidio penale su tali fenomeni” [così Recchia, (cit.), pag. 35]; ovvero che si avverta l’esigenza di “fattispecie capaci di adattarsi alla rapida evoluzione tecnologica, evitando, laddove sia possibile, che la novità del mezzo di perpetrazione del fatto criminoso si traduca in un vuoto di tutela ingiustificato” (si confronti Vadalà, La dimensione finanziaria delle valute virtuali. Profili assiologici di tutela penale, in Giurisprudenza Italiana, 2021, pag. 2231); o, ancora, il pericolo che si ricorra a “ragionamenti – che comunque presterebbero il fianco ad operazioni altrettanto analogiche – che giustificherebbero tali interpretazioni estensive quali espressione di una <necessitata> ortopedia giurisprudenziale che funga da correttore di ataviche formulazioni normative non al passo con i tempi” (Dalaiti, (cit.), pag. 65); o diversamente che il Giudice svolga un “intervento ermeneutico estensivo, di fatto suppletivo rispetto ad una regolamentazione normativa non completamente allineata alla tumultuosa evoluzione (rectius rivoluzione) di un settore – quello dei mercati finanziari – resa se possibile più convulsa dalla digitalizzazione” (approccio “allarmante” – a modesto avviso di chi scrive – laddove invece ritenuto ammissibile da parte di Quatrocchi, La natura proteiforme delle criptovalute al crocevia della tutela penale del mercato finanziario, in Giurisprudenza Italiana, 2022, pagg. 1217 e seguenti, benché poi l’Autore si auspichi che “in ossequio alla tratteggiata natura proteiforme delle valute virtuali, non si ceda alla insaziabile tentazione panpenalistica, piuttosto scegliendo di discernere e valorizzare le diverse vocazioni e declinazioni che la criptovaluta ha sinora assunto, non tutte meritevoli o bisognevoli dello stigma penale”).