Con altre due[1] recentissime prese di posizione[2], prosegue l’opera di elaborazione da parte di Consob di un puntuale, vigile e anche discreto orientamento[3] – attento cioè a non frustrare aprioristicamente sul nascere i nuovi fenomeni dell’innovazione finanziaria (fintech) – pur dovendosi essa muovere non facilmente in un quadro regolamentare che non prende (ancora?) in considerazione né disciplina nello specifico il nuovo fenomeno delle “criptovalute” o “valute virtuali”.
Negli ambiti di disciplina che ci proponiamo qui di sottoporre ad una prima indagine[4], la “criptovaluta” potrà/potrebbe di volta in volta rilevare – a seconda dei molteplici modelli di business osservabili nelle “piattaforme” operanti sul web – nella sua dimensione oggettiva di “bene” (variamente meglio qualificabile, a seconda dei casi, ora come “moneta”, “valuta” – più difficilmente come “mezzo di pagamento” – ora come “strumento finanziario”, “valore mobiliare”, “prodotto finanziario”) che possa variamente venir a costituire oggetto di operazioni di detenzione, accumulazione, scambio, offerta, finanziamento, investimento etc., dovendoci allora interrogare innanzitutto sulla qualificazione giuridica di quella “criptovaluta”. In altra e connessa prospettiva, il fenomeno andrà invece indagato con riguardo al regime di riserve e/o di obblighi comportamentali a cui possa essere sottoposta l’attività di chi intervenga variamente in quelle operazioni, in uno stadio di mercato “primario” (come emittente ovvero prestatore/prenditore) o “secondario”, (come intermediario o prestatore di servizi, a seconda dei casi, di “investimento”, di “gestione”, di “pagamento”, di “raccolta ordini”, di “collocamento” etc…); spesso in una inedita commistione di ruoli e/o funzioni, tipica del nuovo modello della condivisione (sharing economy).
Ogni discorso sulle criptovalute parrebbe dover partire dalla nozione stessa di “moneta”. E tuttavia, ci si avvede ben presto che la questione posta in termini di ricostruzione della natura delle criptovalute in termini “monetari”, appare oggi riduttiva e fuorviante, innanzi alla decomposizione del concetto stesso di “moneta” che sfuma in quello più ampio e articolato di “sistema dei pagamenti” e che impone un approccio multidimensionale a seconda dell’ambito in cui ci si muove (pubblicistico, civilistico, tributario, antiriciclaggio…) alla luce degli specifici presupposti e finalità di regolazione che in esso prevalgono. E in ogni caso occorrerà perlomeno adottare un approccio analitico che distingua, caso per caso, tra le macrocategorie in cui oggi vengono generalmente classificate le “criptovalute”: “criptovalute monetarie” (o “in senso stretto”), “utility token” e “security token”. In realtà anzi, ogni analisi dovrebbe poi spingersi anche ben oltre, fino ad esaminare dettagliatamente il modello di business di volta in volta sottostante o intrinseco ad ogni “piattaforma” esaminata, risultando altrimenti del tutto velleitario – nella varietà dei modelli oggi osservabili, ciascuno dei quali può presentare profili regolatori del tutto peculiari – pretendere di sottoporre ad una valutazione unitaria il variegato fenomeno delle “criptovalute” in quanto tale.
Un primo ambito di disciplina che viene spesso accostato al fenomeno delle criptovalute appare quello dei servizi di investimento[5], e ciò in virtù di una eventuale qualificazione di quelle in termini di “strumenti finanziari”[6] o nella versione anglosassone di securities[7].
Occorre dunque interrogarsi se e in che limiti, lo svolgimento di una serie di atti giuridici o di “attività” (acquisto, vendita, intermediazione, gestione o consulenza) che abbiano ad oggetto criptovalute – specie ove questi atti/attività risultino caratterizzati da una motivazione latamente finanziaria e che siano quindi funzionali ad operazioni di natura “speculativa”, pur nella difficoltà di riconoscerne esternamente i tratti, spesso confinati nelle imperscrutabili determinazioni psicologiche dell’agente – possano o debbano essere valutati nell’ambito della disciplina dei c.d. “servizi di investimento”; e se quindi quell’attività debba allora enersi sottoposta alla disciplina che li regolamenta. In particolare, il problema pare oggi porsi con particolare urgenza in relazione al caso di acquisto, vendita o intermediazione di criptovaluta per mezzo di “piattaforme digitali” operanti sul web a cui accedono direttamente gli utenti[8].
Come risulta evidente dall’esame del ricco novero di ciò che oggi deve ritenersi “strumento finanziario” nel nostro Ordinamento, le criptovalute non paiono essere esplicitamente considerate dalla, o riconducibili alla, categoria giuridica in questione[9]; si osserva anzi una esplicita esclusione per gli “strumenti di pagamento”, che non costituiscono “strumenti finanziari”, come chiarito dallo stesso art. 1, comma 2, TUF. E tal fine, seppur si possa convenire sulla dubbia riconducibilità delle criptovalute – anche di quelle di tipo strettamente “monetario” – nell’ambito di tale fattispecie, ciò non può però valerea riaprire automaticamente[10] ad esse la porta di accesso a quella che è oggi una categoria giuridica normativamente ben definita sia nell’ordinamento nazionale che in quello europeo da cui promana.
Parrebbe[11] allora di doversi concludere nel senso che l’attività di negoziazione o di intermediazione in “criptovalute” – anche laddove la determinazione dell’”utente” di acquistare una data criptovaluta di tipo “monetario” o “utility”, risultasse guidata esclusivamente ed esplicitamente da motivazioni di natura finanziaria, di “investimento”, ”speculative” – non violi, di per sé, alcuna riserva di attività, potendo esser svolta al di fuori di quelle che sono le norme comportamentali MIFID previste per il caso in cui quella attività abbia invece ad oggetto “strumenti finanziari”.
Non pare dunque condivisibile l’impostazione che ritiene – peraltro dopo aver ricondotto le criptovalute indistintamente intese[12] nell’ambito della (peraltro assai ampiamente intesa) nozione di “prodotto finanziario” – applicabile tout court la disciplina dei “servizi di investimento”, arrivando quindi ad assimilare il servizio prestato dalle piattaforme di negoziazione di criptovalute al servizio di negoziazione, per conto proprio o per conto dei clienti, in strumenti finanziari[13].
Deve però osservarsi come estrema cautela dovrà comunque adottarsi nella comunicazione e nelle modalità di offerta delle criptovalute con finalità latamente di “investimento”; ci si dovrà infatti e comunque attenere a rigidi criteri di correttezza, in maniera tale che la condotta tenuta non possa risultare ingannevole e omissiva e /o non si incorra in pratiche commerciali scorrette o in altre violazioni del Codice del Consumo, , come rilevato recentemente dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in relazione al caso della vendita di diamanti con finalità di investimento tramite canali bancari[14], e ribadito nella citata sentenza del Tribunale di Verona nel “primo leading case italiano” avente ad oggetto criptovalute, con particolare riguardo alla “commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori”.
Un approccio analitico certamente diverso richiede il caso particolare di quelle “criptovalute” riconducibili – con riguardo al loro sottostante o intrinseco modello di business e alle finalità della “raccolta” svolta dalla/sulla piattaforma, più che alla “criptovaluta” oggettivamente intesa – alla fattispecie nota, nella tassonomia tecnica oggi per lo più accettata, come “security token”; posto che qui potrebbe assumere certamente rilevanza la nozione di strumento finanziario, in particolare quella “aperta” di “valore mobiliare” ove sia riscontrabile, inter alia, il tratto della “negoziabilità” . E in tal senso parrebbe assumere oggi particolare rilievo il fenomeno delle c.d. ICOs, (initial coin offers) – che nella fattispecie sarebbero allora per molti versi assimilabili a vere e proprie IPOs[15] – consistenti nelle peculiari modalità con cui sulle piattaforme informatiche avviene l’ offerta, o latamente la “vendita” di tali criptovalute.
Da tutto quanto sopra, ne conseguirebbe allora l’applicabilità della disciplina MIFID e, quindi, potenzialmente, quella inerente ai molteplici “servizi di investimento” che – a seconda dello specifico modello operativo e di business adottato dalla piattaforma di volta in volta in esame – potrebbero andare dalla negoziazione “per conto proprio” o “per conto dei clienti”, alla intermediazione di ordini, ovvero al collocamento, e fianco alla gestione (individuale o collettiva). Deve poi qui osservarsi come – in relazione ai peculiari modelli di business che fossero osservabili sulle piattaforme che “emettono”/“negoziano” “security tokens”, in virtù di quel fenomeno di confusione/sovrapposizione di ruoli e funzioni che, in modo del tutto peculiare, caratterizza il modello collaborativo-collettivo-diffuso – non risulterà spesso neppure facile e immediato identificare con nettezza i ruoli di “investitore”, “collocatore”, “intermediario” ma anche di “emittente”[16].
Non è infatti affatto da escludere che – in virtù del modello operativo adottato – la piattaforma sia essa stessa da considerarsi in veste di “emittente”/“offerente” ovvero possa assumere il ruolo di “manufacturer” ai sensi della Direttiva MIFID II e del Regolamento PRIIPs. In tale evenienza, pur non ponendosi allora un problema di “collocamento” – vista l’identità soggettiva emittente-offerente-collocatore – potrebbe ragionevolmente risultare comunque applicabile la disciplina della “promozione e collocamento a distanza” applicandosi così alla piattaforma sia la disciplina della riserva operativa che quella comportamentale prevista per tale attività. Ancora, potrebbe altresì risultare riscontrabile un fenomeno di “self-placement”, richiedendosi allora alla piattaforma di essere autorizzata al servizio di “esecuzione ordini” di cui alla Direttiva MIFID II con applicazioni delle relative regole comportamentali.
Fuori da questa ultima ipotesi ricostruttiva del fenomeno – e sempre purché la criptovaluta risulti effettivamente descrivibile in termini di “valore mobiliare” – potrebbe forse più spesso risultare applicabile o rilevante in relazione all’attività di “intermediazione” svolta dalle “piattaforme”, la riserva e la disciplina del servizio di investimento individuabile nel “collocamento senza impegno irrevocabile nei confronti dell’emittente”di cui alla lettera c-bis) dell’art. 1, co. 5, TUF e, più spesso quella della “promozione e collocamento a distanza di strumenti finanziari”.
La ricostruzione della “criptovaluta” in termini di “valore mobiliare” (e, in particolare, di “strumenti finanziari di raccolta”), implicherebbe poi di tener altresì conto della vigente disciplina “della raccolta del risparmio dei soggetti diversi dalle banche” che pone, come noto, una riserva pressoché assoluta a favore delle banche, fuori dal caso in cui la raccolta avvenga appunto tramite emissione di tali strumenti, nonché delle vigenti “disposizioni in materia di segnalazioni a carattere consuntivo relative all’emissione e all’offerta di strumenti finanziari”.
A seconda della natura della criptovaluta interessata – in particolare ove questa sia descrivibile in termini di “security token” – e del modello di business adottato dalla relativa piattaforma, il fenomeno potrebbe poi essere accostato, in molti casi, a quello dell’equity-based oinvestment-based crowfunding (e, talora, anche a quello del social lending o lending-based crowfunding, fenomeno ad oggi esplicitamente disciplinato nel nostro Ordinamento solo nell’ambito della disciplina della raccolta del risparmio dei soggetti diversi dalle banche).
In particolare, in virtù delle concrete modalità di funzionamento delle piattaforme (portali o siti web), e degli elementi di connessione operativa che potrebbero rilevarsi di volta in volta con la giurisdizione italiana – profilo questo che, nella fattispecie, attesa la natura eminentemente virtuale del fenomeno, non sarà sempre facile analizzare[17] – potrebbe allora risultare rilevante la disciplina nostrana dell’equity-based crowfunding che, come noto, in deroga alla consueta disciplina del “collocamento” e a certe condizioni, consente che la raccolta finalizzata a facilitare la raccolta di “capitali di rischio” da parte di PMI e imprese sociali, venga svolta attraverso piattaforme on-line gestite da soggetti anche non rientranti nelle categorie di intermediari autorizzati di diritto, sottoponendoli a regole comportamentali alquanto rigide. In virtù della possibile ricostruzione della piattaforma stessa come offerente risulterebbe altresì applicabile la nuova disciplina del self-placement.
L’aver sopra concluso nel senso della non (pacifica) riconducibilità – in via generale e, come appena visto, ad eccezione dei “security tokens” nei quali cui sia però altresì riconoscibile il tratto della “negoziabilità”- delle criptovalute nel novero degli “strumenti finanziari”, sottraendo quindi tutti gli atti giuridici, le attività e i servizi che le abbiano ad oggetto, dalla disciplina dei “servizi di investimento” ovvero delcrowfunding, non esaurisce tuttavia i profili analitici sotto cui le criptovalute, pur di tipo “monetario” o “utility” ( che non siano cioè inquadrabili come security tokens negoziabili) possono essere valutate nell’ambito dell’ordinamento finanziario italiano, dovendoci ora soffermare a valutare se non possa rilevare ai nostri fini la diversa e più ampia nozione di “prodotto finanziario” a cui è associato un più circoscritto corpo di disciplina che potrebbe quindi entrare in gioco[18].
L’art. 1, comma 1, lettera u) TUF definisce infatti la fattispecie dei “prodotti finanziari”, come quella in cui sono ricompresi, in un rapporto di species a genus, gli “strumenti finanziari”, oltreché “ogni altra forma di investimento di natura finanziaria”.Si tratta di una definizione aperta che richiede, per poter essere delineata con precisione, di indagare accuratamente la fattispecie delle “altre forme di investimento di natura finanziaria” che completano la definizione “aperta”. Lo stesso approccio è stato da tempo sottolineato dalla dottrinae, come già detto, è stato anche recentissimamente ribadito dalla Consob proprio in relazione a schemi negoziali aventi ad oggetto criptovalute[19].
La prassi interpretativa della CONSOB ha da tempo enucleato ormai in maniera consolidata quali caratteristiche tipiche dell’“investimento di natura finanziaria” i seguenti elementi: (i) l’impiego di capitale; (ii) l’aspettativa di un rendimento e (iii) il rischio connesso[20]; la casistica presa in esame dai provvedimenti CONSOB nell’applicazione di questa griglia ermeneutica è ormai ampia e, come confermato dalla Consob ancora in tempi recenti[21], “per configurare un investimento di natura finanziaria, non è sufficiente che vi sia accrescimento delle disponibilità patrimoniali dell’acquirente (cosa che potrebbe realizzarsi attraverso talune modalità di godimento del bene come ad esempio con la rivendita del diamante) ma è necessario che l’atteso incremento di valore del capitale impiegato (ed il rischio ad esso correlato) sia elemento intrinseco all’operazione stessa”. Si ribadiva dunque, sviluppandolo e approfondendolo, l’insegnamento già affermato dalla stessa Commissione in epoca risalente, in virtù del quale non rientrano nella nozione di “prodotto finanziario”, “le operazioni di investimento in attività reali o di consumo, cioè le operazioni di acquisto di beni e di prestazioni di servizi che, anche se concluse con l’intento di investire il proprio patrimonio, sono essenzialmente dirette a procurare all’investitore il godimento del bene, a trasformare le proprie disponibilità in beni reali idonei a soddisfare in via diretta i bisogni non finanziari del risparmiatore stesso”[22].
Un’operazione avente ad oggetto una particolare asset class non riconducibile agli “strumenti finanziari” può dunque assumere le caratteristiche di offerta di un “prodotto finanziario” solo se siano esplicitamente previsti, anche tramite contratti collegati, ulteriori elementi come, ad esempio, promesse di rendimento o di realizzazione di profitti, obblighi di riacquisto, ovvero vincoli al godimento del bene[23].
Alla luce di quanto sopra potrebbe allora avanzarsi la seguente conclusione: tutte le volte in cui (e solo se) ai modelli operativi e agli schemi negoziali di base (acquisto/vendita) che possono riscontrarsi sulle piattaforme di criptovalute di tipo “monetario” o “utility” – che abbiamo visto non costituire di per sé “servizi di investimento” per il sol fatto di non avere ad oggetto “strumenti finanziari”/”valori mobiliari” – vengano associati più complessi o articolati schemi negoziali, quali tipicamente promesse di rendimento, obblighi di riacquisto, ovvero vincoli al godimento/trasferimento, potrà allora aversi un “prodotto finanziario”[24] con ciò che ne consegue in termini di disciplina.
Questa prima conclusione merita però una ulteriore qualificazione, proprio con riferimento al peculiare caso delle “criptovalute”, in considerazione del particolare atteggiarsi di questo “prodotto”. Laddove, infatti una specifica criptovaluta presenti una sua prevalente dimensione (in senso lato) “monetaria” o di scambio (utility token) e, soprattutto, nel caso in cui possa osservarsi l’esistenza di un suo “mercato” sul quale essa, in quanto tale, possa essere scambiata (e magari cambiata)[25], allora le suddette conclusioni – in merito alla necessità di un quid pluris negoziale affinché possa configurarsi un “prodotto di investimento” – parrebbero pienamente confermate, al pari quindi di quanto abbiamo visto sopra in relazione ad altre asset class di investimento “alternativo”: diamanti, oro, opere d’arte etc. Non può però non considerarsi che molte “sedicenti” criptovalute mancano oggi (finora?) di quel carattere di oggettiva “negoziabilità”, riducendosi a meri schemi negoziali di investimento che trovano la loro genesi, il loro sviluppo e il loro esito all’interno della relativa intelaiatura negoziale che caratterizzerà, di volta in volta, ciascuna di quelle particolari piattaforme di investimento; in tal caso allora, ad evidenza, lo schema negoziale stesso in cui consisterebbe la “criptovaluta”, risulterà descrivibile in termini di “prodotto finanziario”, ricorrendone tutti i tratti sopra illustrati. E proprio questo ci appare l’approccio che emerge in alcuni dei recenti casi esaminati dalla Consob[26].
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, devono invece ritenersi, a nostro avviso, non pienamente convincenti – in quanto sistematicamente non coerenti e, comunque, non (ancora?) suffragate dall’elaborazione giurisprudenziale e dell’Autorità di Vigilanza – quelle letturedel fenomeno delle criptovalute che tendono ad una estrema dilatazione della nozione di “prodotto finanziario”, ben oltre i confini che possono oggi trarsi da quella risalente e approfondita elaborazione; dilatazione che avviene sulla base della ricostruzione di una categoria indefinita di “negozio di investimento”, in cui pare assumere rilevanza dominante (e sufficiente) il profilo soggettivo che guiderebbe l’“investitore” e individuabile nella sua mera attitudine (aspettativa) “speculativa”[27]. In particolare, secondo tali ricostruzioni, l’elemento dell’elevata e intrinseca volatilità, oggi osservabile nel fenomeno delle criptovalute, varrebbe a giustificarne una oggettiva natura “speculativa”, di per sé, assimilandosi inestricabilmente la “finalità solutoria” con quella “di investimento”[28]. Qualsiasi schema di acquisto di criptovalute – a prescindere[29] allora da quegli altri ulteriori elementi negoziali che, nella citata elaborazione quale da ultimo riconfermata dall’Autorità di Vigilanza[30], paiono necessari affinché uno schema di investimento possa assurgere a “prodotto finanziario” e che invece risulterebbero qui superflui, perché assorbiti da quell’intima natura speculativa del “bene” criptovaluta – risulterebbe ipso facto soggetto alla disciplina applicabile ai “prodotti finanziari”[31]; conclusione dalle conseguenze assai impegnative[32], per la disciplina che risulterebbe applicabile, sotto molteplici e assai impattanti profili, come ora vedremo.
Nel caso di “piattaforme” che provvedessero alla promozione e collocamento di criptovalute ricostruibili, per quanto detto sopra, in termini di “prodotti finanziari” risulterà infatti applicabile sia ladisciplina della “offerta al pubblico”[33], ma anche quella della “promozione e collocamento a distanza”[34]: e ciò sia nel caso in cui – come già visto sopra in relazione agli “strumenti finanziari”, in virtù del particolare atteggiarsi del fenomeno esaminato, in cui spesso sfumano si sovrappongono ruoli e funzioni – la “piattaforma” sia essa stessa ricostruibile in termini di “emittente”, ovvero mantenga il ruolo di mero “intermediario”.
[1] Successive all’altra, pur recentissima Delibera Consob n. 20660 del 31 ottobre 2018, Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico residente in Italia avente ad oggetto “token TGA”, effettuata da Togacoin LTD anche tramite il sito internet https://togacoin.co.m. in relazione alla quale può rinviarsi al primo commento di A. Conso e L. Martinotti, Le ICO quali offerte al pubblico di prodotti finanziari nell’ultimo orientamento della Consob, in Dirittobancario, 13 novembre 2018.
[2] Delibera n. 20693 del 14 novembre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del Tuf, dell’offerta al pubblico avente ad oggetto la moneta digitale denominata “Crypton”; Delibera n. 20694 del 14 novembre 2018 – Sospensione, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. b), del Tuf, dell’attività pubblicitaria effettuata dal sig. Alessandro Brizzi tramite la propria pagina facebook relativa all’offerta al pubblico correlata all’acquisto della moneta digitale denominata “CRYPTON”.
[3] Con particolare riferimento alla tematica delle “criptovalute” può rinviarsi, oltre a quelle già sopra citate alle note 1 e 2, a: Delibera n. 19866 del 1° febbraio 2017 – Sospensione, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. b), del D.lgs. n. 58/1998, dell’attività pubblicitaria effettuata tramite il sito internet www.coinspace1.com relativa all’offerta al pubblico promossa dalla Coinspace Ltd. avente ad oggetto “pacchetti di estrazione di criptovalute“; Delibera n. 19968 del 20 aprile 2017 – Divieto, ai sensi dell’art. 101, comma 4, lett. c), del Tuf, dell’attività pubblicitaria effettuata tramite il sito internet www.coinspace1.com relativa all’offerta al pubblico promossa dalla Coinspace Ltd. avente ad oggetto “pacchetti di estrazione di criptovalute“; Delibera n. 20110 del 13 .9.2017, Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del Tuf, dell’offerta al pubblico residente in Italia effettuata dalla società Cryp Trade Capital avente ad oggetto investimenti di natura finanziaria promossi tramite il sito internet https://cryp.trade; Delibera n. 20346 del 21 marzo 2018 – Ordine, ai sensi dell’art. 7-octies, comma 1, lett. b), del Tuf, Ordine di porre termine alla violazione dell’art. 18 del Tuf posta in essere tramite il sito internet www.coinoa.com ; Delibera n. 20536 del 25 luglio 2018 – Ordine, ai sensi dell’art. 7-octies, comma 1, lett. b), del Tuf di porre termine alla violazione dell’art. 18 del Tuf posta in essere tramite il sito internet www.swisscci.com; Delibera n. 20381 del 13 aprile 2018, Ordine, ai sensi dell’art. 7-octies, comma 1, lett. b), del D. Lgs. n. 58/1998 Tuf di porre termine alla violazione dell’art. 18 del Tuf posta in essere tramite il sito internet www.royalcripto.com.
[4] Rimandando ad altra sede per una più approfondita e documentata disamina.
[5] Il tema della potenziale riconduzione – perlomeno in certi casi – delle criptovalute nell’ambito dei servizi di investimento è stato prospettato in via generale anche dalle Autorità di vigilanza sin dalle iniziali attenzioni che hanno riservato nel nascente fenomeno. Si vedano i documenti della Consob, Le criptovalute: che cosa sono e quali rischi si corrono; Rischi per i consumatori: valute virtuali e criptovalute, entrambi reperibili sul sito dell’Autorità. Anche la Banca d’Italia, nella nota Avvertenza sull’utilizzo delle cosiddette “valute virtuali” del 30.1.2015 osservava, per quanto in via generale e “prudenzialmente” come “In Italia, l’acquisto, l’utilizzo e l’accettazione in pagamento delle valute virtuali debbono allo stato ritenersi attività lecite; le parti sono libere di obbligarsi a corrispondere somme anche non espresse in valute aventi corso legale. Si richiama tuttavia l’attenzione sul fatto che le attività di emissione di valuta virtuale, conversione di moneta legale in valute virtuali e viceversa e gestione dei relativi schemi operativi potrebbero invece concretizzare, nell’ordinamento nazionale, la violazione di disposizioni normative, penalmente sanzionate, che riservano l’esercizio della relativa attività ai soli soggetti legittimati (artt. 130, 131 TUB per l’attività bancaria e l’attività di raccolta del risparmio; art. 131 ter TUB per la prestazione di servizi di pagamento; art. 166 TUF, per la prestazione di servizi di investimento)”(evidenza aggiunta).
[6] Si noti come anche la recente sentenza di Verona (cfr. Tribunale di Verona, 24 gennaio 2017, n. 195, commentata da M. Passaretta, “Bitcoin: il leading case italiano”, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 4, 2014, p. 471) che per prima si è occupata di bitcoin e che qualifica frettolosamente il fenomeno in termini di “strumenti finanziario”. Deve infine citarsi il primo sequestro, per “abusivismo finanziario”, di un sito di trading on line di criptovalute disposto to dal GIP di Roma nella primavera scorsa (sito Cripto.trade) .
[7] Termine che viene però normalmente usato in un’accezione ampia, tale da poter ricomprendere ciò che da noi pare normalmente riconducibile alla nostrana categoria tecnica di “prodotto finanziario”, piuttosto che a quella più circoscritta di “strumento finanziario”, ovvero di “valore mobiliare”.A livello internazionale, sono ormai molte le autorità di vigilanza che, al ricorrere di certe circostanze hanno ritenuto riconducibili le “criptovalute” nell’ambito delle “securities”: inter alia, cfr. L’autorità di vigilanza canadese nel document CSA Staff Notice 46-307, Cryptocurrency Offering,s del 24 agosto, 2017; l’autorità australiana nella nota Initial coin offerings, Information Sheet (INFO 225) del maggio 2018; l’autorità di Hong Kong, Securities and future Commission col suo Statement on initial Coin Offerings del 5 settembre 2017; l’autorità svizzera FINMA, nelle linee guida 4/2017 del 29 settembre 2017; l’autorità giapponese FSA nel suo warning del 27 ottobre 2017, nonché la European Securities and Markets Authority (ESMA) con i comunicati emessi in data 13 novembre 2017.
[8] In virtù della natura polverizzata (‘collettiva”) della “raccolta” di “risparmio” convogliato poi come “conferimento in” o “finanziamento di” iniziative di varia natura che, a loro volta, possono apparire “polverizzate” e che – a seconda del modello di business variamente osservabile sulle piattaforme, potrebbe giustificare una assimilazione del fenomeno qui in esame a quello dell’equity-based oinvestment-based crowfunding e, talora, anche a quello del lending-based crowfunding – non può escludersi altresì l’accostamento di taluni modelli operativi e di business del a quello della gestione collettiva del risparmio, chiamandosi allora in causa la disciplina applicabile oggi ai FIA.
[9] Categoria che pur appare passibile di “evoluzione” normativa, ad opera del MEF (sentita Consob e Banca d’Italia), al fine di tener conto dell’evoluzione dei mercati finanziari e degli orientamenti europei, come previsto nell’art. 18.5 del TUF.
[10] Diverso il caso in cui la valuta o anche criptovaluta sia il sottostante di “contratti finanziari differenziali”, che costituiscono sicuramente “strumenti finanziari”.
[11] IL condizionale è oggi imposto dalla non sempre immediata ricostruibilità dell’ orientamento sin qui adottato dalla Consob; in un recente caso (COINOA del marzo 2018) la Commissione ha infatti ritenuto che l’attività svolta da un sito di trading di bitcoin sul Forex fosse assimilabile tout court alla prestazione di “servizi di investimento” aventi ad oggetto “strumenti finanziari”, riproducendo un precedente orientamento del luglio 2017 nel caso SWISSCI, ove però la conclusione pareva giustificata dalla circostanza che la piattaforma in questione consentiva l’investimento in “ valuta, materie prime, indici e CFD”, e quindi in una serie di asset, alcuni dei quali sicuramente riconducibili a “strumenti finanziari”. Probabilmente, anche nel primo caso – seppur gli elementi desumibili dalla Delibera 20346/18 non aiutino granché l’interprete – l’oggetto di investimento non poteva ritenersi individuabili nella mera criptovaluta (conformemente al risalente orientamento in base al quale la mera “valuta” è stata sin qui tradizionalmente esclusa dal novero degli strumenti finanziari; v. già Consob, Comunicazione del 23. 9. 1996) ma in “contratti differenziali” come infatti tipicamente avviene sul mercato “Forex” (su cui v. Consob, Comunicazione a tutela dei risparmiatori sui rischi legati a investimenti in CFD e opzioni binarie, nonché la sezione dedicata a Cfd, forex e opzioni binarie sul sito Consob dedicato agli “abusivismi finanziari”). In definitiva quindi i “prodotti” considerati in entrambi i casi risultano riconducibili alla categoria degli “strumenti finanziari” sub specie di “contratti differenziali”, espressamente considerati nella Sezione C dell’Allegato I del TUF al punto (9). E tale conclusione pare altresì confermata nella Delibera Consob n. 20381 del 13 aprile 2018, in relazione al caso ROYALCRIPTO, riguardante infatti “contratti aventi ad oggetto – inter alia – criptovalute”. I casi successivamente analizzati dalla la Consob paiono diversi, (così i recentissimi casi di TOGACOIN e CRYPTON), risultando qui piuttosto applicare la categoria del “prodotto finanziario”; in questi casi la Consob è intervenuta a censurare il (solo) profilo dell’“offerta al pubblico” in violazione alla disciplina informativa del prospetto ((art. 94 TUF); probabilmente perché la valutazione dell’Autorità non ha potuto, nei casi esaminati, estendersi oltre la fase preliminare dell’offerta (o ancor meglio della “comunicazione” di essa al pubblico), non dandosi in quei casi (ancora) i presupposti per valutare e censurare altri delicati profili che ben potrebbero porsi, quelli cioè attinenti alla riserva e alle modalità di quell’offerta che, ragionevolmente avrebbe potuto comportare l’applicazione della disciplina dell’“offerta e collocamento a distanza di prodotti finanziari”. Per una più esatto riferimento ai provvedimenti Consob citati sopra si rinvia alla nota 2.
[12] E cioè le “criptovalute” in senso stretto – caratterizzate cioè da una funzione “monetaria” – e non, quindi, quella particolare tipologia riconducibile ai security tokens, su cui ci soffermeremo in appresso.
[13] In tal senso si esprime convintamente E. Girino, Criptovalute: un problema di legalità funzionale, inRivista di Diritto Bancario, 55, 2018, assimilando però discutibilmente la disciplina applicabile a “strumenti finanziari” e a “prodotti finanziari”.
[14] Si vedano i due noti provvedimenti PS10677 e PS10678 del settembre 2017.
[15] Il tema è stato affrontato dalla Consob in più occasioni. Si vedano i documenti Le criptovalute: che cosa sono e quali rischi si corrono e Rischi per i consumatori: valute virtuali e criptovalute, entrambi reperibili sul sito dell’Autorità.
[16] Occorrerebbe peraltro interrogarsi ulteriormente sulla possibilità che, sotto un profilo soggettivo, una “piattaforma” possa ritenersi un “emittente”, dovendosi allora necessariamente individuare il “soggetto” a cui essa possa essere a tal fine ricondotta , alla luce della nostrana disciplina della “raccolta del risparmio” e della nozione di “emittente” accolta in ambito europeo.
[17] Si osservi a tal riguardo come, nella elaborazione svolta sin qui dalla Consob, l’offerta si ritiene perlopiù rivolta a soggetti residenti in Italia e, quindi, sottoposta alla disciplina domestica anche solo in virtù del fatto che il sito web sia redatto in lingua italiana.
[18] In tal senso v. G. Gasparri, op cit.; P. IEMMA e N. CUPPINI, op cit, e M. PASSARETTA, op cit., 477, seppur, parrebbe, sulla base di una ricostruzione assai ampia della nozione di “prodotto finanziario” a cui il bitcoin sarebbe automaticamente riconducibile.
[19] Nei citati casi “Togacoin” e “Crypton”, v. sopra note 1 e 2 .
[20] L’orientamento della CONSOB in tal senso è costante, cfr. già nelle delibere 13 febbraio 2004 n. 14422, 10 dicembre 2003 n. 14347, 3 giugno 2003 n. 14110, 22 gennaio 2002 n. 13423, e le comunicazioni 19 dicembre 2003 n. DEM/3082035 e 12 aprile 2001 n. DEM/1027182.
[21] V. Comunicazione Consob, n. DTC/13038246 del 6 maggio 2013, in relazione al caso della compravendita di diamanti tramite canali bancari.
[22] Cfr. Comunicazione Consob n. 97006082 del 10 luglio 1997.
[23] Cosi, esplicitamente, ancora in relazione alla vendita di diamanti, v. da ultimo, Comunicazione “La Consob richiama l’attenzione del pubblico e degli intermediari sulla compravendita di diamanti”, 31 gennaio 2017, in “Consob Informa” n. 4/2017 del 6 febbraio 2017. Orientamento poi di recente ribadito anche in giurisprudenza da Cass civ. Sez. II, 12.3.2018, n. 5911, in relazione, nello specifico, ad un caso avente ad oggetto “opere d’arte”; per approfondimenti mi sia consentito rinviare a P. CARRIÈRE, L’“opera d’arte” nell’ordinamento finanziario italiano, di prossima pubblicazione in Banca, Impresa, Società, da cui, nel presente lavoro, attingo alcune delle riflessioni colà sviluppate.
[24] In senso conforme v. G. Gasparri, op cit.; P. Iemma e N. Cuppini, op cit, e M. Passaretta, op cit., 477, seppur, parrebbe, sulla base di una ricostruzione assai ampia della nozione di “prodotto finanziario” a cui il bitcoin sarebbe automaticamente riconducibile.
[25] Come oggi pare di potersi dire per il Bitcoin ma non solo.
[26] V. in particolare i due recentissimi casi CRYPTON, citati sopra in nota 2.
[27] Così conclude E. Girino, op. cit., in virtù di una riconduzione del fenomeno della “negoziazione di criptovalute” che presenterebbe, per sé, una oggettiva “funzionalità finanziaria”; peraltro facendo seguire discutibilmente a tale ricostruzione la conclusione che l’attività di negoziazione di criptovalute dovrebbe allora ricostruirsi in termini di “servizio di investimento”, conseguenza che semmai seguirebbe alla qualificazione – che può però eventualmente circoscriversi ai soli security tokens – in termini di “strumento finanziario”.
[28] Una tale approccio, sicuramente suggestivo, non convince nel momento in cui eleva il dato meramente “quantitativo” individuato nell’elevato (inusitato) grado di volatilità di questa asset class ad elemento “qualitativo” capace di mutarne la natura.
[29] V. ancor E. Girino, op. cit., il quale ritiene che “anche il mero scambio (di criptovaluta n.d.r.) non assistito da alcuna promessa o impegno a termine” qualificherebbe l’operazione come “negozio di investimento” e quindi come “prodotto di investimento”.
[30] Il citato recentissimo caso ((V. Delibera Consob n. 20660 del 21 ottobre 2018, Sospensione, ai sensi dell’art. 99, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 58/1998, dell’offerta al pubblico residente in italia avente ad oggetto “token TGA”, effettuata da Togacoin LTD anche tramite il sito internet https://togacoin.com) in cui la Consob si è pronunciata su una ICOs di token, la riconduzione dei token in questione ((che, pur nella sommarietà degli elementi ritraibili dalla Delibera Consob, parrebbero peraltro accostabili alla tipologia dei security token, da “emettersi” nell’ambito di una operazione di crowfunfing) nell’ambito della categoria del “prodotto finanziario” pare infatti avvenuta sulla scorta del citato approccio analitico che richiede, oltre all’aspettativa “speculativa del cliente” (impiego di capitale- attesa di rendimento -assunzione di rischio finanziario) anche la predisposizione di uno schema negoziale che implichi ed espliciti un tale elemento causale e che nella fattispecie era rinvenibile nella circostanza che l’aspettativa di rendimento, ricompreso tra un minimo e un massimo predefinito calcolato in percentuale rispetto al capitale conferito, era oggetto della proposta negoziale e che, conseguentemente, il rendimento il rendimento sarebbe stato corrisposto dalla stessa piattaforma di Togacoin LTD.[31] Peraltro, occorrerebbe precisare come una tale conclusione, (che noi riteniamo non condivisibile), potrebbe conseguire non solo per effetto della natura di “prodotto finanziario” ma, con riguardo alla disciplina del “prospetto”, solo ove di esso ne fosse fatta una “offerta pubblica”, cosa che, per la verità, che nelle ICOs appare inevitabile, come pare riconosciuto nella recente, Citata delibera Consob n. 20660 del 21 ottobre 2018.
[32] Secondo il citato autore, viceversa, la conseguenza di tale impostazione non andrebbe “drammatizzata nelle sue concrete applicazioni” (così, E. Girino, op. cit.) potendo risultare applicabili i casi di inapplicabilità e le esenzioni di disciplina di cui, all’art 100 del TUF e 34-ter del Regolamento Emittenti. E tuttavia – a parte la rigidità di mantenersi nell’ambito dei rigidi paletti delineati da tale regime di “esenzione” che, per le modalità di svolgimento delle ICOs, potrebbero spesso risultare troppo vincolanti e difficilmente verificabili – l’autore non considera che il regime di esenzione considerato rileva limitatamente alla disciplina del prospetto mentre continuerebbero ad applicarsi i ben più rigidi e impegnativi vincoli della riserva di attività di “‘offerta fuori sede”, o meglio di “promozione e collocamento a distanza di prodotti finanziari” (attività la cui prestazione è consentita solo ai soggetti abilitati, e con le modalità comportamentali, previsti dal Tuf).
[33] Al fine di escludere l’applicazione della disciplina dell’“offerta al pubblico”, potrà poi, di volta in volta, valutarsi l’opportunità di strutturare il “servizio” con modalità tali da rendere comunque eventualmente applicabili le esenzioni normativamente previste. Pare da escludersi però che – al ricorrere delle esenzioni dalla disciplina dell’offerta al pubblico di prodotti finanziari – possano ritenersi comunque disapplicabile, ove ne ricorrano i relativi specifici presupposti, la disciplina dell’offerta “a distanza”.
[34] Negli orientamenti sin qui elaborati dalla Consob, nella sua opera di “vigilanza”, in materia di “criptovalute” può osservarsi una prevalenza della prospettiva analitica relativa alla disciplina della “offerta pubblica” – essendo riscontrabili molteplici interventi sanzionatori diretti sopra tutto (innanzitutto) a reprimere le violazioni della disciplina informativa del “prospetto”. Viceversa la Consob non pare ancora aver avuto occasione di censurare il profilo della violazione della riserva e della disciplina del “collocamento” o della “promozione e collocamento” a distanza, ciò presumibilmente perché l’intervento sanzionatoria si è potuto arrestato alla fase preliminare della offerta, ovvero della sua “comunicazione”, senza che potesse essere considerata la fase successiva della prestazione dell’attività riservata.