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Crisi bancaria e bail-in: prime noterelle sui decreti di recepimento della Direttiva BRRD

11 Febbraio 2016

Paolo Carrière, CBA Studio Legale e Tributario

Di cosa si parla in questo articolo

L’autore formula nel presente articolo alcune primissime considerazioni sul tema, di strettissima attualità, della nuova disciplina della crisi bancaria (c.d. “risoluzione” o talora “bail-in”) che dovranno costituire oggetto di ulteriori e ben più meditati approfondimenti, anche alla luce di quelle che risulteranno le prime applicazioni del nuovo quadro normativo. E da questo punto di vista, il “salvataggio” delle quattro banche (Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca Marche, Carichieti e Cassa di Risparmio di Ferrara) – anche se non già inquadrabile formalmente come “bail-in”, ma essendo inquadrabile nelle altre azioni di “risoluzione” – pare già porsi come una interessantissima palestra che contribuirà a costituire un primo autorevole prece-dente nell’ indicare percorsi applicativi e interpretativi che iniziano solo ora a plasmarsi. Già oggi, tuttavia, possono segnalarsi quelle che potrebbero apparire delle “storture” della normativa di nuovo recepimento che, se non opportunamente e celermente aggiustate, rischiano di generare incongruenze di sistema, instabilità e un contenzioso che si profila annoso[1].

 

1. Premessa

La sensazione che coglie il giurista una volta ultimata la lettura dei due decreti legislativi n.180 e n.181 del 16 novembre 2015[2] che hanno dato attuazione nel nostro ordinamento alla direttiva 2014/59/UE[3] sul “quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento” (c.d. “BRRD”) è per certi versi di spaesamento innanzi alla portata inedita dell’intervento e alla difficoltà di rintracciarne una coerenza ideologica di fondo[4].

Le finalità che si prefigge la direttiva in questione – recependo in parte soluzioni già sperimentate in alcuni ordinamenti anglosassoni a partire dalla crisi del 2008, in particolare col Banking Act inglese e con il Dodd-Frank Act statunitense e recepite nei “Key Attributes” elaborati dal Financial Stability Board[5] – sono certamente condivisibili; dotare gli Stati Membri di una legislazione sostanziale armonizzata per affrontare tempestivamente ed efficacemente le situazioni di “crisi” delle banche e delle sim, affinché non si determinino effetti sistemici, da un lato, e soluzioni diversificate nei vari ordinamenti nazionali che alterino la concorrenza all’interno dell’Unione, dall’altro. E tale finalità è perseguita dotando le autorità di vigilanza preposte di uno strumentario assai variegato che dovrebbe consentir loro di prevenire e gestire tali situazioni con massima tempestività e flessibilità. In particolare, viene introdotto (con effetto dallo scorso 1° gennaio 2016) il sistema del bail-in che dovrebbe consistere sostanzialmente in una “filosofia” di salvataggio basata non (più) sul ricorso a fonti esterne (il “bail-out” cioè, con interventi a carico della collettività, come avvenuto con le generose ricapitalizzazioni o prestiti d’emergenza da parte dei governi a cui si è assistito negli anni passato, ad es. nel caso Northern Rock[6], sotto la pressione psicologica del refrain too big to fail”) ma secondo un burden sharing in via prioritaria, a carico di azionisti e creditori della banca in crisi, di chi cioè ha (o dovrebbe aver) già consapevolmente accettato una qualche dose di rischio (seppur diversificata a seconda delle varie posizioni), e in via residuale sul sistema bancario[7].

Ciò premesso, come anticipato, sono davvero inedite la portata e la modalità dell’intervento, richiedendosi al giurista di muoversi su un terreno che pare, almeno di primo acchito, assai mobile[8]. Non si può in questa sede che limitarsi ad alcune primissime impressioni, dovendosi rimandare ad ulteriori e ben più meditati approfondimenti – anche alla luce di quelle che risulteranno le prime applicazioni del nuovo quadro normativo – conclusioni più fondate. E da questo punto di vista, il “salvataggio” delle quattro banche (Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Banca Marche, Carichieti e Cassa di Risparmio di Ferrara)[9] – anche se non già inquadrabile formalmente come “bail-in”, ma essendo inquadrabile nelle altre azioni di “risoluzione” – pare già porsi come una interessantissima palestra che contribuirà a costituire un primo autorevole precedente nell’ indicare percorsi applicativi e interpretativi che iniziano solo ora a plasmarsi.

Pur nella difficoltà di affrontare oggi con uno sguardo tecnico tali argomenti sottraendosi, nel momento in cui essi sono oggetto di aspro scontro politico, alle inevitabili semplificazioni e strumentalizzazioni che esso sempre presenta, al contempo urgente si pone una riflessione sul contenuto[10] (e sui tempi[11]) della riforma in esame, come già autorevolmente auspicato[12].

2. Una preliminare osservazione

L’opera a cui è stato chiamato il legislatore era qui effettivamente improba, come può evincersi subito sin dal titolo dei decreti, ove si è scelto di mantenere l’utilizzo della locuzione “enti creditizi” oggi propria del solo diritto europeo – di cui si è pertanto offerta qui una traduzione meramente letterale e non concettuale, di per sé impossibile – posto che dovrebbe essere ormai priva di alcun significato tecnico-giuridico nell’ordinamento domestico, essendo stata sostituita da ormai qualche decennio nell’ordinamento giuridico nostrano con quella di “banche”, come correttamente viene invece fatto nell’art.2 del d.lgs. n. 180/2015, laddove si descrive il suo ambito di applicazione. Ma la stessa modalità di recepimento della Direttiva lascia perplessi. A latere della faticosa e encomiabile opera di adeguamento della normativa domestica esistente alla direttiva comunitaria, nei limiti in cui ciò è stato ritenuto necessario e nel rispetto dell’architettura di sistema, (compito a cui è stato dedicato precipuamente il d.lgs. n. 181/2015) si è invece adottata (col d.lgs. n. 180/2015) quella che potrebbe apparire una scorciatoia, importando e sovrapponendo direttamente nel corpo dell’ordinamento buona parte della Direttiva così com’è (paiono invece direttamente innestati nel corpo del TUB e del TUF, ad opera del primo decreto citato, interi blocchi di disciplina, quali la disciplina dei “piani di risanamento” e delle “misure di intervento precoce”). Col d.lgs. n. 180/2015 ci si è dunque limitati sostanzialmente ad un’operazione di traduzione – operazione come visto non sempre possibile peraltro – e ai necessari collegamenti normativi, lasciando quindi totalmente in mano all’interprete la difficile soluzione della corretta collocazione sistematica della nuova disciplina. Ad onor del vero, come detto, il compito del legislatore nazionale appariva qui assai vincolato e quanto mai difficile, dovendoci allora interrogare sul senso residuo di uno sforzo, che appare sempre più disperato e vano, di adeguamento difficilissimo (e talora impossibile) di 28 ordinamenti nazionali – ciascuno dei quali con una diversa tradizione giuridica alle spalle – alla normativa comune europea; sforzo che sembra spesso giustificato solo dalla difesa di antistoriche sovranità nazionali in quella che appare una battaglia di retroguardia. Sul faticoso cammino di costruzione dell’Europa comune, tutto ciò appare sempre più un vuoto ossequio alla tradizione, a maggior ragione nel momento in cui ci si muova ormai, come qui, sul terreno di una lex mercatoria (o meglio, argentaria), sovranazionale, e destinata ad essere applicata da apparati tecnocratici, largamente autoreferenziali e unici depositari del necessario sapere[13].

3. Abituarsi a nuovi concetti?

Locuzioni e concetti sconosciuti vengono inaugurati nell’ordinamento giuridico, (e tra tutti svetta quello della “risoluzione”) affiancandosi, sovrapponendosi o confondendosi con quelli oggi conosciuti in un quadro di non facilissima comprensione e ricomposizione; ma alla fine, al di là delle locuzioni nuove o atecniche utilizzate, pur sempre si tratterà dei notori strumenti (cessioni di beni, accolli, cessioni d’aziende o di rami d’azienda, cessione in blocco di rapporti, conferimenti, scorpori, fusioni e scissioni, riduzioni, aumenti o conversioni di capitale…) e quindi pur sempre da inquadrarsi nei loro conosciuti confini civilistici, societari e fiscali, ove non espressamente derogati ; cosa che per la verità avviene ampiamente…in certi casi, verrebbe da dire, fino a snaturarli (si veda ad es. l’elenco di cui all’ art. 99 del d.lgs. n. 180/2015, pur essendo il decreto disseminato di altre previsioni derogatorie del diritto comune).

4. Ripensare/stemperare l’impianto autoreferenziale a cui è oggi affidata la crisi bancaria?

L’ambito di intervento dell’“autorità di risoluzione” pare davvero illimitato e per certo verso inedito; in sostanza, essa può intervenire con massima discrezionalità e ampiezza di poteri (eventualmente ritornando a posteriori a ridefinire gli effetti del suo stesso intervento: si veda lo strumento di rimedio del write-up di cui all’art. 89 del d.lgs. n. 180/2015). Esce rafforzato il carattere di un sistema normativo autonomo, e per certi versi autoreferenziale, sottratto a ogni forma di controllo esterno – qui anche di quelli individuabili nel topos del “mercato” e per molti versi anche di quello giurisdizionale – come meglio si dirà in seguito[14]. La discrezionalità del vigilatore appare estrema e, perlomeno nella sostanza, illimitata, posto che i paletti che pur vengono previsti, (ad esempio il principio del no creditor worse off, previsto dall’art. 87 del d.lgs. n. 180/2015 e rimesso, nell’articolo successivo, ad una difficilissima valutazione di un terzo indipendente) risulteranno alla prova dei fatti inevitabilmente dotati di una enorme discrezionalità intrinseca, come tale insindacabile, una sorta di banking judgement rule. La tendenza all’autoreferenzialità del “sistema bancario” nella gestione delle crisi bancarie non è peraltro che non fosse fenomeno già ben conosciuto nella previgente disciplina del TUB con riguardo alle procedure dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa; e tuttavia, a fronte, da un lato, degli ulteriormente accresciuti margini di discrezionalità dell’Autorità di Vigilanza e, dall’altro, della proclamata opzione legislativa di ricondurre la crisi bancaria agli ordinari meccanismi di sopportazione dei rischi del dissesto (“bail-in”), può legittimamente domandarsi se tale impianto di autoreferenzialità (che stempera oggi notevolmente la possibilità di ricorso diretto agli ordinari strumenti di tutela giurisdizionale, v. oltre punto 9) non possa essere riconsiderato[15].

5. Ridare armonia al sistema?

Senza voler esprimere qui valutazioni di politica del diritto sulle opzioni sottese all’intervento normativo, la perplessità maggiore è su come potrà conciliarsi una filosofia di intervento palesemente dirigistica e di stampo pubblicistico (che pare riportare il pendolo verso la Legge Bancaria del 1936, scolorendosi alquanto la svolta ideologica del TUB del 1993), con un impianto che è e rimane – almeno formalmente e vieppiù sostanzialmente sul lato del burden sharing della crisi – privatistico (e liberistico?). Inedita appare l’attitudine della “risoluzione” ad incidere non solo sul patrimonio del soggetto in crisi – come normalmente avviene in ogni procedura concorsuale – ma anche sulla sua organizzazione corporativa e financo sul suo assetto proprietario e, sia consentito dire, “esistenziale”, con effetti di tipo espropriativo (wipe-out) o diluitivo che non potranno non esporsi a censure anche di tipo costituzionale. Similmente inedita appare l’’attitudine della “risoluzione” a determinare – anche ben oltre i limiti attuali ricostruibili ad es. nel concordato che trova pur sempre la fonte in una volontà esponenziale dei creditori – conversioni forzose di crediti in equity, fino a poter mutare radicalmente lo status del creditore in quello di azionista; con tutto ciò che ne consegue, pur essendosi sterilizzati alcuni pericolosi effetti (ma non tutti, ad es. quelli antitrust) di tale forzata conversione, ad esempio quelli dell’opa obbligatoria.

In quella che appare, nell’intervento normativo in esame, una filosofia di fondo alquanto schizofrenica, la banca rischierà di diventare una creatura ibrida perché, da un lato, dotata di capitali privati sottoposti alla rigida logica privatisica del burden sharing ma, dall’altro e paradossalmente, esposta alle determinazioni (e magari al potenziale capriccio) di una governance pubblica?; e ciò soprattutto nei momenti più critici, quelli delle “scelte irrevocabili”[16] tra risanamento o estinzione del soggetto societario in crisi che non possono che esser rimesse ai “proprietari”, residual claimants, sostenitori del rischio di impresa (oggi così riaffermato con decisione in capo ad essi)? Un vuoto simulacro della spa in cui – non solo a fronte di una crisi conclamata, ma anche qualora essa appaia prospetticamente solo prevedibile – i tradizionali principi che presiedono al suo assetto di governance, tuttora ruotanti attorno all’asse del binomio “rischio-potere perderanno definitivamente alcun significato e capacità regolatoria perché cedevoli, proprio nel momento del bisogno, al factum principis? E ancora, risulteranno potenzialmente alterati i meccanismi di contendibilità del controllo oggi affidati al mercato e alla disciplina del TUF? (si vedano le ampie deroghe alla disciplina dell’opa obbligatoria di cui agli artt. 53 e 99.6 del d.lgs. n. 180/2015 che forse potevano esser meglio coordinati con i presupposti dell’”esenzione da crisi” attualmente già ben disciplinati dal TUF e dal Regolamento Emittenti ove viene a considerato il solo caso di una “crisi” conclamata e prevedendosi, per i casi più “dubbi”, meccanismi di c.d. whitewash che rimettono la valutazione in merito alla rinuncia all’exit, in capo agli azionisti)[17].

6. Ridefinire i confini delle procedure?

Davanti alla scelta da parte del legislatore di non prendere una posizione chiara, è difficile comprendere se la nuova disciplina della “risoluzione” introduca un nuova procedura (ed effettivamente essa così viene esplicitamente qualificata nel nuovo art. 69-bis del TUB introdotto dall’ art. 1.11 del d.lgs. n. 181/2015, diversamente da quanto era stato evidenziato nella più avveduta dottrina[18] che aveva sin qui analizzato la Direttiva), o se la “risoluzione” si affianchi/sovrapponga alle procedure esistenti, l’amministrazione straordinaria e la liquidazione coatta amministrativa bancaria, arricchendole di possibilità e strumenti giuridici. Peraltro, come detto, non è che la procedura di liquidazione coatta amministrativa bancaria (lcab) che fino ad oggi ha disciplinato (e che pur continuerà a disciplinare, in un coordinamento con la nuova disciplina che non pare di facile e immediata comprensione) le situazioni di grave crisi e di insolvenza bancaria non avesse già accesso a strumenti di gestione della crisi per molti versi equiparabili. La “risoluzione”, quindi costituisce una nuova procedura o una variante operativa dell’amministrazione straordinaria e della lca? E come si coordina con tali “classiche” procedure, esse stesse peraltro ampiamente rimaneggiate dal d.lgs. n. 181/2015? Mantiene senso l’attuale graduazione dei presupposti di innesco delle diverse procedure e la conseguente graduazione di poteri rimessi all’autorità di vigilanza/risoluzione? La stessa ricostruzione dei presupposti dei vari interventi non appare immediata dal combinato disposto degli artt. 17, 20, 32 e 36 del d.lgs. n. 180/2015 e dagli artt. 70 e 80 del TUB, come ora riarticolati dal d.lgs. n. 181/2015, (che rinviano a loro volta proprio agli stessi artt. 17 e 20 del d.lgs. n. 180/201, articoli). “Crisi”, “dissesto”, “rischio di dissesto”, “insolvenza”, “risanamento”, “interesse pubblico” … la ricomposizione del quadro impegnerà gli interpreti in una actio fìnium regundorum tutt’altro che semplice.

7. Precisare i presupposti di innesco della risoluzione?

Alquanto sfumati e in parte coincidenti appaiono oggi i presupposti di innesco e i conseguenti poteri di intervento della “risoluzione” rispetto a quelli delle “altre” procedure e questo – diversamente dalle tematiche di inquadramento sistematico cui si è sopra accennato e che potranno apparire sofismi da addetti ai lavori – pare uno dei profili di maggior delicatezza e concretezza. Se cioè è circostanza già ben conosciuta quella dell’arretramento delle tutele e dei diritti in sede di amministrazione straordinaria o di lcab al ricorrere dei rigorosi presupposti di accesso alle procedure (per quanto, come noto, talora fumosi o di difficile riconoscibilità concreta), qui l’area di discrezionalità per decidere quando darsi luogo alla “risoluzione” e all’applicazione dei conseguenti poteri appare davvero assai ampia. Quei poteri così fortemente invasivi e limitativi dell’autonomia privata non solo a livello digovernance ma oggi addirittura a livello di assetti proprietari potranno infatti ora scattare anche quando, in base ad un giudizio prognostico, “elementi oggettivi indicano che” situazioni di crisi “si realizzeranno nel prossimo futuro”! (così è descritto il “rischio di dissesto” all’art.17 del d.lgs. n. 180/2015). Tali elementi oggettivi dovrebbero almeno essere esplicitati in anticipo.

8. Ripensare alle tradizionali categorie capitale di rischio/capitale di credito?

L’architettura di sistema che esce dalla nuova normativa non potrà non avere un effetto sul mercato dei capitali in termini di pricing degli strumenti finanziari emessi dalle banche e di costo del loro capitale, modificandosi la percezione del rischio che fin qui era drogata dall’aspettativa di interventi pubblici di “salvataggio” e che da oggi paiono invece accantonati a favore di una più sana e trasparente gerarchia nel burden sharing della crisi, scongiurandosi così atteggiamenti opportunistici e di moral hazard a cui si è pur assistito nel passato da parte degli azionisti. Certo, quando l’attivazione anticipata di meccanismi di riduzione/conversione del capitale – sia essa come misura preventiva della risoluzione ex Capo II del d.lgs. n. 180/2015, ovvero come misura di risoluzione, il bail-in vero e proprio, ex Capo IV, Sezione III, del d.lgs. n. 180/2015 – non avvenga a fronte di una scelta consapevole degli azionisti o dei creditori (assunta in sede di sottoscrizione iniziale o in sede concordataria) e in una situazione di crisi irreversibile che inneschi una ordinata procedura liquidatoria concorsuale del patrimonio, nel rispetto delle gerarchie legali e nella quale l’estinzione della società si pone come un punto finale di arrivo, (non più peraltro scontato), bensì in continuità del soggetto sottoposto a risoluzione in situazioni in cui la sua crisi può anche esser solo eventuale, occorre chiedersi quale senso residuo mantenga la distinzione tra “capitale di rischio” e capitale di credito”, e tra obbligazioni “subordinate “ e obbligazioni “convertende”, parendoci sfumare ogni distinzione per effetto della trasformabilità d’imperio delle obbligazioni (pur subordinate) in contingent-convertible bonds.

9. Ripristinare strumenti di tutela giurisdizionale oggi assai depotenziati?

Alla luce dell’allarme sociale generato dai casi di cui si discute e dei rischi accresciuti di autoreferenzialità del sistema (v. sopra, punto 4), occorre interrogarsi fino a che punto sia oggi giustificato e opportuno ribadire un’ approccio già presente nella lcab, volto a sottrarre per molti versi la crisi bancaria al consueto vaglio del controllo giurisdizionale, ulteriormente depotenziato per effetto del d.lgs. n. 180/2015 anche oltre la già vigente sottrazione delle banche al controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. a cui sono invece sottoposte tutte le altre s.p.a.(si vedano in particolare, a tal fine, gli artt. 26, 89 e 95 del d.lgs. n. 180/2015). Come tradizionalmente già avveniva nella disciplina della crisi bancaria disciplinata nel TUB – ma qui la scelta legislativa potrebbe esser ancor più discutibile alla luce dell’accresciuta ampiezza e discrezionalità dei poteri esercitabili autoritativamente sulla struttura proprietaria e sui diritti di credito (anche in assenza di una procedura concorsuale), e della dichiarata opzione “ideologica” di ricondurre la crisi bancaria agli ordinari meccanismi di sopportazione dei rischi del dissesto (il burden sharing privatistico tipico del “bail-in”) – l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori che fossero responsabili del dissesto, è oggi rimessa in mano, ancora una volta, all’autorità di vigilanza che deve autorizzarla (v. art. 35.3 d.lgs. n. 180/2015, analogamente all’art. 84.5 del TUB[19]). Ancor più oggetto di riconsiderazione alla luce dell’intera nuova disciplina e dell’opzione ideologica ad essa sottesa (e giuridicamente più discutibile, non essendo questa neppure una azione “sociale”, e neppur tale soluzione risultando imposta dalla Direttiva BRRD) parrebbe dover essere oggi la norma che rimette (e rimetteva già, nell’art 84.5 del TUB, ma non nell’art 72.5 con riguardo all’amministrazione straordinaria[20]) anche l’azione risarcitoria dei creditori sociali nelle mani dell’Autorità di Vigilanza[21]!

10. Ripensare alla filosofia del salvataggio?

Non meno problematico appare intuire come si concilieranno il principio della proprietà privata e il senso più profondo della governance societaria con procedure di “risoluzione” che potrebbero espropriare gli azionisti non solo di ogni decisione sulla gestione della crisi – o anche della mera pre-crisi – che abbia colpito la loro (?) società ma altresì da ogni valore implicito nell’impresa di cui sono titolari o, comunque, da ogni valore che potrà emergere dal percorso di risanamento/salvataggio intrapreso con la risoluzione autoritativamente imposta (si veda ad es. la previsione di cui all’art.44.4 del d.lgs. n. 180/2015 in base alla quale l’eventuale residuo attivo di liquidazione degli enti “ponte” è previsto che sia distribuito tra i soci di questi ultimi che evidentemente non sono i soci dell’ente “risolto” su cui si è già abbattuta la perdita). In particolare, per fugare dannose dietrologie che già serpeggiano sulla reale finalità del “salvataggio” delle quattro banche, , occorrerà riconsiderare l’applicazione del principio no creditor worse off sancito negli artt. 52, 2., b), 87 e 88 del medesimo decreto che cristallizza, per azionisti e creditori, in una valutazione comparativa meramente statica, quello che sarebbe stato l’esito di una lcab al “momento in cui è stata accertata la sussistenza dei presupposti per l’avvio della risoluzione”. La “risoluzione” rischia quindi di poter incidere – ben oltre i limiti attuali ricostruibili nel concordato e qui più comprensibili perché rimessi ad una volontà, seppur esponenziale, dei creditori – sul principio già invero recessivo della “par condicio creditorum”, consentendo di configurare soluzioni di recupero dalla crisi che escludono di fatto gli azionisti e i creditori, inizialmente sacrificati dalle doverose o opportune operazioni di riduzione/conversione del capitale, da ogni successiva partecipazione al valore generato dall’operazione di risanamento; o talora, secondo una delle tecniche di “risoluzione”, la partecipazione differenziata dei creditori a quel valore, per effetto della crudele selezione discrezionale tra fortunati creditori “buoni” (che rimarranno o finiranno cioè con una “banca buona”) e sfortunati creditori “cattivi” (che rimarranno o finiranno invece con una “banca cattiva”)[22].

11. Ridefinire il perimetro della tutela del risparmio nella raccolta bancaria?

Occorrerà soffermarsi a riconsiderare l’ attitudine della waterfall prevista per l’assorbimento delle perdite disegnata dalla disciplina della “riduzione o conversione” del Capo II del d.lgs. n. 180/2015 o dal bail-in (si vedano a tal riguardo l’art. 49 del d.lgs. n. 180/2015 e il nuovo art.91, 1-bis del TUB), a produrre una violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e di tutela del risparmio, ove si abbia presente che le obbligazioni bancarie, per la maggioranza dei sottoscrittori retail (a cui, la sottoscrizione diretta dovrebbe forse, e oggi a maggior ragione, esser vietata, specie se le obbligazioni sono emesse e “offerte” loro dalla banca di cui sono già clienti…), non rappresentano tanto una operazione di consapevole “finanziamento” di un’attività di impresa a rischio (come dovrebbe essere nell’ipotesi consueta) ma operazioni di mero “investimento” di risparmio che infatti, dal lato delle banche, costituisce una delle modalità della raccolta, al pari dei depositi, di talché, al di là della veste formale assunta, una tutela differenziata in termini di accesso alla garanzia del fondo interbancario delle rispettive posizioni creditorie, (ad esempio tra obbligazioni senior e depositi vincolati) , appare oggi a maggior ragione discutibile.

12. Ridefinire il perimetro della tutela della sollecitazione del risparmio nel collocamento di titoli oggi divenuti particolarmente rischiosi?

Ogni indicazione pare qui superflua, osservando come, per quanto di sua competenza, su tale profilo sia già tempestivamente intervenuta la Consob con la Comunicazione n. 0090430 del 24 novembre 2015; ogni più radicale e forse doveroso intervento è rimesso al legislatore.

 


[1] Si veda peraltro l’auspicio di revisione della normativa, formulato dallo stesso Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, in occasione del 22° congresso ASSIOM FOREX, Torino, 30 gennaio 2016.

[2] GU Serie Generale n. 267 del 16 novembre 2015.

[3] GU dell’Unione Europea L173/190 del 12 giugno 2014.

[4] Come meglio diremo oltre al successivo punto 5., a fronte dell’opzione filosofica sottostante all’intervento normativo tesa ad affermare un burden sharing della crisi bancaria di carattere marcatamente privatistico (il “bail-in”), si accresce – anche ben oltre i suoi tradizionali confini – l’intervento pubblicistico sull’impresa bancaria, permeando esso non solo ogni aspetto della sua governance ma intervenendo financo sul suo assetto proprietario e sulla sua prospettiva “esistenziale”; e ciò oggi tramite incisivi strumenti giuridici (e non più solo per via di moral suasion, come pur è avvenuto spesso nel passato).

[5] FSB, Key Attributes of Effective Resolution Regime for Financial Institutions, in:

http://www.financialstabilityboard.org/publications/r_111104cc.pdf.

[6] Cfr. T. Ariani – L. Giani, La tutela degli azionisti nelle crisi bancarie, in Riv. dir. soc., 2013, 721 ss.; R. Tomasic, Shareholder Litigation and the Financial Crisis – the Northern Rock Shareholder Appeal, in www.ssrn.com; Id., The rescue of Northern Rock; Nationalisation in the Shadow of Insolvency, in Corporate Rescue and Insolvency, 2008, 109.

Con riferimento al contenzioso scaturito dal salvataggio di Fortis Bank NV, si rinvia a Eva Hüpkes, Special bank resolution and shareholders’ rights: balancing competing interests, Journal of Financial Regulation and Compliance, 2009 (17), pp. 277 ss., p. 280.

[7] Per una ricostruzione del dibattito a livello europeo sui meccanismi di gestione delle crisi bancarie si rinvia a G. Boccuzzi, Towards a newframework for banking crisis management. The international debate and the Italian model, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale, n. 71, ottobre 2011; E. Galanti (a cura di), Cronologia della crisi 2007-2012, in Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale, n. 72, maggio 2013; A. Enria, La crisi in Eurpa, l’impatto sulle banche e la risposta delle autorità, in: http://www.eba.europa.eu/documents/10180/310352/Andrea-Enria—Lectio-Magistralis—Universita–Trento—20-Febbraio-2013.pdf.; S. Micossi, G. Bruzzone, J. Carmassi, The New European Framework for Managing Bank Crises, in Economic Policy, CEPS Policy Briefs, 21 novembre 2013, in: http://www.ceps.be/book/new-european-framework-managingbank-crises, e ancora, C. Brescia Morra, G. Mele, Una vera rivoluzione: il Single Resolution Mechanism, in FinRiskAlert, 12 marzo 2014, in: https://www.finriskalert.it/?p=530.

[8] Per prime considerazioni della nuova disciplina può rinviarsi a S. Cappiello, A. Capizzi, Prime considerazioni sullo strumento del bail-in: la conversione forzosa di debito in capitale, in atti del convegno Orizzonti del diritto commerciale, Roma, 21-22 febbraio 2014, in:

http://www.orizzontideldirittocommerciale.it/media/24571/cappiello_s._capizzi_a._def._30.01.14.pdf.; S. Gleeson, Legal Aspects of Bank Bail-Ins, LSE Financial Market Group Paper Series (gennaio 2012), in: http://www.lse.ac.uk/fmg/workingPapers/specialPapers/PDF/SP205.pdf.; M. Marcucci, Crisi bancarie e diritti degli azionisti, in atti del convegno CESIFIN, Diritto societario e crisi d’impresa, Firenze, 12 aprile 2013. Per una approfondita ricostruzione del meccanismo del bail-in si rinvia al documentato contributo pubblicato su questo sito www.dirittobancario.it da C. DI FALCO e M.G. MAMONE, Capire lo strumento del bail-in attraverso le linee guida e i regulatory technical standards della European Banking Authority (EBA), 2 febbraio 2016, laddove l’analisi si conclude osservando come “lo strumento del bail-in si contraddistingue per essere uno strumento innovativo ma molto complesso e di difficile applicazione perché potenzialmente soggetto ad ampia discrezionalità delle autorità di risoluzione nazionali

[9] Cfr. Decreto Legge 22 novembre 2015, n.183. Si potrebbe dire che si sia qui passati dalla filosofia del “too big to fail” a quella del “too small to save”. Parlare di “salvataggio” delle quattro note banche innanzi al dramma di tanti risparmiatori potrebbe apparire un appiattimento acritico su una narrazione consolatoria ed edulcorata della realtà. In tal senso, potevano forse essere configurabili altre strade per cercare di preservare i depositi dei risparmiatori e i livelli occupazionali; né il sacrificio frettolosamente consumato di azionisti e obbligazionisti (pur subordinati) può essere oggi presentato come l’imprescindibile pegno da pagare sull’altare della “continuità aziendale” e dell’esigenza di preservare i relativi valori produttivi e livelli occupazionali. Tali soluzioni risultavano infatti già potenzialmente perseguibili (e ampiamente perseguite nel passato) nella cornice di un ordinato percorso concorsuale quale quello disegnato dalla liquidazione coatta amministrativa bancaria (“lcab”, nell’ambito della quale già era prevista dagli artt. 90 e 93 del TUB la possibilità di ricorrere a soluzioni non necessariamente e immediatamente liquidatorie ma di continuità aziendale, che ben possano preservare quei valori produttivi e quei livelli occupazionali)”. Ciò che semmai può essere evidenziato è invece come quell’obiettivo di continuità e stabilità sia stato perseguito, nel caso specifico delle quattro banche, proprio ricorrendo ai nuovi strumenti della “risoluzione”, perché sicuramente più efficaci e celeri (certo, ci si potrà domandare, a quale prezzo ciò sia avvenuto per la stabilità del sistema, l’altro obiettivo a cui dovrebbe puntare la normativa). Ad oggi ci pare infatti di poter dire che l’intervento del governo – pur nella difficoltà di una compiuta perché oggi prematura valutazione, essendo esso tuttora in atto – ha sin qui chiamato a contribuire al salvataggio lo stesso sistema bancario che ha risposto responsabilmente stanziando a tal fine il ragguardevole importo di circa 3.6 miliardi. Ma la valutazione comparativa rispetto ai percorsi tradizionalmente sin qui adottati in altre occasioni nel passato non potrà farsi che alla fine dei conti, ad esito cioè dell’articolato e complesso percorso di “salvataggio” disegnato dal legislatore e oggi effettivamente affidato, occorre riconoscerlo, alle mani sapienti e rassicuranti dei migliori manager del settore. E tuttavia occorrerà che il percorso venga attentamente monitorato e se ne valutino gli esiti una volta portato a compimento: chi ci avrà guadagnato e chi invece ci avrà perso? Da questo punto di vista, come ora diremo (v. successivo punto 10 ), potrà esser opportuno un attento ripensamento della filosofia sottostante all’intervento normativo di cui al d.lgs. n. 180/2015.

[10] Pur nella consapevolezza che buona parte del contenuto della nuova disciplina è vincolato dalla norma europea, e tuttavia anche a livello europeo non sono mancate, come visto, critiche e richieste di revisione della Direttiva BRRD. A tal riguardo deve osservarsi come già la liquidazione coatta amministrativa bancaria presenta(va) di per sé tratti marcati di specificità rispetto alle ordinarie procedure concorsuali di diritto comune, specificità che diedero infatti luogo, all’atto della sua introduzione, a più d’una perplessità di costituzionalità che, sotto certi profili, non appaiono meno gravi di quelle che potrebbero essere sollevate oggi dalla “risoluzione”.

[11] Alla luce anche dei tragici risvolti della cronaca la saggezza della politica dovrà saper dosare con gradualità o con opportuni correttivi l’introduzione di questi pur auspicabili effetti, non potendo essi incidere d’emblée – in assenza di una cultura finanziaria diffusa che sin qui è mancata – sui risparmiatori titolari di strumenti finanziari emessi in un ben diverso passato (obbligazionisti più o meno subordinati o azionisti) e che fino a ieri sono stati indotti ad investire nei titoli emessi dalle banche pensando che fosse equivalente ad investire in titoli del debito pubblico.

[12] Si veda l’auspicio formulato dal Governatore della Banca d’Italia Visco di cui sopra alla nota 1.

[13] Su queste tematiche di tecnica legislativa si rinvia a O. Capolino, Il testo unico bancario e gli sviluppi della legislazione europea, in Law & Disorder, a cura di G.D. Mosco e A. Nuzzo, Analisi giuridica dell’economia, 2/2013, p. 493 ss.

[14] Si può qui rinviare alle osservazioni generali sul rapporto “concorrenza e banca” proposte da G. Visentini, Le filosofie della società per azioni e l’esperienza italiana, in Giur Comm., 2015, I, 751.

[15] Dall’ impianto della riforma esce rafforzata l’opzione “filosofica” (forse non del tutto sbagliata nelle intenzioni innanzi) che in un contesto così altamente complesso e delicato solo affidandosi ad una istanza altamente tecnica e competente – come si è fatto nel caso delle citate quattro banche – si potranno comporre con saggezza ed equilibrio interessi tra loro contrapposti. E tuttavia, dinnanzi a scelte che inevitabilmente sacrificheranno interessi e diritti di alcuni a favore di quelli di altri, o comunque sull’altare di concetti “politici” quali quello dell’”interesse pubblico” pur temperato dai principi assai vaghi della “parità di trattamento” e di “non discriminazione”, l’assenza (o comunque il depotenziamento) di quel controllo del mercato e ad-dirittura dei poteri del “giudice a Berlino” appare, almeno potenzialmente, discutibile.

[16] Rinviamo alle lucide considerazioni generali di G. Visentini, op. cit., 776, laddove osserva come “la selezione delle imprese efficienti nella concorrenza è regolata dalla dichiarazione giudiziale di insolvenza, automatico accertamento della crisi, con la conseguenza, anche, di rendere evidenti le responsabilità degli esponenti. Non è così per le banche, nei cui confronti è rimasta la regola Beneduce…”.

[17] Si veda F. Fauceglia, Commento all’art. 106, in M. Fratini-G. Gasparri (a cura di), Commento al Testo Unico della finanza, II, Milano, 2012, 1407.

[18] L. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la prospettiva europea, in Banca d’Italia, Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale. Dal Testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri. Atti del convegno tenutosi a Roma il 16 settembre 2013, n. 75, marzo 2014.

[19] Cfr. U. Patroni Griffi, Commento all’art. 84, in C. Costa (a cura di), Commento al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, II, Torino, 2013, 841.

[20] Cfr. N. Rocco di Torrepadula, Commento all’art. 72, in C. Costa (a cura di), Commento al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, II, Torino, 2013, 753.

[21] Sulla natura e la ratio dell’azione di responsabilità dei creditori sociali, può oggi rinviarsi alla approfondita e lucida ricostruzione offertane recentemente da M. FABIANI, Fondamento e azione per la responsabilità degli amministratori di s.p.a. verso i creditori sociali nella crisi dell’impresa, in Riv. Soc., 2015,272.

[22] Accenna a tale tematica L. Stanghellini, op. cit.

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