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Attualità

Cumulo dell’indennizzo assicurativo e risarcimento del danno

Nuove opportunità anche per chi scrive le polizze assicurative

21 Luglio 2023

Angelo Bonetta, Partner, Focus Team Assicurazioni, BonelliErede

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza il tema del cumulo in favore del danneggiato dell’indennizzo derivante dalla polizza assicurativa con il risarcimento pagato dal danneggiante, alla luce della recente sentenza del Tribunale di Milano dell’11 aprile 2023.


Taluni virgulti giuridici attecchiscono subito anche nel terreno dogmatico più arido. La non-teoria del danno esistenziale da lesione (ex art. 2043 c.c.) di qualunque diritto o interesse riscosse indiscusso favore presso danneggiati e avvocati perché indubbiamente accresceva le prospettive di risarcimento. La soluzione rispondeva ad aspettative concrete e diffuse, sostanzialmente degradando ad accidente eventuale la sua collocazione organica nel sistema della responsabilità civile italiana. L’importante era risarcire e risarcire di più. Si scontrò, però, infine con l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite che ne negarono radicalmente il fondamento, soprattutto perché il danno esistenziale conduceva o ad una duplicazione dei risarcimenti, o al risarcimento di lesioni sostanzialmente considerate in re ipsa e per di più estranee alla nozione di danno non patrimoniale presidiata dall’art. 2059 c.c., pur costituzionalmente ripensato.

Anche il tema della c.d. compensatio lucri cum damno si pone – per certi versi similmente – come un Giano Bifronte fra l’esigenza del danneggiato di vedere appagata la sua pretesa risarcitoria “prima e di più” e l’ambizione delle compagnie assicurative di proporre al mercato polizze realmente interessanti per i clienti. Per capirci: la prospettiva di pagare per molti anni un premio senza plausibile possibilità di attingere mai all’indennizzo potrebbe anche far apparire inutile la copertura al cliente al quale essa venisse proposta. Per contro, negare l’operatività della compensatio lucri cum damno accresce il risultato economico del danneggiato e rende ai suoi occhi più interessante il prodotto assicurativo.

La sentenza del Tribunale di Milano n. 2894 dell’11 aprile 2023, appunto, ammette il cumulo del risarcimento, dovuto dal danneggiante, con l’indennizzo, dovuto dalla compagnia, e per associazione di idee ripropone un po’ la medesima situazione di convergenza di interessi contingenti (anche dei difensori, che hanno modo di offrire ai clienti risultati economici più elevati). Si tratta di comprendere, allora, quanto vi sia da attendersi una presa di posizione contraria della Suprema Corte. Anzi: sarebbe più corretto parlare di posizione “nuovamente contraria”, in quanto è il Tribunale di Milano a porsi in consapevole e molto ponderato dissenso all’orientamento di legittimità che aveva escluso la compensatio lucri cum damno.

La vicenda, se vogliamo, era anche singolare: un milanese infastidito dal volume eccessivo di un artista di strada era sceso da casa per lamentarsi e il musicista aveva pensato bene di suonargliele. Nel giudizio civile risarcitorio il danneggiante oppose la notizia di un indennizzo già incassato dal danneggiato, idonea – a suo dire, ma non del Tribunale – ad elidere ogni ulteriore pretesa di risarcimento, in applicazione del noto orientamento di legittimità (risalente alle decisioni delle Sezioni Unite  nn. 12564, 12565, 12566, 12567 del 2018).

Anche la sentenza di Milano ricorda il principio di diritto secondo il qualenel caso in cui il danno e il vantaggio riposino su titoli differenti, l’operatività del principio della compensatio dipende dalla ragione giustificatrice, cioè dalla funzione del beneficio collaterale che, in conseguenza dell’illecito, è entrato nel patrimonio del danneggiato. Così, la compensatio opera quando la provvidenza erogata al danneggiato neutralizza la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo autore del fatto illecito. Viceversa, non può procedersi al suddetto defalco nel caso in cui il beneficio collaterale non mira a ristorare lo specifico pregiudizio cagionato dal responsabile, ma assolve ad una finalità diversa, quale può essere quella previdenziale tipica dell’assicurazione sulla vita o della pensione di reversibilità”. Quindi la sentenza può prescindere dall’altra ingombrante premessa delle Sezioni Unite, secondo la quale la previsione legale della rivalsa funge da “meccanismo di raccordo” tra il risarcimento del danno e il beneficio collaterale e scongiura il rischio che il danneggiante non risponda delle proprie negligenze e, al tempo stesso, evita un’ingiusta locupletazione del danneggiato in ossequio al principio indennitario. Nel caso di specie, la polizza esibita in giudizio escludeva la rivalsa e lo specifico dato fattuale è divenuto il trampolino di lancio per una più articolata riflessione giuridica, assumendo che l’assicurazione contro i danni (artt. 1904 e ss. c.c.) e l’assicurazione sulla vita (artt. 1919 e ss. c.c.) siano contratti diversi e non sovrapponibili e constatando che tali prodotti assicurativi non trovano un’esaustiva disciplina espressa, tanto che già dovettero intervenire le Sezioni Unite (sent. n. 5119/2002). Secondo il Tribunale: alle polizze contro infortuni non letali si devono applicare in prevalenza le norme sull’assicurazione contro i danni (e, specificamente, l’art. 1910 c.c.), perché l’infortunio non mortale, pur essendo un accadimento genericamente relativo alla “persona”, non è un “evento attinente alla vita umana” come concepito nell’assicurazione sulla vita dall’art. 1882, seconda parte, c.c.; inoltre, il danno menzionato nella prima parte dell’art. 1882 c.c. non si riferisce solo alle cose, ma anche ai pregiudizi alle persone, con la conseguenza che anche la polizza infortuni soggiace al “principio indennitario” sotteso alla disciplina delle assicurazioni contro i danni.

L’esclusione della rivalsa e la diversità delle coperture dei due contratti assicurativi sono, allora, i capisaldi da evidenziare anche a chi voglia confezionare il prodotto assicurativo in parola: non ha operato il principio della compensatio lucri cum damno perché quella specifica polizza era redatta con quel preciso scopo condiviso (che viene ricondotto alla nozione di “causa concreta” del contratto).

In terzo luogo, il giudice osserva che – come da prassi diffusa – al momento di contrarre la polizza, le parti avevano scelto di non ancorare l’importo dell’indennizzo ai valori monetari delle Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione giudiziale (e quindi integrale) del danno non patrimoniale, bensì avevano collegato l’indennità in rapporto percentuale ad una (pre)determinata somma assicurata. Altra annotazione da rimarcare: “nelle ipotesi in cui il capitale assicurato sia fissato convenzionalmente dalle parti, appare comunque arduo sostenere che, con detta stima, i contraenti abbiano inteso pattiziamente attribuire un “valore” alla persona dell’assicurato. Piuttosto (…) l’assicurato ha convenzionalmente individuato una somma su cui aver la certezza di poter contare nel malaugurato caso in cui si troverà a dover sopportare eventi traumatici invalidanti”.

Per vero, non ricorre esplicitamente nella sentenza un ulteriore argomento, forse ritenuto implicito, ma non secondario a conforto della medesima conclusione: nel caso di specie, il cumulo del risarcimento avveniva con l’indennizzo erogato non da una assicurazione pubblica o comunque obbligatoria (come in molti casi già trattati dalle Sezioni Unite), bensì da una assicurazione privata contratta su base volontaria. Orbene, se è lecito dubitare della stessa equità di un indennizzo erogato a spese di un sistema obbligatorio (quindi anche con la contribuzione di altri) ove il danno sia già stato risarcito, analogo dubbio potrebbe scemare ove l’indennizzo provenga pur sempre (almeno in prima battuta e certamente per i sinistri più modesti) dal denaro investito dal medesimo danneggiato che liberamente abbia scelto di allocare parte delle proprie ricchezze in una forma di protezione della qualità delle propria vita a seguito di un qualunque sinistro.

Ad ogni modo, il Tribunale giunge alla conclusione che le polizze infortuni siano contratti atipici, pur riconducibili al modello generale di cui all’art. 1882, seconda parte, c.c., essendo evidente che un infortunio è certamente “un evento attinente alla vita umana”. Prima, richiama il Regolamento ISVAP n. 29 del 16 marzo 2009 che, con riferimento alle assicurazioni per “malattie gravi” o alla copertura per la “non autosufficienza”, inserisce detti prodotti alternativamente nel ramo vita o nel ramo danni a seconda dell’articolazione complessiva dell’operazione negoziale. Poi, rilegge l’art. 2 d.lgs. n. 209/2005 (c.d. “Codice delle assicurazioni private”) che riconduce al ramo vita le assicurazioni contro infortuni purché in concreto stipulate per una durata poliennale e con clausola di non rescindibilità (cfr. Cass., sent. n. 9380/21). Quindi, arriva all’approdo, indubbiamente suggestivo, che “la polizza stipulata dalle parti, per come in concreto articolata, risponda ad una finalità previdenziale: il sig. P.B. ha inteso cautelarsi contro il rischio di morte o invalidità permanente, sopportando il pagamento di una serie di premi e assicurandosi la possibilità di poter celermente disporre, in caso di verificazione di un evento traumatico, di una somma di denaro certa nel suo ammontare e proporzionata – in quanto ancorata ad un prescelto capitale assicurato – non già al danno effettivamente patito, ma alla propria capacità di spesa e alla propria propensione all’investimento previdenziale. Il contratto assicurativo stipulato dal sig. P.B., quindi, lungi dall’assolvere una funzione di neutralizzazione di un pregiudizio subito, intende precipuamente garantire all’assicurato (o ai suoi familiari in caso di decesso) una provvidenza dallo stesso stimata come idonea” (interessante, sul punto, anche App. Milano 8.2.2022).

La decisione poggia non solo su un solido percorso argomentativo, ma anche su una scelta tattica di fondo: la motivazione – ampiamente avveduta del terreno minato nel quale si addentrava – finisce con lo spostare la soluzione dal piano dei principi generali a quello dell’interpretazione della specifica volontà delle parti in quel dato contratto assicurativo. In termini processuali, è una decisione sul fatto-contratto e non sul diritto e l’accorgimento – intuitivamente – riduce lo spazio per una censura in sede di legittimità, posto che, salvo limitati ed impervi casi, la Suprema Corte non potrebbe sindacare l’interpretazione del contratto, in questo caso assicurativo. Sul lato pratico, possiamo prosaicamente ribadire che la compensatio non opera quando il contratto assicurativo sia scritto in un certo modo; da qui la necessità di porre mente ai milestones della sentenza, in precedenza richiamati, con un caveat importante: il Tribunale di Milano constata che le parti vollero rinunciare alla rivalsa e non indaga la validità, per vero assai dibattuta, proprio di quella rinuncia…

Un primo orientamento, infatti, ritiene nulla la clausola di rinuncia alla surrogazione, in quanto sarebbe inderogabile il principio indennitario sotteso all’art. 1916 c.c. sostanzialmente per la stessa logica già richiamata: il legislatore avrebbe inteso scongiurare doppi pagamenti (risarcimento e indennizzo) e procurare un’efficienza del sistema-assicurazione (la rivalsa esercita un effetto deterrente sul potenziale danneggiante e consente all’assicuratore di recuperare l’esborso di quanto pagato al danneggiato). Sì è paventato anche il rischio che la rinuncia preventiva all’esercizio della surroga in favore dell’assicurazione incrementi le frodi al fine di cumulare artificiosamente risarcimento e indennizzo.

Un secondo filone di questo indirizzo perviene sempre all’esclusione della rinuncia della surrogazione assicurativa con un argomento diverso, affermando che l’art. 1916 c.c. resta una forma di surrogazione operante “di diritto” ex art 1203 n. 3 c.c.

Fra i favorevoli alla validità della rinuncia alla surroga, si distinguono due posizioni: l’una l’ammette non a favore dell’assicurato, bensì unicamente a favore del terzo responsabile del danno, affinché – appunto – non sia chiamato a rispondere dei danni né dall’assicuratore, né dall’assicurato. L’altra ammette la rinuncia generalizzata anche a favore dell’assicurato, osservando che l’art. 1916 c.c. non è menzionato nell’elenco delle disposizioni inderogabili tracciato dall’art 1932 c.c. (sebbene, per vero, l’art. 1932 c.c. si limiti a precostituire una linea di protezione per il solo assicurato e non risolva esattamente tutte le questioni connesse alla rinuncia alla surroga). In queste ultime due posizioni riaffiora come dirimente l’indagine sulla ratio dell’art. 1916 c.c.: la sua inderogabilità non è espressa e quindi chi voglia affermarla deve addentellarla a un limite implicito tale per cui la deroga non sarebbe giustificata neppure in un contratto atipico (per come qualificato dal Tribunale di Milano), stante il divieto posto dall’art. 1322 c.c.. In effetti, ove opera la surroga, l’assicuratore, pagato l’indennizzo, potrebbe cumulare ai premi assicurativi già incassati anche il ricavato dalla rivalsa contro il danneggiante. Invece, la pattuizione nel contratto assicurativo della rinuncia alla surroga di regola incide sul calcolo del premio, in quanto cresce il potenziale onere economico trasferito dall’assicurato all’assicuratore rispetto allo schema contemplato dall’art. 1916 c.c.. Non assume rilievo, nei rapporti tra assicurato e assicuratore, la solvibilità del terzo danneggiante e al realizzarsi del sinistro gli oneri economici che l’assicuratore deve sopportare non vengono ridotti. In ultima analisi, anche questo aspetto delle libertà, rispettivamente, dell’assicurato di contrarre una polizza accettando di (investire proprie risorse economiche e) pagare un premio più alto e dell’assicuratore di accollarsi un rischio economico maggiore in caso di sinistro sembrano rispondere a logiche diverse da quelle tipiche del contratto assicurativo regolato dall’art. 1916 c.c. senza apparire immeritevoli di tutela, né ingenerare distorsioni nel mercato. E proprio rispetto alla meritevolezza di questi interessi non sembra costituire una valida obiezione l’altro rischio – spesso invocato e di cui s’è fatto cenno – che l’intento di cumulare risarcimento e indennizzo potrebbe incentivare contegni autolesionistici dell’assicurato. Al netto del rilievo che un simile argomento condurrebbe all’assurda conclusione di far ritenere invalida la clausola di qualsiasi contratto ove solo una delle parti sia ispirata da un motivo fraudolento, resta il fatto che un simile rischio potrebbe dirsi forse apprezzabilmente plausibile nell’assicurazione dei danni a cose, ma non nelle polizze di danno alla salute, soprattutto ove operi una franchigia, tale per cui l’assicurato dovrebbe auto-infliggersi una lesione particolarmente invasiva. Se dobbiamo decidere il caso applicando – come suggerisce la Suprema Corte – le “massime di comune esperienza”, l’ipotesi formulata è assurda e la tesi ne risulta confermata. Basta appunto scrivere bene le polizze.

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