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Giurisprudenza

Datio in solutum revocabile a prescindere dallo strumento negoziale adottato per trasferire la res

28 Aprile 2016

Alberto Casazza

Cassazione Civile, Sez. I, 4 marzo 2016, n. 4265

Di cosa si parla in questo articolo

Nella revocatoria fallimentare, gli atti solutori afferenti a debiti di società collegate sono revocabili anche se posti in essere mediante una datio in solutum attuata nella forma di un contratto di compravendita, il quale «evidenzi l’intento dei contraenti per la mancata corresponsione del prezzo di vendita». Pertanto, a prescindere dalla gratuità od onerosità dell’attribuzione patrimoniale, si deve affermare che qualsiasi strumento negoziale adottato al fine di porre in essere una prestazione in luogo di adempimento risulta revocabile ai sensi dell’art. 67, c. 1, n. 2, l. fall.

Nel caso di specie, i commissari liquidatori di una società in a. s. avevano esperito un’azione revocatoria ai sensi dell’art. 67, c. 1, n. 2, l. fall. avverso una vendita immobiliare stipulata con un’altra società del gruppo, il cui prezzo era stato pagato tramite una cessione pro soluto di crediti della venditrice – compensati – e di terzi. In particolare, l’attrice adduceva che l’atto avrebbe dovuto essere considerato come un pagamento mediante datio in solutum di debiti della fallita o di altre società del medesimo gruppo e, in ogni caso, che l’atto stesso avrebbe dovuto essere revocato in ragione della sproporzione delle prestazioni, essendo stato il prezzo corrisposto mediante cessione di crediti vantati dall’acquirente nei confronti di società decotte. Sia in primo sia in secondo grado la domanda della società veniva respinta: in particolare, nel giudizio di appello i giudici hanno affermato che la fallita non era risultata affatto debitrice dell’acquirente, poiché quest’ultima aveva estinto il proprio debito (il corrispettivo della vendita) mediante cessione pro soluto di crediti vantati nei confronti di altre società. Tale forma di pagamento, ad avviso della Corte d’Appello, non poteva considerarsi alla stregua di una datio in solutum, poiché ne era derivata soltanto la sostituzione del soggetto creditore. La società venditrice, dunque, ricorreva in Cassazione, sostenendo in primo luogo l’omessa motivazione circa l’inesistenza del presupposto della posizione debitoria nei confronti dell’acquirente; in secondo luogo, la violazione dell’art. 67, c. 1, n. 2, l. fall., in quanto attraverso l’atto di vendita erano stati estinti debiti di società terze (pertanto, si sarebbe verificato un pagamento eseguito da un terzo ex art. 1180 c.c.); infine, un vizio di motivazione per esclusione della sproporzione delle prestazioni, dal momento che i crediti delle società terze sarebbero stati di valore esiguo a causa della situazione di insolvenza delle stesse.

I giudici di legittimità hanno accolto tutti i motivi di ricorso, cassando con rinvio la decisione di secondo grado: si è ritenuto, in particolare, che nel caso di specie gli atti posti in essere configurassero una datio in solutum – sempre suscettibile di revoca a prescindere dalla modalità con la quale è adottata – potendosi discutere soltanto della loro natura gratuita (nella fattispecie, esclusa in ragione della realizzazione di un vantaggio economico da parte della società disponente) od onerosa. Secondo la Corte, infatti, la funzione solutoria può essere ricavata dal pagamento di debiti altrui da parte del fallito, tenendo presente che l’atto è assoggettabile o al regime dell’inefficacia ex lege (riguardante gli atti gratuiti)oppure a quello della revocatoria (afferente agli atti onerosi, con onere della prova dell’onerosità in capo al creditore). Inoltre, ad avviso della Suprema Corte, nei giudizi di merito era stata omessa la motivazione circa l’inesistente valore di realizzo dei crediti, che aveva cagionato la sproporzione delle prestazioni e l’alterazione del sinallagma contrattuale.

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