Con la Sentenza in commento, la Corte di Cassazione si è trovata ancora una volta a definire quello che dovrebbe essere il corretto trattamento fiscale da riservare in caso di contabilizzazione di una o più perdite su crediti. In particolare, con la Sentenza in oggetto, i giudici di legittimità hanno chiarito che, non è necessario, al fine di ritenere deducibili dette perdite quali componenti negative del reddito di impresa, che il soggetto creditore fornisca la prova di essersi attivato per conseguire una dichiarazione giudiziale rivolta a certificare l’insolvenza del debitore, e di conseguenza, l’assoggettamento di quest’ultimo ad una delle procedure concorsuali, previste dall’art. 101 del D.p.R. 22 Dicembre 1986 n. 917, ritenendosi sufficiente che tali perdite risultino documentate in modo certo e preciso.
Infatti, secondo quanto disposto dal citato art. 101 le perdite divengono deducibili dal reddito di impresa, oltre che nel caso del debitore assoggettato a procedure concorsuali, anche quando risultino da elementi tali che portino a dimostrare che nonostante le azioni di recupero intraprese il recupero non ha avuto esito positivo.
Quanto sopra, sintetizza le conclusioni a cui è giunta la Cassazione con la pronuncia in oggetto a seguito del contenzioso instauratosi tra un contribuente e l’Agenzia delle Entrate che aveva ritenuto illegittima, tra l’altro, l’avvenuta deduzione di una perdita su crediti riveniente da un accordo transattivo sottoscritto tra il contribuente (creditore) e il debitore. Sul punto, i giudici di legittimità, sconfessando la tesi dell’Agenzia delle entrate in base alla quale la deducibilità della perdita in questione poggiava su elementi astratti e dunque manchevoli della certezza e della precisione, hanno chiarito che la deducibilità deriva prima di tutto dalla dimostrazione concreta che le azioni intraprese dal creditore per il recupero del credito non avevano portato ad un esito positivo.
Tale decisione risulta del tutto in linea con altre pronunce della Corte di Cassazione che si basano sul fatto che la valutazione positiva della deducibilità della perdita è comunque sempre fondata su elementi oggettivi, che rendono del tutto giustificata e ragionevole la scelta del creditore, di transigere, come in questo caso, per un importo sensibilmente inferiore alla pretesa originaria, invece che proseguire nell’azione di recupero risultata fino a quel momento infruttuosa (cfr. Sentenza Corte di Cassazione n. 10256/2013).
In particolare, è stato affermato che il principio di economicità gioca a favore dei contribuenti, che possono dedurre le perdite dimostrando che derivano da scelte effettuate in base ad un canone di convenienza economica legata allo svolgimento della propria attività imprenditoriale. Tale ragionamento appare pienamente condivisibile e di particolare rilevanza anche considerata la crisi economica, in cui imperversano diversi operatori, che sta rendendo sempre più difficile la riscossione dei crediti nei riguardi dei clienti. Risultano, di conseguenza, frequenti i casi di abbandono dell’azione per il recupero di tali crediti, in quanto la rinuncia agli stessi risulta maggiormente conveniente rispetto all’esperimento di azioni giudiziali e stragiudiziali nei confronti del debitore.
La Corte ha, in particolare, affermato che sono deducibili i crediti ai quali il contribuente abbia rinunciato non per la certezza dell’irrecuperabilità degli stessi ma per «la convenienza economica di mantenere buoni rapporti con le società debitrici in vista di future occasioni di commesse di lavori». È stato, quindi, dato rilievo alle rinunce ai crediti che non dipendono dalla loro assoluta irrecuperabilità ma da «scelte imprenditoriali inserite in una complessiva strategia aziendale rispondente a criteri di ragionevolezza ed economicità».